Il caso Burioni: qualche considerazione più lunga di un tweet

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Burioni su Twitter paragona i No vax ai sorci, poi ritratta: Non lo  riscriverei | Sky TG24

Ho per Roberto Burioni molta stima. Oserei dire che mi ritengo suo amico, per quanto non ci siamo mai frequentati fuori dal virtuale. Gli sono amico in quanto riconoscente per il lavoro di divulgazione scientifica che ha fatto, sui vaccini, molto prima che osteggiarli diventasse la piattaforma mainstream su cui gli antagonisti un tanto al chilo, gli anarcoidi nostalgici all’italiana, hanno trovato rifugio. Per poi riversarsi su Putin. O su un altro trampolino a caso, comunque comodo e affollatissimo, dal quale sfogare la propria frustrazione avocando il proprio fallimento a un potere forte a caso.

Ciononostante, ogni tanto gli andrebbe periodicamente applicata la “mozione Calenda”, ossia l’occultamento coatto delle password di Twitter. Questo perché sui social gli capita di essere obnubilato dalla giusta causa valicando confini che non andrebbero violati. Ieri, ad esempio, un tizio della Lega ha fieramente annunciato che avrebbe evitato ogni ulteriore dose di vaccino, giustamente rimbeccato dal prof. Nel thread che ne è seguito, si sono affollati alcuni fan del leghista, tra cui una ragazza che il virologo ha schernito in base alle caratteristiche somatiche. Ne è nato un parapiglia cui sono seguite le scuse e la cancellazione dell’infelicissimo tweet. Scuse un po’ alla Fonzie, diciamo. Però scuse.

Alcune domande e un paio di considerazioni a latere.

Le domande:

Burioni ha sbagliato a fare quel tweet? Certo.

Aveva già sbagliato toni in precedenza? Certo.

Ha fatto bene a scusarsi? Certo.

Poteva scusarsi un po’ di più e meglio? Certo.

La prima considerazione: il disdicevole episodio non inficia minimamente la credibilità accademica di un tizio che nel suo campo resta un luminare. Di più: nel racconto del virus, è stato il più corretto e meno ideologico, aggiustando dati e prospettive in base alle evidenze che emergevano. Gli si rimproverano contraddizioni che non lo erano: si chiamano progressi scientifici.

La seconda considerazione (che ho già svolto in un tweet a sua volta molto commentato e, oserei dire, piuttosto travisato): mi risulta molto faticoso che a bastonare il reprobo siano i leader di partiti che hanno fatto del conflitto sociale, sempre verso i deboli, le reti per la pesca a strascico di consensi.

E mi infastidisce vieppiù che a fare massa sia quella specie di PUP (Partito Unico Paraculo) di cui fa parte un botto di gente, ossia la solita maggioranza che si comporta come una minoranza vessata: oltre a novax, putinisti, reazionari vari, si sono distinti per violenza verbale anche alcuni esponenti del centro moderato, i pupazzetti della Bestiolina, i siti che vivono mandando pizzini, insomma: la politica peggiore, che ne approfittato per vendicarsi non mi è ben chiaro di cosa. Ma loro lo sanno di sicuro.

Ovviamente c’è anche una fetta importante di persone in buonafede che si è limitata a sottolineare l’irricevibilità del commento. E con piena ragione. Anche a me è capitato di “andare lungo”, anche se lo faccio per mestiere, ma da qualche tempo ho smesso di celiare sull’aspetto altrui. Solo di battute su Brunetta ho dimezzato la Siae.

La shitstorm contro Burioni, al netto delle sue ragioni, è stata però trainata anche da mosche cocchiere che con con le campagne d’odio hanno costruito un patrimonio politico. Anche quelli che fingono di combattere il populismo.  

E no, l’indignazione – anche se motivata – non è tutta uguale.

Specie se della ragazza messa in mezzo, a una parte dei censori, non interessa assolutamente nulla.

Allora facciamo così: le chiedo scusa io. Senza se, senza ma. A prescindere dall’antipatia per le sue idee e dalla simpatia che posso provare per Burioni. Le chiedo scusa per quella battutaccia, per questo putiferio, per tutte le volte che ognuno di noi (io, almeno, di sicuro) ha valicato il limite attraverso la tastiera sbagliando tono, parole, bersagli.

Ché alla fine ‘sta storia può persino diventare una lezione. E il primo a recepirla, ne sono certo, sarà proprio Burioni.

Ma il punto, e questo volevo dire, e lo ribadisco, è che certa gente riesce ad avere torto persino quando ha ragione.

Di lavoratori fannulloni e pause caffè: un racconto

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Amico lettore, amica lettrice, oggi voglio corroborare la tua collezione di chissenefrega. Ti rivelerò dunque la mia smodata passione per il caffè. Anni fa, in una torrefazione di Milano, mi impegnai il monolocale in cui vivevo per acquistare sei bollenti centilitri di Kopi Luwak, una miscela che deve il suo aroma particolare all’essere passato tra i succhi gastrici di alcuni zibetti indonesiani. Esatto: lo espellono proprio in quel modo là, facendone la deiezione più costosa al mondo dopo alcuni Ddl del Parlamento italiano.

A tale proposito (del caffè, non del Parlamento) vorrei condividere una ricetta, una notizia, una considerazione macroeconomica.

La ricetta, intanto. Prendete alcuni cubetti di ghiaccio e posizionateli in un bicchiere. Aggiungete un espresso. Mescolate il liquido freddo così ottenuto con un cucchiaio di latte di mandorla. Avrete ottenuto una corroborante bibita estiva che in Salento pagherete come un normale caffè. A Roma dovrete invece ordinare un “caffè leccese” e spenderete qualcosa in più, specie se vi avvicinate al barista con un accento eccessivamente nordista. Una volta giunti a Bologna, la stessa medesima bevanda diventerà “caffè mediterraneo” e vi costerà, in un bar del centro, 3 euro e 50. Al banco. A Oslo immagino ti rapiscano la famiglia e chiedano il riscatto.

Il fixing bolognese è preciso al centesimo. Questo perché il bar che serve il “caffè mediterraneo” è un gradevolissimo locale a pochi passi dalle Due Torri nel quale il vostro scriba ha spesso sofferto file interminabili, dacché colà preparano bevande eccellenti, in un ambiente elegante, selezionando miscele che possono arrivare a costare anche 5 euro a tazzina. In piedi. Per non parlare dei beveroni a base di caffeina. Tutti buonissimi, tutti dispendiosissimi, come nelle altre tre sedi, una delle quali nei Paesi Baschi. Inoltre, la miscela in questione è servita e venduta anche in altri locali. E non pare conoscere crisi: sul sito, basta cliccare su un link per candidarsi ad aprire un nuovo bar conto terzi.

La storia, ora. Quel bar, il mio bar, è andato su tutti i giornali per l’ennesima puntata di una fiction molto popolare in questa estate 2022: “Dipendenti da incubo”. Diceva, il titolare, di aver dovuto chiudere una sede secondaria, un chiosco, sempre in pienissimo centro, perché non trovava personale, e questo nonostante offrisse nientemeno che 1300 euro di stipendio mensile. Gli stessi che immagino percepiscano i giovanotti e le giovanotte che da qualche tempo, nella sede principale, hanno sostituito dipendenti più anziani, i quali delibavano il caffè con una cura a metà tra un assistente della Regina Elisabetta e il patriarca Kyrill quando distribuisce incenso o compulsa il proprio conto corrente.

La considerazione macroeconomica, infine. I commenti sulla vicenda davano per certo che la renitenza al lavoro fosse l’esito del Reddito di Cittadinanza ed è molto probabile sia così. Mi permetto però di suggerire un’ipotesi alternativa. A Bologna un affitto accettabile costa non meno di 700 euro (in centro, con quella cifra, ci prendi una camera per studenti. In nero). Un rapporto anche periodico col cibo implica una spesa di una decina di euro al giorno. Le bollette possono costare altrettanto. Ergo, al fortunato vincitore di un posto da mescitore di caffè, cui immagino siano richieste esperienza, competenza, governo delle lingue straniere, resterebbero in tasca all’incirca 0 euro. Sempre che non decida per un formativo pane e acqua che gli permetta ulteriori margini di manovra da investire in generi da diporto.

Ora, al netto delle responsabilità di chi voleva abolire la povertà di tutti e ha principalmente abolito la propria, non sarà che 1300 euro sono pochi? Non sarà che socializzare il rischio d’impresa con stipendi ridicoli disincentiva chi dovrebbe “mettersi in gioco” al posto di chi sostiene di farlo? Perché l’imprenditoria non è una passeggiata di salute: se la scommessa va in porto, il jackpot se lo tiene – giustamente – chi ha fatto la puntata. Quindi: per quale ragione un cameriere dovrebbe accollarsi le difficoltà di chi prima guadagnava moltissimissimissimissimo e adesso guadagna, a occhio, solo moltissimo? E infine: perché chi gioca nella Juve, e quel caffè è la Juve, dunque i biglietti costano come per la Juve, ed è giusto sia così, dovrebbe essere pagato come chi gioca nel Bologna? Non sarà che anche le imprese virtuose, e quella in questione immagino lo sia, si sono adagiate su una narrazione dominante pigra, forse persino tossica, oso: classista?

Propongo dunque una soluzione: dategliene 1500, di stipendio, e vedrete che vengono. Lo so, è semplicistico. Chiedo scusa. Forse odoro di realismo magico. Ma non ditemi subito di no. Lasciatemi il tempo di bere un caffè in ghiaccio con latte di mandorla. A Lecce. Ché ‘sto mese tocca anche pagare le tasse e non ci starei col budget.

Prosit.

Aggiornamento Subito dopo il propalarsi della notizia, il bar in questione ha annunciato di essere stato subissato da curriculum e che dunque terrà aperto. Praticamente, ormai, usano i giornali per non pagare gli annunci di lavoro. E hanno ragione: ci caschiamo sempre.

Imprenditori benefattori e lavoratori irriconoscenti: una guida

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Ieri mattina, ora di colazione. Consumo brioche e cappuccino. Prima di uscire mi avvicino alla cassa per salutare e quelli, a tradimento, battono lo scontrino: 3 euro e 10. Ovviamente sbotto: “E che, si fa così?”. Non comprendono. Allora spiego: “Lei mi chiede subito del denaro senza nemmeno informarsi sui miei interessi, sui miei progetti, sulla mia storia personale …”. Niente: “Tre euro e dieci”. “Ma lei lo sa la fatica che la mia famiglia ha fatto per me? Lo sa quanto hanno speso per farmi studiare? Io i suoi 3 euro e dieci voglio poterli reinvestire per il progresso del Paese”. Minacciano di chiamare la polizia. Dialogante, mi gioco l’ultima carta: “Guardi, facciamo così: adesso esco e alle prime tre persone che incontro dico che il cappuccino era ottimo e la brioche freschissima. Vi pago in visibilità”. A momenti mi menano.

Naturalmente non è successo, perché nessuno sano di mente (anche se questo non mi esclude dal novero) si permetterebbe di dar vita a una scena del genere. Eppure la leggete ogni giorno quasi ovunque, con parole molto simili. Cambiano solo gli attori: imprenditori e imprenditrici, l’ultima Tiziana Fausti, ramo fashion, che lamentano pubblicamente la proattività deficitaria di chi cerca lavoro, specie i giovani. Questi fannulloni chiedono subito quanto prenderanno, si informano sugli straordinari, su possibili weekend liberi. Invece di empatizzare con chi li assume, che magari si è fatto da sé semplicemente ereditando una valigeria di lusso nel centro di Bergamo.

Ora, non so come dirlo a Fausti e a tanti altri, ma la roba che dicono loro si chiama socialismo. E non nel senso di social. Prevederebbe però che si socializzassero anche gli utili, oltre alla fatica e al rischio di impresa. Ma siccome (se Dio vuole) ha vinto il capitalismo, funziona diversamente. L’imprenditore rischia soldi, salute e posteriore in cambio di denaro frusciante. Ove gli vada bene, ovvio. L’impiegato non insegue il jackpot. Dunque si regola di conseguenza. Soprattutto se normalmente gli si chiedono esperienza minimo trentennale nel ramo del fitness, almeno una laurea, due master, quattro lingue tra cui zwahili parlato e scritto, e il posto offerto è quello di office cleaning self developer, cioè addetto alle pulizie.

Certo, una via di mezzo ci sarebbe. Quella tedesca, dove lavoratori e imprenditori condividono il “goal”, come credo direbbe Fausti, in cambio di salari molto più alti – siamo l’unico Paese in cui gli stipendi sono scesi, da vent’anni in qua – e diritti che in Italia abbiamo progressivamente smantellato. Un fordismo alla teutonica che peraltro in Europa fu inventato dagli italiani, cioè da Adriano Olivetti. Uno che oggi passerebbe come un pericoloso comunista, fuori dal mondo, schiavo dei sindacati. E che, coinvolgendo i dipendenti, creandone il welfare, aveva divorato fior di aziende a stelle e strisce. Mica un benefattore.

Noi però siamo (non sempre, ma troppo spesso) la Repubblica dei Gianluca Vacchi. Talmente abituati a un ecosistema del lavoro tossico che ce la prendiamo coi giovani. Quelli cui abbiamo mangiato futuro e pensioni. E anche la voglia di farsi domande. Facciamocene lo stesso: se non si trova personale a termine per la stagione estiva, sarà mica che per 800 euro in nero al mese la gente sta a casa? Se c’è chi al Sud preferisce il reddito di cittadinanza a un lavoro, sarà mica perché il lavoro è pagato uguale e forse in nero? Se la gente si dimette in massa, sarà mica perché il loro tempo ha la stessa dignità di quello delle Fauci e sono stanchi di farselo pagare due spicci?

Non rispondete subito. Prendetevi qualche minuto. Intanto pago la colazione.

Uscita ieri su La Stampa

Uno bravo. Tanto.

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Scrivere del Bologna sul giornale della città non era e non è una cosa facile. Devi mantenere equilibrio, senza rinunciare a dire la tua. Devi essere tecnico, senza cadere nella spocchia. Devi essere originale, ma farti comprendere. Indossi un bel vestito, ma deve sempre cadere giusto. Stefano Biondi era tutto questo. E da quando aveva smesso di occuparsene, del Bologna, gli amici del Carlino mi perdonino, quelle pagine erano molto più vuote. Perché poi, certo, negli anni è cambiato tutto. Il “pezzo” si è perso in mille rivoli, la carta è divenuta, inevitabilmente, specie quando parli di pallone, un ibrido più vicino alla rete che alle reti. Però, quelle reti,  Stefano le aveva raccontate per anni senza mai ricalcare un articolo, senza mai cadere nella maniera, senza mai smettere di rispettare quello che con ogni evidenza considerava un privilegio: seguire quella squadra, per quel giornale. Essere tramite. Mettere la propria firma esattamente al centro tra la curiosità del lettore e il fatto o la voce. L’elogio, o la critica. La passione.

Quando qualcuno se ne va, si tende a imbellettarne il carattere. Con Stefano Biondi non è possibile: non serve. Nessun collega al mondo potrà raccontare di aver subito un torto da lui. Anzi: immagino che ognuno possa pescare dalla tasca dei ricordi un atto di generosità, di levità. Negli anni giovani, quando ero costretto ad abbinare la ricerca delle notizie a quella della calligrafia, fui spesso beneficiato dall’umanità di Stefano. Da sociopatico quale ero e sono, con importanti eccezioni per i singoli, mi risultava quasi impossibile vellicare le fonti, inseguire tizio o caio per ricavarne un titolo. Vivevo cioè anni luce lontano da ciò che un giornalista dovrebbe sempre mantenere come stella polare: la notizia. Ecco, Stefano spesso mi beneficiava. Lo chiamavo, gli chiedevo uno spunto, un nome di mercato, qualcosa che non mi facesse tornare a mani vuote dai capi. E lui lo lasciava cadere. In cambio, fingevo di consegnargli qualche congettura. Mi ascoltava divertito. Poi andava a scrivere. Altro. Bene.

Di quello scambio tra impari (l’Unità era un peschereccio rattoppato, a confronto col Carlino) era garante un altro amico che è ancora tra noi ma a modo suo: Walter Guagneli. Un altro maestro, di quelli veri. Un altro che sapeva vivere la malattia del cronista con competenza, con consapevolezza, con fantasia.

A proposito di fantasia: gli anni mi hanno spesso portato in giro per l’Italia a spostare pennarelli e post-it dietro le telecamere. Ma da quando il web ha accorciato le distanze, non c’era mattina in cui non attendessi l’intervento telefonico di Stefano su un’emittente locale bolognese. Ovunque fossi. A condurre il programma, un giornalista molto più giovane ma, fortunatamente per lui, vecchio stampo: ironia, consapevolezza che sempre di pallone parliamo, ma anche del fatto che per chi ascolta si tratta di un tema vitale e definitivo: il Bologna Fc 1909, i colori più belli del mondo.

Stefano e il suo anfitrione chiacchieravano di tutto e di niente, di rare vittorie e molti rovesci, senza ripetersi mai. Perché, che lo vogliamo o no, l’amore è sempre uguale ma esistono infiniti modi di raccontarlo. Stefano Biondi quei modi li conosceva tutti, e sapeva farli vibrare. Di verità. Un po’ come la sua metà, Sabrina, che da sempre vale palcoscenici nazionali, ma poi si siede accanto a Pepè Anaclerio, su ÈTv, e capisci che non starebbe bene in nessun altrove. Perché sa e vuole raccontare, declinare, reinventare, la stessa storia che Stefano ha raccontato, declinato, reinventato.

Lo ringrazio, e lo saluto. Da cronista ragazzino, che Stefano accolse con un sorriso aperto e sincero. E da tifoso adulto, cui ha dispensato lampi e buonsenso, alleviando da par suo decenni infiniti inclini alle zero soddisfazioni. Con Gianfranco Civolani ci abbandonò il Bologna dello scudetto. Celebrammo la sua nostalgia e quella di quel mondo tonante. Con Stefano se ne va un giornalismo della ripartenza, capace di scovare intelligenza, ironia, direi “bolognesità” anche nelle altrimenti deprimenti trasferte di Serie C.

Era bravissimo. Buono. Onesto.

Rendiamogli l’omaggio che merita.

Io non so

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Il 14 novembre 1974, sul Corriere della Sera, Pier Paolo Pasolini scrisse un indimenticabile articolo sullo stragismo nero. “Io so”, diceva. Sapeva tutto ma non aveva le prove. Conosceva i mandanti, gli esecutori, i motivi che per tutto il Dopoguerra avevano reso l’Italia, già travicello basculante tra nazisti e alleati, un fuscello altrettanto esposto tra i due blocchi della Guerra Fredda. Di quello sconcio oggi conosciamo molto, ma non tutto. Che la bomba alla stazione di Bologna fu pagata a Gelli in dollari, ad esempio, è notizia recente. Ma ne siamo tutti figli. Si deve anche a quell’Italia sotto schiaffo, troppo solida, vista da Wahsington, per un golpe alla greca, o alla cilena, troppo fragile per lasciarla in mano al Pci, che nella memoria della Sinistra, in realtà molto più prossima alla nostalgia, serpeggia un doppiopesismo faticoso. Come se quel “E allora Baghad?” fosse davvero un “E allora le Foibe?” di valenza uguale e contraria. Uno scempio usato per giustificarne un altro. L’invasione che va combattuta e condannata – e lo facemmo – quando è perpetrata dagli americani, ma va contestualizzata se è russa. Giammai giustificata, almeno in premessa. Ma capìta. Circondata dai distinguo.

L’altra sera, nella sua prossemica televisiva sempre efficace, sospesa tra palco e realtà, Michele Santoro rimproverava a Zelensky un piano “segreto” per riprendersi la Crimea. Attaccava cioè il leader ucraino perché ambiva a riconquistare una parte del suo territorio occupata dai russi. Come il Donbass. Con lo stesso schema visto in Ossezia, in Transnistria, eccetera: esercito senza insegne, sobillazione al separatismo, fornitura di armi, referendum confermativi ridicoli, eccetera. Alla domanda sul perché in Iraq chiedesse agli americani di fermarsi e a Putin oggi no, Santoro rispondeva che sono gli ucraini a doversi arrestare. Circoscrivendo l’ambito pacifista all’interno del proprio ego. Non senza qualche danno. Dacché un conto sono Francesco, la Marcia Perugia-Assisi, le associazioni senza bandiere come “Un Ponte Per”, i singoli cittadini che si offrono come scudi umani per andare in Ucraina a testimoniare sul campo la propria volontà concreta di “cessate il fuoco”. Un conto, un altro, è annacquare torti e ragioni non già del conflitto, ma di ciò che l’ha generato, ripetendo all’infinito quello che, appunto, sappiamo: l’Ucraina non era Fantasilandia neanche prima, Zelensky non è Gandhi, il battaglione Azov era morchia che riluce solo in virtù delle bombe altrui. Verità intangibili, che non spostano il confine tra vittime e carnefici o, come dicevamo di Bush padre e figlio, tra imperialisti e invasi. Dacché con lo stesso metro, la Slovenia potrebbe attaccare Trieste domani per defascistizzarla e, già che c’è, arrivare fino a Milano. Poi si vede.

Noi che eravamo pacifisti allora e lo siamo anche adesso, e ogni giorno sperimentiamo il disprezzo di chi sa, o crede di sapere, come uscirne, ma poi non lo spiega mai, viviamo uno stato d’animo che, insieme al talento imparagonabile, il lucore intellettuale, l’intelligenza, la cultura, ci separa anni luce da Pasolini. Noi non sappiamo.

Io non so. Non so come rispondere alla domanda su quale sia l’alternativa a sostenere la resistenza ucraina anche con le armi. Non so come l’Italia possa risultare meno ancillare a Washington, dacché sembriamo addirittura anticipare i desiderata americani, che sembrano confusi e muscolari come solo gli Usa sanno essere in politica estera. Non so perché a livello europeo non siamo stati capaci di una sola iniziativa autonoma, ad esempio sulle sanzioni, magari facendo quello che all’attuale Governo proprio non riesce: comunicare.

Romano Prodi impose una tassa per l’euro e la restituì, dopo aver spiegato agli italiani cosa intendeva fare. Qui si parla per battute sui condizionatori e non si racconta perché dovremmo spegnerli. E se la risposta fosse un’accelerazione? E se diventassimo noi la locomotiva di un convoglio che la Germania trascina in direzione opposta? E se trattassimo il Paese da adulto spiegando i benefici e i costi di quello che accadrebbe mollando il gas russo a passi più forzati degli altri? Magari Confindustria no, ma parte degli italiani capirebbe. Quella che tiene in piedi il Paese e sa riconoscere l’emergenza. Come accadde agli albori del lockdown. Quella che nei sondaggi dice no alle armi e quindi avrebbe da essere conseguente.

Non so come dare gambe alla mia confusa volontà di pace, alla speranza nella diplomazia, dacché la diplomazia per Putin è qualcosa che si bombarda. Non so, non ho la soluzione, non riesco a difendermi nemmeno sui social network dagli eserciti contrapposti di chi “vuole vincere e stop”, come se fossimo a una specie di Champions che si chiude al triplice fischio, senza conseguenze, si alza la coppa e via, e da quelli che vedono nella resa ucraina la sola via d’uscita. E se non sei d’accordo, sei un fascista: “Togli quella bandiera della Pace al profilo, ridicolo”.

Non so. So solo che sulle armi agli ucraini è del tutto legittimo discutere. Ma anche che se decidessimo di chiamarci fuori militarmente dal loro destino, al netto di cosa potrebbe poi succedere a moldavi, Paesi baltici, chissà chi altro, che restano a rischio anche e soprattutto se chi urla “vincere!” poi non vincerà, dovremmo farlo perché convinti che esista un’alternativa percorribile. E percorrerla, davvero, perché la riteniamo fattuale. E non perché la rivalsa di Putin verso gli errori dell’Occidente in fondo ne giustifica i mezzi.

Questo, lo so, sarebbe sbagliato. O almeno credo.