Imprenditori benefattori e lavoratori irriconoscenti: una guida

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Ieri mattina, ora di colazione. Consumo brioche e cappuccino. Prima di uscire mi avvicino alla cassa per salutare e quelli, a tradimento, battono lo scontrino: 3 euro e 10. Ovviamente sbotto: “E che, si fa così?”. Non comprendono. Allora spiego: “Lei mi chiede subito del denaro senza nemmeno informarsi sui miei interessi, sui miei progetti, sulla mia storia personale …”. Niente: “Tre euro e dieci”. “Ma lei lo sa la fatica che la mia famiglia ha fatto per me? Lo sa quanto hanno speso per farmi studiare? Io i suoi 3 euro e dieci voglio poterli reinvestire per il progresso del Paese”. Minacciano di chiamare la polizia. Dialogante, mi gioco l’ultima carta: “Guardi, facciamo così: adesso esco e alle prime tre persone che incontro dico che il cappuccino era ottimo e la brioche freschissima. Vi pago in visibilità”. A momenti mi menano.

Naturalmente non è successo, perché nessuno sano di mente (anche se questo non mi esclude dal novero) si permetterebbe di dar vita a una scena del genere. Eppure la leggete ogni giorno quasi ovunque, con parole molto simili. Cambiano solo gli attori: imprenditori e imprenditrici, l’ultima Tiziana Fausti, ramo fashion, che lamentano pubblicamente la proattività deficitaria di chi cerca lavoro, specie i giovani. Questi fannulloni chiedono subito quanto prenderanno, si informano sugli straordinari, su possibili weekend liberi. Invece di empatizzare con chi li assume, che magari si è fatto da sé semplicemente ereditando una valigeria di lusso nel centro di Bergamo.

Ora, non so come dirlo a Fausti e a tanti altri, ma la roba che dicono loro si chiama socialismo. E non nel senso di social. Prevederebbe però che si socializzassero anche gli utili, oltre alla fatica e al rischio di impresa. Ma siccome (se Dio vuole) ha vinto il capitalismo, funziona diversamente. L’imprenditore rischia soldi, salute e posteriore in cambio di denaro frusciante. Ove gli vada bene, ovvio. L’impiegato non insegue il jackpot. Dunque si regola di conseguenza. Soprattutto se normalmente gli si chiedono esperienza minimo trentennale nel ramo del fitness, almeno una laurea, due master, quattro lingue tra cui zwahili parlato e scritto, e il posto offerto è quello di office cleaning self developer, cioè addetto alle pulizie.

Certo, una via di mezzo ci sarebbe. Quella tedesca, dove lavoratori e imprenditori condividono il “goal”, come credo direbbe Fausti, in cambio di salari molto più alti – siamo l’unico Paese in cui gli stipendi sono scesi, da vent’anni in qua – e diritti che in Italia abbiamo progressivamente smantellato. Un fordismo alla teutonica che peraltro in Europa fu inventato dagli italiani, cioè da Adriano Olivetti. Uno che oggi passerebbe come un pericoloso comunista, fuori dal mondo, schiavo dei sindacati. E che, coinvolgendo i dipendenti, creandone il welfare, aveva divorato fior di aziende a stelle e strisce. Mica un benefattore.

Noi però siamo (non sempre, ma troppo spesso) la Repubblica dei Gianluca Vacchi. Talmente abituati a un ecosistema del lavoro tossico che ce la prendiamo coi giovani. Quelli cui abbiamo mangiato futuro e pensioni. E anche la voglia di farsi domande. Facciamocene lo stesso: se non si trova personale a termine per la stagione estiva, sarà mica che per 800 euro in nero al mese la gente sta a casa? Se c’è chi al Sud preferisce il reddito di cittadinanza a un lavoro, sarà mica perché il lavoro è pagato uguale e forse in nero? Se la gente si dimette in massa, sarà mica perché il loro tempo ha la stessa dignità di quello delle Fauci e sono stanchi di farselo pagare due spicci?

Non rispondete subito. Prendetevi qualche minuto. Intanto pago la colazione.

Uscita ieri su La Stampa

Uno bravo. Tanto.

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Scrivere del Bologna sul giornale della città non era e non è una cosa facile. Devi mantenere equilibrio, senza rinunciare a dire la tua. Devi essere tecnico, senza cadere nella spocchia. Devi essere originale, ma farti comprendere. Indossi un bel vestito, ma deve sempre cadere giusto. Stefano Biondi era tutto questo. E da quando aveva smesso di occuparsene, del Bologna, gli amici del Carlino mi perdonino, quelle pagine erano molto più vuote. Perché poi, certo, negli anni è cambiato tutto. Il “pezzo” si è perso in mille rivoli, la carta è divenuta, inevitabilmente, specie quando parli di pallone, un ibrido più vicino alla rete che alle reti. Però, quelle reti,  Stefano le aveva raccontate per anni senza mai ricalcare un articolo, senza mai cadere nella maniera, senza mai smettere di rispettare quello che con ogni evidenza considerava un privilegio: seguire quella squadra, per quel giornale. Essere tramite. Mettere la propria firma esattamente al centro tra la curiosità del lettore e il fatto o la voce. L’elogio, o la critica. La passione.

Quando qualcuno se ne va, si tende a imbellettarne il carattere. Con Stefano Biondi non è possibile: non serve. Nessun collega al mondo potrà raccontare di aver subito un torto da lui. Anzi: immagino che ognuno possa pescare dalla tasca dei ricordi un atto di generosità, di levità. Negli anni giovani, quando ero costretto ad abbinare la ricerca delle notizie a quella della calligrafia, fui spesso beneficiato dall’umanità di Stefano. Da sociopatico quale ero e sono, con importanti eccezioni per i singoli, mi risultava quasi impossibile vellicare le fonti, inseguire tizio o caio per ricavarne un titolo. Vivevo cioè anni luce lontano da ciò che un giornalista dovrebbe sempre mantenere come stella polare: la notizia. Ecco, Stefano spesso mi beneficiava. Lo chiamavo, gli chiedevo uno spunto, un nome di mercato, qualcosa che non mi facesse tornare a mani vuote dai capi. E lui lo lasciava cadere. In cambio, fingevo di consegnargli qualche congettura. Mi ascoltava divertito. Poi andava a scrivere. Altro. Bene.

Di quello scambio tra impari (l’Unità era un peschereccio rattoppato, a confronto col Carlino) era garante un altro amico che è ancora tra noi ma a modo suo: Walter Guagneli. Un altro maestro, di quelli veri. Un altro che sapeva vivere la malattia del cronista con competenza, con consapevolezza, con fantasia.

A proposito di fantasia: gli anni mi hanno spesso portato in giro per l’Italia a spostare pennarelli e post-it dietro le telecamere. Ma da quando il web ha accorciato le distanze, non c’era mattina in cui non attendessi l’intervento telefonico di Stefano su un’emittente locale bolognese. Ovunque fossi. A condurre il programma, un giornalista molto più giovane ma, fortunatamente per lui, vecchio stampo: ironia, consapevolezza che sempre di pallone parliamo, ma anche del fatto che per chi ascolta si tratta di un tema vitale e definitivo: il Bologna Fc 1909, i colori più belli del mondo.

Stefano e il suo anfitrione chiacchieravano di tutto e di niente, di rare vittorie e molti rovesci, senza ripetersi mai. Perché, che lo vogliamo o no, l’amore è sempre uguale ma esistono infiniti modi di raccontarlo. Stefano Biondi quei modi li conosceva tutti, e sapeva farli vibrare. Di verità. Un po’ come la sua metà, Sabrina, che da sempre vale palcoscenici nazionali, ma poi si siede accanto a Pepè Anaclerio, su ÈTv, e capisci che non starebbe bene in nessun altrove. Perché sa e vuole raccontare, declinare, reinventare, la stessa storia che Stefano ha raccontato, declinato, reinventato.

Lo ringrazio, e lo saluto. Da cronista ragazzino, che Stefano accolse con un sorriso aperto e sincero. E da tifoso adulto, cui ha dispensato lampi e buonsenso, alleviando da par suo decenni infiniti inclini alle zero soddisfazioni. Con Gianfranco Civolani ci abbandonò il Bologna dello scudetto. Celebrammo la sua nostalgia e quella di quel mondo tonante. Con Stefano se ne va un giornalismo della ripartenza, capace di scovare intelligenza, ironia, direi “bolognesità” anche nelle altrimenti deprimenti trasferte di Serie C.

Era bravissimo. Buono. Onesto.

Rendiamogli l’omaggio che merita.

Io non so

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Il 14 novembre 1974, sul Corriere della Sera, Pier Paolo Pasolini scrisse un indimenticabile articolo sullo stragismo nero. “Io so”, diceva. Sapeva tutto ma non aveva le prove. Conosceva i mandanti, gli esecutori, i motivi che per tutto il Dopoguerra avevano reso l’Italia, già travicello basculante tra nazisti e alleati, un fuscello altrettanto esposto tra i due blocchi della Guerra Fredda. Di quello sconcio oggi conosciamo molto, ma non tutto. Che la bomba alla stazione di Bologna fu pagata a Gelli in dollari, ad esempio, è notizia recente. Ma ne siamo tutti figli. Si deve anche a quell’Italia sotto schiaffo, troppo solida, vista da Wahsington, per un golpe alla greca, o alla cilena, troppo fragile per lasciarla in mano al Pci, che nella memoria della Sinistra, in realtà molto più prossima alla nostalgia, serpeggia un doppiopesismo faticoso. Come se quel “E allora Baghad?” fosse davvero un “E allora le Foibe?” di valenza uguale e contraria. Uno scempio usato per giustificarne un altro. L’invasione che va combattuta e condannata – e lo facemmo – quando è perpetrata dagli americani, ma va contestualizzata se è russa. Giammai giustificata, almeno in premessa. Ma capìta. Circondata dai distinguo.

L’altra sera, nella sua prossemica televisiva sempre efficace, sospesa tra palco e realtà, Michele Santoro rimproverava a Zelensky un piano “segreto” per riprendersi la Crimea. Attaccava cioè il leader ucraino perché ambiva a riconquistare una parte del suo territorio occupata dai russi. Come il Donbass. Con lo stesso schema visto in Ossezia, in Transnistria, eccetera: esercito senza insegne, sobillazione al separatismo, fornitura di armi, referendum confermativi ridicoli, eccetera. Alla domanda sul perché in Iraq chiedesse agli americani di fermarsi e a Putin oggi no, Santoro rispondeva che sono gli ucraini a doversi arrestare. Circoscrivendo l’ambito pacifista all’interno del proprio ego. Non senza qualche danno. Dacché un conto sono Francesco, la Marcia Perugia-Assisi, le associazioni senza bandiere come “Un Ponte Per”, i singoli cittadini che si offrono come scudi umani per andare in Ucraina a testimoniare sul campo la propria volontà concreta di “cessate il fuoco”. Un conto, un altro, è annacquare torti e ragioni non già del conflitto, ma di ciò che l’ha generato, ripetendo all’infinito quello che, appunto, sappiamo: l’Ucraina non era Fantasilandia neanche prima, Zelensky non è Gandhi, il battaglione Azov era morchia che riluce solo in virtù delle bombe altrui. Verità intangibili, che non spostano il confine tra vittime e carnefici o, come dicevamo di Bush padre e figlio, tra imperialisti e invasi. Dacché con lo stesso metro, la Slovenia potrebbe attaccare Trieste domani per defascistizzarla e, già che c’è, arrivare fino a Milano. Poi si vede.

Noi che eravamo pacifisti allora e lo siamo anche adesso, e ogni giorno sperimentiamo il disprezzo di chi sa, o crede di sapere, come uscirne, ma poi non lo spiega mai, viviamo uno stato d’animo che, insieme al talento imparagonabile, il lucore intellettuale, l’intelligenza, la cultura, ci separa anni luce da Pasolini. Noi non sappiamo.

Io non so. Non so come rispondere alla domanda su quale sia l’alternativa a sostenere la resistenza ucraina anche con le armi. Non so come l’Italia possa risultare meno ancillare a Washington, dacché sembriamo addirittura anticipare i desiderata americani, che sembrano confusi e muscolari come solo gli Usa sanno essere in politica estera. Non so perché a livello europeo non siamo stati capaci di una sola iniziativa autonoma, ad esempio sulle sanzioni, magari facendo quello che all’attuale Governo proprio non riesce: comunicare.

Romano Prodi impose una tassa per l’euro e la restituì, dopo aver spiegato agli italiani cosa intendeva fare. Qui si parla per battute sui condizionatori e non si racconta perché dovremmo spegnerli. E se la risposta fosse un’accelerazione? E se diventassimo noi la locomotiva di un convoglio che la Germania trascina in direzione opposta? E se trattassimo il Paese da adulto spiegando i benefici e i costi di quello che accadrebbe mollando il gas russo a passi più forzati degli altri? Magari Confindustria no, ma parte degli italiani capirebbe. Quella che tiene in piedi il Paese e sa riconoscere l’emergenza. Come accadde agli albori del lockdown. Quella che nei sondaggi dice no alle armi e quindi avrebbe da essere conseguente.

Non so come dare gambe alla mia confusa volontà di pace, alla speranza nella diplomazia, dacché la diplomazia per Putin è qualcosa che si bombarda. Non so, non ho la soluzione, non riesco a difendermi nemmeno sui social network dagli eserciti contrapposti di chi “vuole vincere e stop”, come se fossimo a una specie di Champions che si chiude al triplice fischio, senza conseguenze, si alza la coppa e via, e da quelli che vedono nella resa ucraina la sola via d’uscita. E se non sei d’accordo, sei un fascista: “Togli quella bandiera della Pace al profilo, ridicolo”.

Non so. So solo che sulle armi agli ucraini è del tutto legittimo discutere. Ma anche che se decidessimo di chiamarci fuori militarmente dal loro destino, al netto di cosa potrebbe poi succedere a moldavi, Paesi baltici, chissà chi altro, che restano a rischio anche e soprattutto se chi urla “vincere!” poi non vincerà, dovremmo farlo perché convinti che esista un’alternativa percorribile. E percorrerla, davvero, perché la riteniamo fattuale. E non perché la rivalsa di Putin verso gli errori dell’Occidente in fondo ne giustifica i mezzi.

Questo, lo so, sarebbe sbagliato. O almeno credo.