Per vincere domani: riflessione pleonastica su Emilia-Romagna, Pd, ed errori da non ripetere

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(ANSA – VITELLONI) Stefano Bonaccini quando ancora non vestiva Dolce & Romagna

Prendere se stessi come baricentro di un’analisi politica è sempre un errore, ma spero di potermi consentire un’eccezione.

RIguarda l’esito del voto in Emilia-Romagna e il riverbero nazionale che sta cagionando, così simile al voto europeo del 2014 che devastò per anni il campo progressista, favorendo una serie di sconfitte dalle quali tuttora, con l’agilità di Frankenstein Junior, il centrosinistra tenta a fatica di rialzarsi.

Quel voto, il famoso 40 per cento e rotti, era figlio della sberluccicante speranza renziana, della luna di miele col fresco carnefice di Letta, ma anche (soprattutto, nel mio caso, che oso ritenere non isolato) del vero e proprio terrore di ritrovarsi travolti dal sorpasso grillino e da un MoVimento Cinque Stelle a far danni ancor prima del previsto. Erano i giorni in cui l’avanzata di Casaleggio Associati sembrava ineluttabile e Grillo rivendicava il test continentale come l’inizio della fine: non di un governo, ma della democrazia rappresentativa.

È l’ultima volta che ho votato Pd.

L’esito anabolizzato cosparse sull’allora presidente del consiglio un velo di presunta onnipotenza che lo portò dritto allo schianto, al referendum su se stesso, alla gestione del Governo come un potere sospeso tra Rifredi e Fiesole, alla svolta blairista senza Blair, alla rottamazione non già di una classe dirigente – anche: sostituita in massima parte da mezze figure di complemento – ma soprattutto di quel Dna catto-riformista che aveva sospinto la nascita del partito democratico.

Si voleva superare non già il Pci, ma il Pd, con la prospettiva di un movimento personalistico.

La vittoria di Bonaccini è per certi versi sovrapponibile, con un catalizzatore evidente (le sardine) a sottolinearne lo spirito emergenziale, la risposta di popolo all’invasione di un modello, la necessità di contarsi fisicamente, prima in piazza e poi nei seggi.

Invece è già discussione sul modello. E il pur ottimo Bonaccini, il cui principale difetto sono probabilmente gli occhiali rubati ad Antonello Venditti, considera con un entusiasmo forse eccessivo il proprio indubbio risultato personale.

Semplifico: ha vinto lui, ma abbiamo vinto soprattutto noi. E ha vinto, anzi: è stata decisiva, anche la cosidetta “sinistra radicale” che pure lui, nella fretta con la quale ha liquidato il trionfo – vero, senza un partito – di Elly Schlein, sembra indirizzare verso un marginalismo politico che non corrisponde, al netto del 4%, a un marginalismo culturale.

Le sardine sono nate – anche – per il disagio di vedere la sinistra moderata abbandonare le proprie battaglie identitarie: antifascismo, impegno sociale, attenzione per i meno rappresentati. In poche parole: un modello di società più decente di questo.

Nella sua intervista a Repubblica, Bonaccini ha giustamente ammonito alla necessità di azzerare le correnti del Pd e di non elevare il successo “difensivo” di casa nostra a modello nazionale. Eppure, se qualcosa di quel modello è replicabile, sta proprio in ciò che il Partito Democratico, incredibilmente, sembra ancora escludere: aprirsi, recuperare energie anche dai campi contigui, abbandonare non solo il correntismo ma soprattutto il settarismo che porta alcuni “partiti fratelli” a identificare nella competizione col Nazareno il proprio principale obiettivo.

Il partito del 40 per cento è al 4 e detta le condizioni, facendo opposizione al Governo che ha di fatto creato per garantirsi un’indispensabilità che al momento pare avvertita da una sparuta minoranza. Si ripartisse da lì, dalla sbornia per le cifre e dai diktat degli ultimi giapponesi del Ciaone, beh, sarebbe davvero un peccato.

La gente era e sarà in piazza per altro.