Perché Grillo ha ragione: no al bavaglio del web

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(ANSA - JACK TORRANCE) Una serena immagine del rapporto tra Beppe Grillo e i computer

(ANSA – JACK TORRANCE) Una serena immagine del rapporto tra Beppe Grillo e i computer

Grillo (anzi: Casaleggio, che gli ha scritto il pezzo) ha ragione: ogni tentativo di censura nei confronti della rete è sbagliato, pericoloso, inapplicabile.

Se un privato – al momento pare Facebook, forse Google, poi si vede – si dà delle regole per scremare la quantità di palle che girano per il web, è una scelta sua. Il navigatore potrà legittimamente prediligere quel motore di ricerca o un altro, fidarsi di quel filtro, decidere chi gli pare credibile e agire di conseguenza.

Non può farlo lo Stato, perché sarebbe una limitazione della libertà di espressione e confliggerebbe e di molto con l’articolo 21 della Costituzione.

Il bavaglio, dunque, no.

Se qualcuno diffama, ci sono le leggi per denunciarlo. E se il Pd, quel Pd, pensa che la sconfitta al referendum sia opera della disinformazione online, più che a Maria Elena somiglia a Maria Antonietta.

Specie dopo essersi dato una sorta di contraerea che al clickbaiting grillino opponeva il proprio. Non solo nel linguaggio, ma anche e soprattutto nei temi. Uno su tutti, ossessivo, le tasse. Se hai copiato paro paro la comunicazione basata sugli sfottò, sui meme scritti coi carattere Impact, sui video pseudosatirici costruiti peraltro malamente, meglio se dopo stai zitto. Ci fai miglior figura.

Detto questo, la Casaleggio e associati con quelle bufale campa e su quelle bufale ha saldato il proprio elettorato raccontando scientemente una quantità di fandonie surreale ma sistematica.

Perciò, che a difendere la libertà di stampa sia l’editore delle Fucine, di Tze-Tze, il manovratore non dichiarato di una galassia che prende per il culo chi la usa per informarsi, è grottesco, patetico, in profonda malafede. E rappresenta il cortocircuito principale di chi, fattosi editore, è molto peggio di tutti gli editori che critica. E, fattosi politico, somiglia e a volte sorpassa a tutti i partiti che dice di voler abbattere.

E’ un po’ come se uno spacciatore si dicesse favorevole alla liberalizzazione dell’eroina.

Ha ragione, almeno per me. Ma dev’essere chiaro a tutti che lo fa, lui, principalmente perché sta difendendo – chiedo scusa per l’anglicismo – il suo core business.

Solo questo.

In alto i cuori.

Della nostra quasi superiorità culturale sull’Islam: un’analisi impopolare

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È infinitamente comodo discettare di sicurezza e sparatorie dal divano di casa, mi rendo conto.

E in linea di massima la fede politica o ideologica dei poliziotti che hanno freddato Anis Amri dovrebbe essere irrilevante. Se fermi un tizio per un controllo e quello si mette a sparare è inevitabile difendersi. Anzi: è giusto. Specie se ha ferito un collega ed è con ogni evidenza pericoloso.

Stabilito questo, due brevi notazioni.

La prima attiene alla preparazione di chi è intervenuto. Colui che ha materialmente ucciso il terrorista è un novizio. Non lo fosse stato, avrebbe più facilmente reso inoffensivo lo sparatore senza ucciderlo. E oggi noi avremmo a disposizione una quantità di informazioni decisamente più importante. Al netto del fatto che se fosse stato Alfano, e non Lothar Minniti, a rivelare i nomi degli agenti, esponendoli a possibili rappresaglie, oggi la lista delle pernacchie avrebbe già fatto quattro volte il giro del mondo.

La seconda è, spiace, collegata all’humus culturale dei poliziotti coinvolti. Come ho già scritto, attirandomi qualche antipatia, se sulla tua bacheca Facebook inneggi a Hitler – come l’agente ferito – o a Mussolini (come lo sparatore) non è impossibile che le tue convinzioni si sovrappongano alla tua operatività. Cioè, traduco, che un maghrebino di meno tra i coglioni, per usare un linguaggio caro a Feltri e agli amici suoi, possa titillare regioni anche marginali del cervello. Portando ad agire di conseguenza.

Fuor di metafora, e chiudo, se certa violenza culturale del radicalismo islamico, elementare com’è, gratificante come solo l’odio può essere, è tra le cause più potenti della sua diffusione a macchia d’olio, soprattutto in fasce di popolazione poco erudite, il grumo di aggressività verbale che le forze populiste italiane, i loro giornali, i loro trombettieri, le loro tv, hanno coagulato in larghe fasce del Paese, potrebbe – potrebbe – persino diventare concausa degli atteggiamenti di chi si ritrova una pistola in mano nel momento sbagliato. E agisce in modo quasi giusto.

In quel “quasi” c’è tutta la nostra presunta superiorità culturale. Dovremmo, penso, ricordarcelo, prima di festeggiare la vendetta, sia pure verso un essere spregevole e imperdonabile come Anis Amri.

Parlandone da vivo.

Oggi è nato il Pd+Stelle. Buon divertimento

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renzilloNon credo che Roberto Giachetti sia il cafone maldestro apparso oggi all’Assemblea Nazionale del Pd.

Le sue battaglie politiche hanno sempre risentito della gratuità garibaldina dei radicali. Di molti radicali, va’. Lo era pure Capezzone.

Persino immolarsi contro la gragnuola annunciata del trionfo grillino a Roma è stato a suo modo un gesto coraggioso e alto.

A maggior ragione, l’infelicissima uscita contro Roberto Speranza – di cui, sia chiaro, m’interessa zero, così come del dibattito piddino – risulta paradigmatica di una definitiva mutazione genetica.

Anzi, della nascita di un nuovo partito.

No, non quello della Nazione: il Pd+stelle.

Facciamo due conti.

Chi non tollera il benché minimo dissenso interno? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Chi incita i propri fedeli contro ogni diverso parere? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Chi coltiva all’estremo personalizzazione e leaderismo della politica? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Chi divide sistematicamente il mondo in noi e loro per compattare le truppe? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Chi riduce a uno l’avversario? Il M5S (“Ma il Pd invece?”). Ma anche il Pd+Stelle (“Allora volete Grillo!”).

Chi difende i propri a spada tratta dalle stesse accuse giudiziarie che per gli altri sono infamanti e necessitano di immediate dimissioni? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Chi attacca l’Euro, i tecnocrati, i poteri forti, nascondendo il proprio potere e vendendosi come underdog vessato? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Chi evita di usare parole poco popolari come mafia e lotta all’evasione fiscale? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle*.

Chi attacca i giornalisti con la scusa di difendere la libertà di stampa? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Potrei continuare, ma chiudo con la consonanza che ha fregato anche Giachetti: chi crede che la politica non debba proporre linguaggi magari ampollosi ma nobili, che chi è eletto debba esserlo per davvero anche nel modo di esprimersi, che la forma sia sostanza, il mezzo sia il messaggio, chi si comporta come un contropotere ma utilizza un linguaggio falsamente satirico, fintamente popolare, che abbatte sugli altri pur pretendendo rispetto per se stesso? Il M5S. Ma anche il Pd+Stelle.

Voi siete qui. E vi meritate (ci meritiamo) che continuino a indicarci la luna. Per farci abbaiare più forte.

Attenzione al dito, però.

 

*In realtà oggi Freud ha fatto sì che Renzi si vantasse pubblicamente di aver aumentato l’evasione fiscale e di volerla aumentare ancora di più. Poi si è corretto, Ma resta un lapsus meraviglioso

Della concorrenza all’italiana spiegata attraverso una valigia persa su Italo

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Attenzione: pezzo lungo e a forte rischio esticazzi

L’altra sera, Bologna-Roma, Italo.

All’atto di scendere scordo la valigia a bordo.

Il treno si ferma lì, è l’ultimo della sera, la carrozza è vuota. Tre evenienze che mi fanno sperare di ritrovarla, nonostante non si sia in Svezia.

In fondo basterebbero un capotreno onesto e pronto  – cioè controlla il treno prima che vada in deposito, come immagino dovrebbe fare  – o un addetto alle pulizie onesto e basta (dopo) per farmi rientrare in possesso del bagaglio.

La mattina dopo alle 7 chiamo blandamente fiducioso il call center di Italo, ma quello gratuito serve solo per comprare i biglietti. Se hai bisogno di altro, paghi oltre un euro al minuto.

Faccio l’altro numero. La situazione sembra professionale: un’addetta mi chiede i codici, i miei dati, e mi dice che sarò richiamato. “Per essere sicuro però le converrebbe andare alla lounge Italo di Roma Termini”.

Non ho tempo di andare alla lounge (#fastidio). Aspetto fiducioso. Non chiama nessuno.

A metà giornata ritelefono. Ripago. Mi fanno presente, cortesissimi, che loro stanno a Reggio Calabria. Chiedo notizie. La mia segnalazione precedente non risulta. “Però le conviene andare a Termini”. Io: “Naturalmente la lounge non ha un numero pubblico”. Loro: “Non ce l’abbiamo neanche noi”.

La sera, finito di lavorare, vado a Termini.

Quando espongo il mio caso all’impiegato della lounge mi scruta con lo stesso sguardo che ha la Raggi quando vede una delibera: “Ma chi: io?”. Mi spiega cortesissimo che loro non c’entrano niente. Mai visto valigie in vita sua. Devo andare alla Polfer.

Esco, accoppiando mentalmente nostro signore ad alcuni animali da cortile. Raggiungo il casotto provvisorio della Polfer al centro della vasca di Nervi. Busso. Non rispondono. Guardo attraverso i vetri oscurati: nessuno.

Comincio allora a vagare nella ricerca di un agente. Ne trovo uno che sta dando indicazioni a due giapponesi in un inglese che persino Matteo Renzi troverebbe deprecabile. Cortesissimo pure lui, si offre di accompagnarmi al commissariato vero e proprio. O come si chiama.

Sembra Paolo Di Canio. A giudicare dal berretto fuori ordinanza (modello due taglie più piccolo: da falchetto) forse la pensa allo stesso modo politicamente.

Durante la lunga camminata – la Polfer è dentro Termini ma ai confini con Frosinone – chiacchieriamo del dato che rende possibile la mia odissea minima: le Ferrovie dello Stato, che gestiscono le stazioni e le sfondano di esercizi commerciali fino a non lasciare spazio manco per i treni,  hanno abolito da alcuni anni gli uffici oggetti rinvenuti, che costerebbero come dieci minuti dell’affitto di Yamamay a Milano.

La procedura attuale prevede(rebbe) che l’eventuale buon samaritano, ove trovasse qualcosa sul treno, andasse all’apposito ufficio del Comune di Roma che sta a Ostiense, dall’altra parte della città.

Sottolineo l’inciviltà della cosa, lo scarico della responsabilità, il sostanziale “cazzi tuoi”.

Risponde che sì, ho ragione. Però dietro all’abolizione di quell’ufficio potrebbero esserci altri motivi. “Magari la gente se ne approfittava”. Mentre sto per chiedergli che tipo di prevaricazione potrebbe mettere in atto uno che perde una valigia, siamo arrivati.

Mi deposita davanti a un citofono. Suono il campanello. Voce gracchiante: “Oggetti smarriti?”. Il che rivela l’esistenza di una procedura parallela: la Polfer accetta in via del tutto eccezionale, per buona volontà, di trattenere ciò che non dovrebbe trattenere “ma solo se contiene cose di valore”. Io ho due maglioni appena comprati che, ove indossati, forse mi eviterebbero di sembrare la controifigura anziana di Pig Pen.

Mi sa che non basta.

Do indicazioni, sempre al citofono. Va a cercare. Dopo 10’ il citofono crepita di nuovo. Niente.

Impietosito, l’agente di guardia esce a congedarmi. Cortesissimo. Mi spiega che loro vanno oltre il loro dovere, e che in magazzino c’è solo una valigia con dentro un tablet.

Contemplo mentalmente l’ipotesi di appropriarmene, ma è un attimo. Lo saluto.

Mentre ripercorro a ritroso il percorso verso l’albergo – la procedura mi ha fatto perdere l’ultimo treno per casa – e associo altre creature del mondo animale a parenti di primo grado delle più comuni divinità, realizzo che ho bisogno di sfogarmi. Cortesemente.

Chiamo il call center a pagamento, mantengo una calma olimpica, ma rilevo che mi hanno dato una quantità importante di informazioni false. E a caro prezzo.

Quella mi ascolta, cortesissima, e allarga le braccia: “Ha ragione su tutto. Ma siamo a Reggio Calabria”.

Stamane torno a Termini, alla lounge: vorrei annunciare fiero a qualcuno in carne e ossa che d’ora in poi piuttosto che viaggiare su Italo prendo il calesse. Una ragazza, cortesissima, mi dice che sì, normalmente le valigie vengono lasciate anche da loro (quello della sera prima doveva essere un mitomane con la divisa di Italo) ma non ha ricevuto niente. Devo andare alla biglietteria di Italo e parlare con una responsabile.

Vado alla biglietteria. Dove trovo una bigliettaia, cortesissima, che mi fa aspettare un po’ e mi introduce alla responsabile. Cortesissima. Mi ascolta mentre le ripeto la litania, cortesissimo pure io, comprensivo verso chi mette la faccia per un’azienda che ha fatto tagli clamorosi e costringe i lavoratori a continue figure di melma.

Spiego tra l’altro che i casi sono due:

o la mia valigia se l’è ciulata qualcuno che ha normali rapporti di lavoro con Italo, quindi farebbero meglio a controllare chi si mettono in casa.

Oppure è ripartita col treno che avevo preso io e quindi c’è un bagaglio non controllato da alcuno che viaggia per l’Italia. Meno male che non siamo sotto le Feste e non ci sono allarmi terrorismo.

Dice che ho ragione, che praticamente ho spiegato io a lei quel che succede, che è colpa delle Ferrovie dello Stato, che loro, loro di Italo, ci hanno anche provato a ridare le cose ai passeggeri. “Ma poi magari la gente se ne approfittava”. Ora posso a chiederlo a lei: in che senso se ne approfittava? “Sa, magari volevano recuperare i guanti, i cappelli, gli occhiali”.

In effetti è surreale: perché mai uno che ha perso sul treno un paio di occhiali, magari costosi, vorrebbe recuperarli col pretesto che non ci vede?

Lascio il mio telefono alla responsabile cortesissima nella speranza che Babbo Natale si palesi  e mi rimandi la valigia. Non accadrà. Speriamo che i miei maglioni stiano bene al nuovo proprietario.

Morale: Grandi Stazioni (Trenitalia), abolisce gli uffici oggetti smarriti perché costano. Italo abolisce il personale che potrebbe aiutarti a recuperarli. Perché costano. Entrambi negano informazioni alla clientela, o le danno sbagliate attraverso un girone dantesco che assimila disorganizzazione e malafede, e dopo averti carpito il prezzo deli biglietto ti lasciano ad arrangiarti persino in minime emergenze come questa. Lucrando una doppia posizione dominante.

Infine, io sono diventato impopolare al lavoro portando gli stessi vestiti per due giorni.

Però avete notato che sono tutti cortesissimi?