L’apparato di vostra sorella: un’analisi soave

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1.2. BIOGRAFIA UFFICIALE DI BREZNEV

(TASS – BOLOGNINA) Una mia recente immagine subito prima di addentare un bambino bollito

Mi presento: sono l’apparato.

Detta così sembra una metonimia, nel senso che a volte, se non spesso, ragiono con l’apparato. Quello riproduttivo. Forse per questo sono di sinistra.

I giornali però non parlano di quello, anche perché sarebbe un racconto breve.

Parlano di me, di quelli come me, raccontandoci alla stregua di un grigio addentellato di un partito ancor più grigio. Il Pd. Noi, l’apparato, saremmo il segreto del “successino” alle Primarie. Ci avrebbero cammellati a votare per questo o contro quell’altra, ed ecco che al’improvviso il rugoso faccione democratico ne avrebbe assorbito una sorta di Botox dei consensi.

Tutto falso, tutti di apparato.

Era di apparato anche Matteo Lepore, a Bologna, anche se bisogna capire quale. Il partitone, che così “one” non è più? O il partitino, che ha lasciato una parte di sé nel corpaccione democratico a far flanella? La cosiddetta Area riformista è Italia viva dentro al Pd e ha come obiettivo quello di distruggere quel che non è riuscito a Renzi. Come si possa parlare di coalizione ha dell’incredibile. Infatti, quelli non di “apparato”, passano il tempo sui social a significare compatti che “piuttosto la Destra”. Ma dai?

Isabella Conti, tra l’altro, mica è il diavolo. Ha dietro una strategia che l’ha usata per scopi poco commendevoli, di bassa politica a livello nazionale. Un errore strategico mica da ridere, soprattutto a Bologna. Perché se davvero fosse stata “isabelliana”, se si fosse presentata secondo il classico mantra che porta al potere nel Pd, Letta a parte (sunteggio: fanculo tutti, mo’ arriviamo noi) avrebbe raccolto persino di più. E sicuramente non scompare qui.

E a Roma era naturalmente di apparato Gualtieri, che difficilmente vincerà. Mentre il nuovo era il pur rispettabile Calenda (da me, lui sui social rispetta un po’ meno) grazie al quale andranno verosimilmente al ballottaggio la Raggi e quell’altro tizio così a proprio agio con l’orbace.

Morale: siamo tutti di apparato con gli apparati degli altri. Ma io continuo a pensare ciò che dicevo sommessamente anche ad Agorà, stamattina. Che la cosa migliore del Pd sia chi lo vota. Che no, non è apparato. È gente che ha subito due scissioni ed è ancora lì, determinata, coi due euro in pugno. Che va ai gazebo a scazzarsi sulla politica, perché ha un tremendo bisogno di rappresentazione. Che ha resistito alla mano di poker renziana e che sa di essere impopolare, chiedo scusa se mi autocito, eppure di essere popolo. Cioè il migliore antidoto ai populisti.

Per questo, e sia concesso il latinismo, apparato ci sarete voi e vostra sorella.

Metti un po’ di musica sociale perché ho voglia di Breznev…

Come funziona la Bestiolina spiegato semplice

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L’altro giorno sono stato coinvolto in uno shitstorm a freddo. Qualcuno è andato a ripescare un mio tweet di un mesetto fa, una battuta sul senso civico degli italiani – rispetto al quale, diciamo, c’è una vasta letteratura – e mi ha accoppiato all’intellettuale Tomaso Montanari deridendoci in coppia in quanto catastrofisti a favore della dittatura sanitaria. Più o meno. Risultato: messe di insulti, sempre a freddo, qualche minaccia in dm su Fb, eccetera.

È la prima volta a mia memoria che subisco questo trattamento. Probabilmente, avendo chiuso i commenti sui post sensibili (tema Italia Viva, per capirci) hanno pensato bene che la charachter assassination, che viaggia di pari passo con una personalissima balls assassination, andasse portata avanti su altri fronti. Gli intellettuali di riferimento di questa costante intimidazione, a cominciare da Riccardo Puglisi, uno che ai bei tempi mi scriveva in privato per essere ritwittato, e tra l’altro talvolta lo facevo pure, perché io sono un tizio laico, non voglio la dittatura del proletariato, hanno fatto da cassa di risonanza.

A quel punto sono arrivati anche quelli della banda psico-economista (i fan di Borghi, di Bagnai). E giù botte.

L’andazzo che segue queste lezioncine è però è quello di colpire e negare. Spesso i commenti, anche di chi scatena la tempesta, insistono sul mio vittimismo, sul fatto che questa costante opera di attacco alla mia modesta percezione pubblica, sia una sorta di paranoia.

Allora voglio presentarvi Marco De Meo. Ve lo presento anche se non so chi cazzo sia, Marco De Meo. Leggo nella sua bio che è a favore degli Stati Uniti d’Europa e su questo siamo anche d’accordo. Molto. Ha non pochi follower. Non è un troll, esiste. Ma appunto non ne avevo contezza alcuna.

Poi  mi è arrivata una notifica da google e ho scoperto che De Meo parla di me, pur avendomi bloccato e avendo bloccato, per non essere letto, persino l’account di Italia Viva Viserbella che avevo creato per divertimento giorni fa. Egli, il De Meo scrive che io e Montanari – gli stessi due nomi, tu guarda – avremmo complottato contro la libertà degli italiani nei vari talk show de La7 e di Raitre di cui siamo ospiti.

Come i miei quattro follower sanno, io non vado in tv quasi mai, perché preferisco lavorare come autore. E anche perché non ho neanche tutti ‘sti inviti, da quando ho lasciato spintaneamente Repubblica. Mi è successo di passarci qualche volta un annetto fa, perché dovevo promuovere un libro, forse ci tornerò ora che ne esce un altro, recentemente l’amico Makkox mi ha invitato a Propaganda – cinque minuti netti – per parlare di due tweet satirici che avevo scritto su Salvini e Meloni. Fine.

Perché allora De Meo scrive questa, chiedo scusa per il francesismo, sontuosa cagata?

Perché mi afferisce a un fronte senza che io ne faccia parte?

Perché mi accomuna a un signore eminente ma che manco conosco e col quale spesso discordo?

Perché dice questa balla?

Forse perché fa parte di un attacco social coordinato e continuativo che deve sparare la stessa bugia per colpire i non allineati? Perché si diverte in proprio a far girare informazioni false su un tizio che gli sta antipatico? Perché è vittima in buonafede della propaganda ad minchiam (anzi: contra minchiam) altrui?

Per una singolare coincidenza?

Come diceva PPP in ambiti infinitamente più importanti, io credo di sapere. Ma non ho ovviamente le prove. Temo però che questo squadrismo minore, questa disperazione fatta tweet, questo fortino livoroso nel quale si è rintanato il popolino della fu grande speranza politica di molti, non sia propedeutico a chissà quali grandi successi.

Perché prima o poi questa legislatura finisce, i guastatori coi voti degli altri non li potrete più fare, e vi resterà soltanto questo giochetto social che vi assimila in toto al peggiore populismo di Destra. E vi ritroverete con la vostra caccia al reprobo che non avrà soltanto sfasciato i maroni a un tizio tutto sommato infinitesimale come il sottoscritto, ma avrà anche avvelenato gli ultimi pozzi ai quali, anche se non ne avete contezza, bevete anche voi.

#bastabestie

#statesereni

Lasciate in pace la Rai

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Rai | Logopedia | FandomIl punto non è la Rai. Dal 2015 la Rai non è più editata dal parlamento, ma dal Governo, per merito della riforma di un tizio che pensava di restare al potere per sempre. Il rapporto tra Rai e politica è sempre stato quello: le libertà sono come il coraggio di Don Abbondio, te le puoi dare solo se le hai già. Te le prendi. Al massimo, se qualcuno degli “editori” riesce a farti cacciare, la paghi.

Ma questo accade anche nei giornali, quando passi per rompicoglioni.

Il punto è intimidire la Rai pubblicamente attraverso le dichiarazioni proprie e dei propri scherani. Il punto sono i politici che oggi esprimono solidarietà a Fedez e normalmente attaccano tramite agenzia i dirigenti con la schiena dritta (ce ne sono, cazzo se ce ne sono) anche per le previsioni del tempo. Il punto è un’azienda piena di gente che lavora ogni giorno al meglio che può, nonostante le pressioni che subisce, e si trova alla mercé di chi pensa di usarla come il proprio boudoir.

Il punto è che i partiti, quasi tutti, si lamentano solo per poter meglio condizionare, o provarci, linee editoriali e persone che le stabiliscono.

Il punto è che su certi temi chi preme per avere conduttori e dirigenti amici dovrebbe almeno avere la decenza di starsene zitto.

Il punto è che vi dovete togliere dalle balle e lasciar respirare la più grande azienda culturale del Paese, che la rende (nonostante tutto) un’eccellenza, le donne e gli uomini che si fanno il culo a ogni livello della piramide per non scendere sotto il livello della decenza anche e soprattutto nei millemila canali che fanno meraviglie perché la politica non se li fuma di pezza.

E il punto, infine, non è che un cantante più o meno simpatico, più o meno in buonafede, più o meno benestante, citi qualcuno per cui “i froci devono finire nei forni”. Il punto è che in un Paese normale la frase dello scandalo avrebbe, quella sì, suscitato indignazione, a suo tempo, e nessun politico si sarebbe mai sognato di definire problema chi semplicemente la riferiva.

Il punto non è la Rai.

Il punto è che dovete lasciarla in pace, la Rai.

Ne guadagneremo, tutti, in democrazia.

E mica solo il primo maggio.

In morte di Radio Città del Capo: un classico disastro “di sinistra”

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Radio Città del Capo - WikipediaRadio Città del Capo è (era) l’emittente bolognese sulle cui frequenze, insieme all’amico Checco Garbari, ho cominciato la mia lunga storia d’amore con microfoni, cazzeggio e serietà. Registravamo le puntate di “Vile vinile” direttamente su cassetta, con le cuffie in bachelite rossa che funzionavano random, un canale alla volta. Nessun controllo editoriale. Libertà assoluta. Eppure, lampante, la sensazione di appartenere a una comunità cui regalavamo un’oretta di facezie al netto di una produzione talvolta professionalissima, talvolta meno, talvolta lieve, talvolta pesante come piombo glassato al tungsteno.

Era, anche, la radio in cui lavorava mia moglie.

Ne sono stato un fiancheggiatore fraterno, conducendo – insieme all’amico Simone Bedetti – una maratona per gli abbonamenti, il rito mutuato dalla capogruppo Radio Popolare, che consiste(va) nella raccolta di versamenti spontanei basati solo sulla solidità del rapporto affettivo. Non che gli abbonati ottenessero alcunché, dall’obolo. La radio era fruibile anche per chi non pagava. Ma costituivano una base di reciprocità, un patto, il sentirsi parte di un percorso (oddio) politico condiviso. Erano un affidavit: ci si sosteneva a vicenda.

Come ogni esperienza editoriale di sinistra, Città del Capo era piena di casini intestini. “Cioè cazzo compagni” sono le prime tre parole che ognuno di noi ha pronunciato nella culla, e anche per questo non mi ero molto preoccupato quando, ormai nove anni fa, la cooperativa che la editava era confluita in un’altra. Massimi sistemi che sembravano non poter sabotare quel piccolo miracolo che ha fatto da palestra a fior di giornalisti, autori, conduttori.

Ieri è stata venduta l’ultima frequenza superstite: la radio non esiste più. L’hanno venduta a Berlusconi, per soprammercato. E festeggiano la plusvalenza di 200.000 euro che confluirà nella produzione di podcast.

Tenterò di essere equilibrato: dio vi stramaledica.

Stramaledica voi e la vostra insipienza, la vostra ignoranza, la vostra incapacità. Il vostro credervi manager perché avete monetizzato un percorso suicida. La faciloneria con cui liquidate la storia. Le parole usate a cazzo. Come quando chiusero l’Unità e si riempivano la bocca con l’online, che nessuno sapeva cosa fosse.

Vi stramaledica per la storia e le storie di tutti quelli che hanno creduto in questo progetto. Per chi gli ha dato sangue e passione. Per il danno anche civile, politico, che fate alla città. Siamo nel 2021: una radio/tv/podcast allnews che strappi la coltre plumbea di informazione pastorizzata da cui è ricoperta la città, un progetto che racconti quello che Bologna non è più e non sa se potrà tornare ad essere, tra l’altro in tempo di pandemia… quel progetto editoriale si fa con due paste e un cappuccino di budget.

Può persino diventare un successo. Perché è necessario. E quel che è necessario si paga.

Ma bisogna crederci. Bisogna avere voglia, prospettiva, persino un po’ di talento.

E buonafede, buonsenso. Passione per il buonsenso. E cuori, cervelli, meno rassegnati e grigi. E consapevolezza che i podcast non sono l’evoluzione della radio, ne sono un tassello. E vanno ancorati a un progetto editoriale concreto, se non si hanno i soldi di Amazon per lanciare produzioni nel cosmo in attesa di fare massa critica.

Dio vi stramaledica e Piero Santi, la cui morte ha fatto da sinistro presagio a questo macello, ve la faccia in testa prendendo la rincorsa da Marte.

Avete ucciso molto più che una radio. Avete danneggiato non solo chi vi ha sostenuto, ma tutta la comunità di cui fate parte. E ve ne vantate pure.

Grazie a chi ha fatto e ascoltato Radio Città del Capo, in tutti questi anni, la cui bandiera giace a terra coperta dalla polvere dello sticazzi.

Speriamo, dobbiamo sperarlo, che qualcuno prima o poi torni a impugnarla.

Meglio prima.

E buon Primo Maggio.

Cara Giorgia: ecco perché Le ho fatto dire quel che non ha detto e perché vorrei tanto che lo dicesse

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Gentile Giorgia, lo confesso: sono stato io. Mi sono inventato un suo tweet in cui diceva parole di buonsenso su democrazia e Resistenza, e ho voluto provare l’effetto che faceva. Ne ha prodotti un paio, di effetti. Abbastanza dirompenti. Numeri, importanti, a parte.

Una parte ha colto la bufala, scrivendo che ci aveva sperato ma che, naturalmente, Lei non scriverebbe mai parole così pacificanti e unitarie. Una parte, invece, ci ha sperato così tanto che le ha fatto i complimenti. Ha finalmente riconosciuto un’avversaria, non una nemica. Che avrà idee anche opposte ma gioca nello stesso campo. Nessuno, questo però è il dato più importante, l’ha insultata. Nessuno o quasi le ha dato della fascista, o altre contumelie che peraltro buona parte del suo elettorato vede come complimenti. Tutti avrebbero preferito che quel tweet non fosse un “fake”. Lei mi obietterà, in parte a ragione, che i mei follower stanno da un’altra parte della politica. Vero, ma non dovrebbero stare da un’altra parte della Storia.

Perché, veda, Giorgia, il tweet che le ho fatto scrivere a sua insaputa stava da una parte sola: il Paese che ci ha dato i natali, ché quando nasci in un posto dovresti esserne cittadino, no? Mi scusi, polemicuccia inutile, sono il solito sinistrato. Fermiamoci però per un attimo a pensare cosa sarebbe successo se quel tweet fosse stato vero. Lei è un po’ nelle condizioni di Trump ai bei tempi, che diceva di sé stesso: “Potrei uscire in strada e sparare a un tizio, mi adorerebbero lo stesso”. Dunque sono pressoché certo che non ne avrebbe tratto nocumento alcuno. In fondo che c’è scritto? Patria, Italia, Liberazione. Al massimo avrebbe perso il consenso dei quattro gatti neri che ancora vagheggiano le cose buone fatte dal cosiddetto Duce il quale, a mia memoria, è il tizio più anti-italiano di sempre: fece crepare mezzo milione di connazionali.

I suoi però l’avrebbero seguita. Forse si sarebbero pure liberati volentieri dell’ambiguità di fondo per la quale le zecche rosse (o, meglio, la gente che in un modo o nell’altro il fascismo l’ha subito) non vi riconoscono. Vi emarginano, benché siate e di gran lunga la terza forza politica del Paese. E lei avrebbe potuto avanzare verso la leadership liberandosi di quel peso che, ne sono certo, agita anche Lei.

Lei che era al fianco di Gianfranco Fini alla svolta di Fiuggi. Lei aveva sui temi civili opinioni molto meno (movimento) social di ora. Lei che possedeva, e forse ha ancora, le carte in regola per diventare leader di una parte del Paese senza disconoscere l’altra con una gragnuola di livore che non le appartiene culturalmente.

Perché a forza di dividere, a forza di scegliere i like scritti col fegato, a forza di pensare che le macerie della convivenza civile possano essere rimosse in modo salvifico quando si comanderà, Lei si troverebbe a guidare un Paese diviso di italiani contro altri italiani. Proprio come, da quel 25 aprile, non è mai più accaduto.

Per questo, Meloni, la prego di trovare le parole. Di sfruttare quella speranza nata da una bugia, la mia, che – ad esempio – non ha funzionato quando l’ho attribuita, sempre con un tweet farlocco, anche a Matteo Salvini.

Lì non se l’è bevuta proprio nessuno. Si vede che persino i “miei” preferiscono sperare in Lei.

Faccia qualcosa, allora. Ci sono ancora alcune ore. Scriva non una cosa di sinistra, non una cosa di civiltà, ma almeno una cosa da cui si evinca che si vince e si perde dalla parte giusta o sbagliata, per carità. Ma che chi muore per la democrazia, contro la dittatura, contro il vassallaggio a un tizio che gasò sei milioni di persone, è qualcosa che va celebrato.

Credo proprio che ci guadagneremmo tutti noi.

E per noi, stia tranquilla, intendo proprio noi italiani.

 

 

 

 

 

(Nota a margine: ecco, questo no)