La notizia: la vecchia Unità pubblica alcuni articoli che ricevono querele per diffamazione. Mentre quelle querele vanno a giudizio, fallisce. Nessuno quindi difende i giornalisti in tribunale, nessuno li convoca. Senza difesa, i giornalisti vengono condannati. E siccome l’Unità è fallita, il tribunale chiede a loro di risarcire i diffamati. Manda ingiunzioni. Pignora.
Io sono un tipo pieno di pregiudizi. Quando ho letto la vicenda, prima di fare lo scroll della pagina che ospitava il resoconto della medesima, ho pensato che sarebbe stata pregna di commenti entusiasti. Ho scommesso con gli amici che sarebbero arrivati quelli che parlavano della classifica sulla libertà di stampa, che ci vede in coda per motivi ben diversi da quelli che molti ritengono. Ho predetto che molti avrebbero esultato ricordando i fondi elargiti ai giornali (che in massima parte peraltro non esistono più).
E ho stravinto.
Questo perché i giornalisti, in questo momento, in Italia, sono meno popolari degli ausiliari della sosta. E lo sono perché fanno più o meno lo stesso lavoro (quando lo fanno bene). Certificano le mancanze altrui.
Immagino la controdeduzione: quasi sempre lo fanno male. Sono servi. Non esistono editori puri. Eccetera. Beh, è vero solo in parte. Nonostante l’assenza di editori puri, nonostante un servilismo abbastanza diffuso – tipico di un Paese servile – ci sono fior di cronisti che ancora tengono fede non tanto al patto col lettore, quanto a quello con loro stessi quando abbracciarono il mestiere.
E per questo vengono intimoriti e vessati, mentre la gente intorno fa il tifo. Perché ha sposato l’approccio dei potenti (Renzi, Grillo, Berlusconi, Salvini, Marchionne, più o meno chiunque il consenso può persino comprarlo) e scambia le critiche, il diverso parere, persino le notizie che non ci piacciono come sinonimo di culi venduti, malafede, adesione a progetti più o meno dichiarati di tutela del singolo interesse, del nuovo ordine mondiale, di quello condominiale.
Oltre ai giornalisti e agli ausiliari della sosta, c’è un’altra categoria che in Italia risulta odiata trasversalmente: i giudici. Le sentenze si rispettano solo quando ci aggradano, altrimenti è complotto. E questo vale per chi copulava con le minorenni, per chi viene pescato col sorcio in bocca di una qualche nota spese gonfiata, per chi si ritrova in tribunale dopo aver frodato il fisco, carpito la fiducia di un vecchietto, esteso una mansarda. Tutti pensano: “Ma perché proprio a me? Il problema è ben altro”.
Quando il giornalista viene condannato, irriso, minacciato tangibilmente o con una querela temeraria, ridotto in condizioni di non fare il proprio lavoro, il potente gongola. E lo indica al cittadino perché ne goda anche lui. Lo rende complice. Mentre gli sfila il portafoglio, e un altro po’ di dignità. In questo Paesino triste, che sta insieme con la colla del risentimento.
Peggio per noi.
Che consentiamo a chi ci comanda di lucrare consenso, e consolidare il potere, sul nostro generico senso di colpa.
Anzi: sulla sua rimozione.
Si, è vero, siamo un paesino triste in cui molte persone non sono più in grado neppure di capire le parole che usano o quelle di cui si riempiono la bocca gli altri, gli idoli da indorare e difendere a spada tratta o i nemici da condannare a priori per ordine dei primi. Restando nel campo della stampa, basta vedere cosa (e come) spesso si scrive e, molto più spesso ed in modo ovviamente più esteso, cosa ne fanno i lettori di quanto viene scritto. Sembra non esista più un senso della critica, uno proprio, personale, non inculcato da altri: il partito dei “pro” difende le parole scritte, quello dei “contro” attacca a testa bassa contenuti, scrivente e suoi sostenitori e la faida si protrarre verso l’articolo successivo. Neppure la curiosità di sapere che volevano dire le parole usate o se avevano senso compiuto, ed ancor prima, se avessero attinenza con la realtà e fossero coerenti fa loro. Siamo un paesino triste, verissimo, ma forse neppure siamo un paesino, ma una accozzaglia di borghi ognuno fatto da una persona sola (triste pure quella) che insegue chi meglio i altri le promette di sfogare il proprio livore (perdé di essere piccolo e triste lo sa in cuor suo e quindi non dorme affatto bene) o di risollevarsi anche senza avere il merito di farlo (“toglieremo l’ICI”, ricordiamocelo). Altro che Stato, noi non abbiamo mai abbandonato l’epoca dei comuni, rispetto ad allora abbiamo solo perso il senso di appartenenza al comune medesimo. Spero la gente rinsavisca, perché così non c’è futuro ed intanto provo a tener sin esercizio il mio cervello, sperando i miei figli non si lo lascino atrofizzare il loro, neppure ascoltando me.Ti seguo sempre quando posso, Luca, continua così.
No Luca, ho letto un bel po’ di quelle lettere sul caso dei giornalisti dell’Unità costretti a pagare le spese processuali e ti assicuro che la gran parte è ad personam per l’ex direttore concita de gregorio, una questione di antipatia a pelle di una che ogni santo giorno sdottora su r ai3 e si sente un fenomeno; in realtà la gente ne ha pieni i coglions di pasionarie riccastre col paracadute garantito dai consueti partiti. Poi c’è la questione dei soldi pubblici, un tempo tantissimi non solo all’unità che cmq ne avrebbe ricevuti assai per fallire in tempi inspiegabilmente così brevi, e quella sì fa infuriare la gente. Naturalmente anch qui la colpa nn è dei giornalisti ma dell’azienda sciagurata e questo la gente lo sa. Non c’entra nulla il paese triste, e una volta tanto neanche Berlusconi, né i giornalisti mi paiono la categoria più odiata, al contrario dei giudici e dei banchieri. Abbraccione. Francesco Zucchini