Una volta era mitico, oggi è diventato geniale (director’s cut)

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“I complimenti costano poco e certe volte non valgono di più”.

La perla di saggezza arriva dritta da Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, ai tempi in cui l’anatema di Alberto Arbasino non l’aveva ancora colpito. Nel tempo cioè in cui non aveva compiuto il tipico e triplice percorso che fa dell’italiano celebre una brillante promessa, poi un solito stronzo, e infine lo innalza a venerato maestro. Scrittore, filosofo, guida spirituale. Una condanna. A vita. Che sfocerà prima o poi, speriamo poi, nella gloria eterna del perbenismo scritto: il vuoto incolmabile.

Negli anni, il teorema ha subito una brusca accelerazione – si pensi a Mario Monti un annetto e mezzo fa, e alla curiosa deriva che oggi lo rende meno popolare del cagnolino Empy – e non manca di robuste eccezioni. Come Roberto Saviano, che ha saltato le prime due fasi per diventare ipso facto venerato maestro, salvo poi retrocedere nell’immaginario (quasi) collettivo a solito stronzo. Colpito, alle spalle, da quel professionismo dell’antiretorica, da quel conformismo dell’anticonformismo, che in Italia sono per tanti un mestiere, e da quel riflesso di cattiva coscienza che spinge le nostre menti migliori, e quelle peggiori, a disegnare grossi falli sulle torri d’avorio appena innalzate.

In quella verità da canzonetta del giovane Jovanotti, praticamente un Giovanotti al quadrato, si annidavano i batteri di una pandemia che avrebbe devastato e inaridito il lessico negli anni a venire, per colpa quasi esclusiva del combinato disposto tra l’italica pigrizia e l’effetto rullo compressore prima della tv e poi dei social network. Ma se ai tempi dell’omonimo brano di De Gregori (a.D. 2001, cioè 6 d.C., dopo Cherubini), “L’aggettivo mitico” era appannaggio della brutta tv, del cattivo giornalismo, delle pessime recensioni, l’era di Twitter,  di Facebook, della maggioranza di silenziosa che forse aveva ottimi motivi per starsene zitta, l’hanno dapprima elevato al ruolo di a.e.u., attributo entusiastico unico, e poi, più recentemente, a quello di q.a.e. (qualità abborracciata equivalente). Perché già s’avanza il “mitico 2.0”,  e che quel che era mitico sempre più spesso in rete diventa “geniale”. E chi l’ha scritto un genio. A volte addirittura un gegno.

A una prima analisi le due carezze verbali parrebbero equipollenti, ma le differenze sono profonde. “Mitico” eterna. Ha una pretesa di immortalità spicciola. Si applica alla storia e alla storiella: per contrappasso, Jovanotti, o De Gregori, sono essi stessi miti(ci), lo sono le loro citazioni, come quelle di Ennio Flaiano, di Oscar Wilde, di Madre Teresa di Calcutta e di Bukowski, di Martin Luther King e Mario Borghezio, di Panariello, Fiorello, Martufello, Quagliariello.

La genialità invece fa rima con contemporaneità: è geniale la battuta buona, e anche quella scarsa, ma scritta da un amico, o da una fanciulla con cui desideri giacere. Geniale è il fotomontaggio comico rubato chissà dove. Geniali sono le boutade di Roberta a Radio Maria e quelle di Sgarbi a Radio Belva. Geniale è il tizio che riprende una tabella prelevata da un sito che l’aveva composta fotocopiando il motto di spirito di un deputato grillino che l’aveva letto su Spinoza.it che al mercato mio padre comprò. Fate girare.

Geniale, in assoluto, è lo spirito non richiesto che inonda le bacheche e ci spinge a complimentarci con gli umori altrui, nella speranza che qualcuno prima o poi si complimenti con noi.  Un fiume di consenso senza valore che conferma l’incapacità tutta tricolore di scindere contenitore e contenuto: siamo, noi, il popolo che confonde il demenziale con la demenza e la satira coi satireggiati. Quando Matt Groening* dotò Homer Simpson di un unico aggettivo – “Mitico!” – valido per le Duff ghiacciate, i quadri di Kandinskij, l’incontro con Cristiano Ronaldo, stava sfottendo, tra gli altri, il linguaggio della middle class americana. Ci è piaciuto. L’abbiamo adottato. Abbiamo unito e mezzo e messaggio, come tanti Mc Luhan postmoderni mandati a sbattere contro Mc Donald’s. Ma non ci bastava ancora: l’abbiamo reso geniale.

So bene che il problema dell’appiattimento linguistico non rientra tra le prime cinquecentomila emergenze italiane e si colloca qualche posizione dopo, diciamo tra il battesimo del figlio di Carmen Russo e la rubrica di Carlo Rossella su Il Foglio, però è pure vero, anche senza ricorrere al Moretti di Palombella Rossa (mitico) che chi parla male pensa male. Clicca male. Condivide male, all’impronta, senza leggere, senza sapere. Forma, sui social, una specie di coscienza collettiva carlona che mira a rafforzare i propri pregiudizi attraverso un plebiscito incidentale e virtuale.

C’è un esempio, in questi giorni. Anzi due: la bambina “rapita” dai Rom in Grecia, sorta di leggenda metropolitana realizzata – forse – che ci permette di diventare razzisti senza più sensi di colpa, al placido prezzo di un clic. Mitico. E poi c’è la questione Odifreddi. Fino alla settimana scorsa era un genio, lui, col suo delizioso anticlericalismo postseminariale. Di quei like si sarà senz’altro compiaciuto. Adesso, dopo che ha applicato le medesime categorie matematiche a valori non negoziabili  è diventato mitico inondarlo di contumelie. E lui, il professore, si chiede perché, dopo aver ridotto il negazionismo a tema da social, con un linguaggio da social, su un social, ci sia gente che vuole parlare di cose così importanti proprio sui social.

“Geniale” è una sorta di “carino” anabolizzato. Si porta con tutto, e con niente. E’ la banalità del bene, anzi del benino, come “mitico” era la banalità del benone. In un solo giorno di tweet, quello in cui queste righe sono state compitate, la mitica Barbara D’Urso si vantava di ospitare il mitico Bobby Solo, decine di mitici appassionati festeggiavano il mitico sequel di “Scemo e più scemo”, le mitiche fan di Nek ne rilevavano il mito per aver citato un mitico proverbio cinese (“Se cadi sette volte, rialzati otto”), il mitico doppiatore Luca Ward pronunciava la frase “Se abbaia è radio Canaja”, il mitico Pupo, di passaggio a Erevan, si complimentava col mitico monte Ererat, e risultavano altresì mitici Bruno Barbieri di Master Chef, la Polaroid SX70, Mara Maionchi, Rossella Brescia, Red Ronnie, la caponata, Frank Poncherello dei Chips, Massimo Boldi, Rudy Zerbi, la Bauhause, Tabacci, il Legnano calcio, Giampiero Galeazzi, il taccuino di Pippo Civati, i Loacker (segue).

Contemporaneamente, Nicola Zingaretti della Provincia di Roma ci teneva a definire geniale il nuovo singolo di Vasco, Giuseppe Cruciani sosteneva per interposto tweet la genialità del Fatto Quotidiano, Caterina Balivo riscontrava il genio in una ricetta di patate dolci e paprika, e geniali risultavano pure Peppa Pig, Massimo Boldi secondo estratto, le cotolette vegan, la battuta di Andrea Agnelli sullo scudetto di Jakartone, Kronosisma di Vonnegut e una lista sterminata di amichetti nostri. Specie su Facebook, laddove, però, per fortuna, si affaccia anche l’unico antidoto possibile a questo letargo collettivo dello spirito critico: lo spostamento di senso.

E’ una crepa, l’aggettivo “geniale” utilizzato sarcasticamente, ma si allarga: I geniali titoli della Domenica Sportiva su Roma Capoccia, i geniali 14 euro al mese che dovrebbero rivitalizzare l’Italia, la geniale iniziativa di un libro per analfabeti, la geniale Rosy Bindi che assicura impegno per combattere l’antimafia, la geniale professoressa che invece di far lezione sta un’ora al telefono per un’offerta della Tre. Anche se, in questo caso, già scivoliamo nel campo del “grande”, cioè dell’aggettivo con cui Letta, sinceramente impressionato, onorò Berlusconi all’epoca del coup de théâtre sulla fiducia.

Ma dell’affezione/ammirazione tutta italiana per il diavolo parleremo un’altra volta. Può uscirne un articolo geniale.

*Anche se alcune fonti attribuiscono l’invenzione a Tonino Accolla, compianto doppiatore di Homer. Che a quel punto diventerebbe esso stesso mitico.

Uscito su La Lettura del Corriere della Sera il 29 ottobre 2013