L’olio extravergine di oliva: una presa (diretta) per i fondelli

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Ieri sera guardavo Presa Diretta, dell’ottimo Iacona, roba che da sola vale il prezzo del canone. Si raccontava degli oli taroccati. E, al solito, mi sono sentito nel giorno della marmotta. Perché quella storia, senza approfondirla troppo, l’avevo già raccontata più o meno 10 anni fa. Il libro, sequel dell’omonimo tomo di Michele Serra, si intitolava “Tutti al Mare Vent’Anni Dopo”. Scrivevo di Calabria.

SEMINARA

Se c’è una cosa che ti colpisce, entrando in Calabria sulla Statale 16, è l’ottimismo. Quello dei ciuffi di cemento armato che spuntano dai tetti delle case, pronti a fare da nerbo per il sopralzo che verrà, quando ci saranno i soldi. E quello di una campagna contro gli incendi che accompagna questa e altre strade a cadenza regolare e ineludibile. Lo slogan è “Calabria, incendio domato”, e per darle un volto devono a verci pensato a lungo. Serviva, com’è ovvio, la faccia di uno che conosce il problema, autorevole, fortemente legato al territorio. Hanno scelto Massimo Giletti. E a me, al decimo chilometro in compagnia del suo faccione piallato col computer, è venuta una gran voglia di cominciare a fumare e spargere mozziconi per la macchia mediterranea.

Scendendo verso Vibo Valentia, a Limbadi, un altro sprazzo di fiducia nel futuro. Uno dei piccoli frantoi strozzati dalla grande distribuzione che vendono il proprio olio pregiatissimo solo ai locali e a qualche amatore sparso per l’Italia. Mi faccio (ri)spiegare, ché sulla vicenda già picchiò duro Report: “Per la legge – mi dice Francesco Corigliano, il proprietario, discendente di una famiglia ch produce olio da sessant’anni – è sufficiente che l’olio extravergine abbia lo 0,8 per cento di acidità. Ottenuta non importa come. Dunque quello che compri al supermercato può essere costituito dal 10 per cento di olio davvero extravergine e il 90 di olio lampante rettificato”. Cerco di mitigare l’ignoranza: che è l’olio lampante? “L’olio extravergine profuma, quello lampante puzza. Lo si ottiene dalle olive cadute a terra naturalmente, senza battere l’albero. Hanno iniziato a fermentare, sono molto più acide. Ma basta purificarle con solventi chimici”. Nascono così gli extravergine a 3 euro per bottiglia, quando quelli come Corigliano – tre dipendenti in tutto, dodici durante la raccolta –  devono venderli almeno al doppio per andare in pari. Domanda: e quelli che scrivono “olio italiano” sull’etichetta? “Vale la norma dell’olio lampante, è sufficiente una percentuale. Il resto magari è turco, spagnolo. Anche quello biologico. Certo, ci fosse il marchio Dop..:”. E c’è? “Qui no. Qui amiamo dividerci. Nessuno si consorzia, tutti giocano per sé. Si tira a fregare l’altro. Se il Parmigiano non avesse un consorzio, se lo mangerebbero solo in Emilia. Per il marchio Dop però era fatta, poteva essere un punto di partenza. Poi è cambiata la maggioranza in Provincia e ci hanno detto che non potevano sposare una causa della Giunta precedente. Non ci finanziano più, si ricomincia da capo”. Chi governa ora? “Il centrodestra”.

Pagato il tributo testimoniale al porto di Gioia Tauro, nel quale si entra in macchina con estrema facilità nonostante i due casermoni di Carabinieri e Polizia parcheggiati ai lati dell’ingresso, discendo verso l’imbuto anarchico di Palmi, in fondo al quale un vigile tenta di sciogliere un ingorgo cominciato probabilmente nel ’78, e poi verso Seminara, nella Piana, tappa finale della giornata alla ricerca della Calabria felix.

E’ lì che trascorre l’estate l’unico autore satirico di destra autoproclamatosi tale: Natalino Russo, ex bancario, ex barista, ex dipendente dell’Aci, che a quasi sessant’anni ha cominciato a bombardare siti Internet più o meno famosi con le sue battute: “Se Berlusconi diventasse re, lo chiamerebbero ‘Sua Altezza Irreale”. “Il collezionista di monete dicesi numismatico, se invece colleziona patacche dicesi Nomismatico”. “Difficile sostituire Luttazzi, nessuno sa farne le feci”.

Com’è ovvio, Natalino ha subito raccolto un certo successo. Prima gli hanno dato una presenza fissa su Tv7, il magazine del Corriere della Sera. Che ha chiuso, purtroppo. Oggi impreziosice Eva Tremila con alcuni arguti calembour sui vip. Senza contare la quotidiana presenza su Dagospia, il sito di gossip e controinformazione che ne ospita gli exploit nella sezione delle lettere. Sul mio blog, avevo cominciato a citare le sue gag in una rubrica dal titolo piuttosto eloquente: “Il luogocomunista”. Se n’è accorto e, convinto che fosse un omaggio, ha cominciato a frequentarlo e a lasciare commenti in difesa di Berlusconi, contro Prodi e contro Stalin. Che ai suoi occhi sono sostanzialmente la stessa persona.

Dopo due settimane era peggio di Pearl Harbour: come già era accaduto nel sito assai più celebre di Sabelli Fioretti, il blog è diventato una rissa continua tra chi dava del decerebrato fascista a Natalino, e quelli che rispondevano accusando gli interlocutori di essere impotenti comunisti: Natalino medesimo.

Ora sono qui, per implorarlo di smettere. E farmi spiegare ‘sta satira di destra.

Nella piazza del paese, 2500 anime che diventano 15000 a Ferragosto per via che gli emigranti tornano a festeggiare la Madonna dei Poveri, Natalino mi accoglie con entusiasmo. Provo a pagare un caffè, ma mi spiega “a certe regole di ospitalità non ci si può sottrarre”. E la regola è questa: lui mi prende in ostaggio per quattro ore, per l’intervista si vede.

La prima tappa è un’emozione vera, la visita all’unico lettore dell’Unità di Seminara: Vincenzo Latino. Ha 81 anni. E’ il barbiere del Paese da mezzo secolo. Meglio: lo è stato fino a dieci anni fa. Ma da allora non smette di aprire bottega tutte le mattine. Spolvera, si siede su una delle poltrone bianche e rosse, e legge. “Non ho perso una copia dal ’45 – mi dice, impastando italiano e vernacolo – era direttore Togliatti. E ne ho pagato le conseguenze. Saranno stati gli anni ’50: un politico Dc mi additò durante un comizio. I clienti smisero di venire perché avevano paura di farsi servire dal comunista. Provai in un Comune vicino: sei chilometri a piedi tutti i giorni. Ma lì si mise di mezzo il prete. Finì che non avevo neanche i soldi per comprare le sigarette. In più avevo due fratelli partigiani: un’aggravante”.

Latino è la tua storia incarnata, o almeno come ti piacerebbe che fosse. Con l’Unità si è alfabetizzato prima, erudito poi. Ha una faccia, un tono, una moglie – bella ora, da giovane doveva essere un bouquet di fiori – che ti mettono allegria nel cuore. E ha tirato su otto figli, mentre quelli lo boicottavano. Gli chiedo cosa vede guardando attraverso la vetrina. Mi risponde che passano molti giovani, e che a quei giovani non frega niente della politica.  Poi mi chiede di dove sono. Bologna, rispondo. “Allora avete conosciuto Dozza…”. Magari, verrebbe da rispondergli. E raccontargli quella città vetrina che vetrina non è più. Ma il mio Cicerone ha fretta, vuole mostrarmi un bar che produce biscotti tipici. Quasi non riesco a salutarlo, Vincenzo. E allora lo faccio qui: è stato davvero un onore conoscerti.

I biscotti in questione si chiamano pitte e li produce il bar dei fratelli Zagari. Avevo promesso di scriverlo. Non posso  inoltre non accennare  (non posso: chiaro?)  alle friselle della panetteria che sta nella piazza principale, delle quali ricevo opportuno omaggio. E, anzi, vorrei cogliere l’occasione per segnalare che il Bar Sport di Seminara fa un ottimo caffè. Mi spiace solo non ricordare il nome della coppia madre-bambino – il figlio forse si chiamava Giovannino, ma non ci giurerei – che sta in veranda e che Natalino mi obbliga cordialmente a fotografare. Prima di spostarci da un ceramista suo cugino: “Devi scrivere –  mi dice– che sei entrato nella bottega di Domenico Bitto, e che i tuoi occhi sono rimasti incantati”. Eseguo. Perché le ceramiche di Bitto sprigionano decoro, arte, fatica. E anche perché sono ormai incapace di opporre la benché minima resistenza.

Natalino è un ciclone. Nel giro di pochi minuti, e a ritmi crescenti, tenta di fare sposare il mio bimbo di tre anni con la figlia di un facoltoso olivicoltore del posto; mi rivela che pur essendo di destra apprezza l’ex sindaco Costantino, ds, oggetto quando era in carica di numerosi attentati della ‘ndrangheta; mi racconta che una volta in chiesa ha raccolto i fondi per far rimpatriare la salma di un bracciante bulgaro abusivo; si vanta di aver scritto una poesia più corta del “M’illumino d’immenso di Ungaretti”; sostiene che un suo componimento sta al museo dello Shoah; mi declama un poemetto in cui il lungomare di Reggio fa rima con egregio; rievoca la serata nella piazza di Seminara in cui prese più applausi di Alvaro Vitali; mi racconta di aver gabbato un vecchio amico diessino raccontandogli la stessa barzelletta (quella del sub eccezionale e del sub normale: la sapete, no?) prima su Craxi e poi su Berlinguer. E quello ha riso solo la seconda volta.

Beh, ci ha provato anche nel mio blog, a fare il doppio gioco sotto mentite spoglie. Ma l’hanno scoperto subito e ricoperto di insulti. Nonostante questo, quando ormai in piena notte mi libero del rapitore, dopo una cena con vista autostrada naturalmente a sue spese, mi sorprendo a pensare che nella sua mitomania ipercinetica, il Seminara – perché così si fa chiamare, Natalino – sia in fondo un buon diavolo.

In fondo pure lui è calabrese. Dunque ottimista. Quasi dimenticavo: Natalino, e la satira di destra? “E’ quella che si fa a 360 gradi”. Finalmente una battuta eccellente.

 

Wake Me Up When Seventies End

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Certe mattine, sempre di più, mi sembra di stare negli anni ’70.

Per la guazza melmosa, il rancore sordo che invade ogni ganglio del Paese, il travaso di Cile che sembra prender corpo in piazza e assimila qualche giusta ragione a prepotenze assortite. I libri bruciati, per dirne una.

Allora mi metto su un caffè ed entro, a forza, in modalità positiva. Recupero qualche vhs di Anima mia, i Topolini che ho regalato a mio figlio con la pubblicità delle piste Politoys, quelle di Paola Pitagora, un vecchio numero di Playboy con Barbara D’Urso in copertina. Meglio allora.

Rimuovo, insomma, quel che non mi piacque e non mi piace. Faccio spazio ai ricordi lieti. Relativizzo. Persino in quegli anni poveri, come questi, funesti, come questi, anarcoidi e confusi, come questi, la vita fluiva. Le menti producevano. Quel che ci sembrava orribile (certi brutti film, per dire, tipo i poliziotteschi) ci sarebbe diventato lieto poi. Quindi, forse, mi dico, un giorno rivaluterò pure la Fiat Freemont.

L’altro trucco, lo svelai a suo tempo, è quello di abbinare una musica, una colonna sonora privata, allo scorrere degli eventi. Quelli privati, intimi, ma anche e soprattutto il fluire spesso stolido dei social, delle reti all news. Mentre scrivevo queste righe, ad esempio, mi toccava di seguire una non stop sul Governo Letta, le sue strette intese, e intanto mi apprestavo a raccontarti, amico lettore, il nuovo album dei Calibro 35, la band veteromilanese che, quando si dice il caso, arriva dritta dai Seventies.

Li ho sovrapposti. Perfetti.

Perfetta per il nuovo premier, così aggressivo, per la sua fiducia richiesta in modi così tonitruanti, quella “Stainless Steel” che ne evoca i recenti e autocertificati attributi d’acciaio. D’improvviso, con quelle note sotto, il Letta 2.0 pareva trasfigurato, sembrava Matteo Renzi senza la parlata da Cascine. Meglio: sembrava Maurizio Merli senza la tinta. E i baffi. E gli occhi azzurri. E il carisma (ad libitum).

Poi è apparsa Paola Taverna, la pentastellata che abbina la passione politica di Giovanna D’Arco alla raffinatezza espressiva della Sora Lella. Ho vagato nell’album, che si chiama – piacerebbe a Brunetta – “Traditori di tutti”, e ho pescato, confesso: non a caso, “Annoyng repetitions”. Impagabile. Accompagnato da un’armonia modello filodiffusione, o supermercato Pam coi cartoni del latte ancora piramidali, il boato prodotto dall’intervento della Taverna retrocedeva a lite per la coda alle casse, o al check in. Si relativizzava pure lui.

Parlava la Carfagna? E allora dentro il sensualotto “The Butcher’s Bride”, sulle note del quale Michele Guardì, ai tempi, avrebbe potuto innestare coreografie miracolose. Poi Mara cambiò strada. Interveniva Epifani? A parte che Epifani è anni ’70 di per se stesso, cammina seppiato, ma mettendo in sottofondo “One Hundred Guest”, sorta di funky gotico, improvvisamente si materializzava un altro gotico, quello staliniano, e la rabbia democratica di Epifani diventava la foga di un pensionando che sta per ritirare la medaglietta aziendale.

Poi sono ricominciati i collegamenti con le varie forconerie. Allora ho messo in loop “Giulia Mon Amour”, ho dato un giro alla palletta con gli specchi appesa al cielo, e ho tolto il volume alla tv.

Quando finiscono gli anni ’70, fatemi un fischio.

Uscito su Sette

Una volta era mitico, oggi è diventato geniale (director’s cut)

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“I complimenti costano poco e certe volte non valgono di più”.

La perla di saggezza arriva dritta da Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, ai tempi in cui l’anatema di Alberto Arbasino non l’aveva ancora colpito. Nel tempo cioè in cui non aveva compiuto il tipico e triplice percorso che fa dell’italiano celebre una brillante promessa, poi un solito stronzo, e infine lo innalza a venerato maestro. Scrittore, filosofo, guida spirituale. Una condanna. A vita. Che sfocerà prima o poi, speriamo poi, nella gloria eterna del perbenismo scritto: il vuoto incolmabile.

Negli anni, il teorema ha subito una brusca accelerazione – si pensi a Mario Monti un annetto e mezzo fa, e alla curiosa deriva che oggi lo rende meno popolare del cagnolino Empy – e non manca di robuste eccezioni. Come Roberto Saviano, che ha saltato le prime due fasi per diventare ipso facto venerato maestro, salvo poi retrocedere nell’immaginario (quasi) collettivo a solito stronzo. Colpito, alle spalle, da quel professionismo dell’antiretorica, da quel conformismo dell’anticonformismo, che in Italia sono per tanti un mestiere, e da quel riflesso di cattiva coscienza che spinge le nostre menti migliori, e quelle peggiori, a disegnare grossi falli sulle torri d’avorio appena innalzate.

In quella verità da canzonetta del giovane Jovanotti, praticamente un Giovanotti al quadrato, si annidavano i batteri di una pandemia che avrebbe devastato e inaridito il lessico negli anni a venire, per colpa quasi esclusiva del combinato disposto tra l’italica pigrizia e l’effetto rullo compressore prima della tv e poi dei social network. Ma se ai tempi dell’omonimo brano di De Gregori (a.D. 2001, cioè 6 d.C., dopo Cherubini), “L’aggettivo mitico” era appannaggio della brutta tv, del cattivo giornalismo, delle pessime recensioni, l’era di Twitter,  di Facebook, della maggioranza di silenziosa che forse aveva ottimi motivi per starsene zitta, l’hanno dapprima elevato al ruolo di a.e.u., attributo entusiastico unico, e poi, più recentemente, a quello di q.a.e. (qualità abborracciata equivalente). Perché già s’avanza il “mitico 2.0”,  e che quel che era mitico sempre più spesso in rete diventa “geniale”. E chi l’ha scritto un genio. A volte addirittura un gegno.

A una prima analisi le due carezze verbali parrebbero equipollenti, ma le differenze sono profonde. “Mitico” eterna. Ha una pretesa di immortalità spicciola. Si applica alla storia e alla storiella: per contrappasso, Jovanotti, o De Gregori, sono essi stessi miti(ci), lo sono le loro citazioni, come quelle di Ennio Flaiano, di Oscar Wilde, di Madre Teresa di Calcutta e di Bukowski, di Martin Luther King e Mario Borghezio, di Panariello, Fiorello, Martufello, Quagliariello.

La genialità invece fa rima con contemporaneità: è geniale la battuta buona, e anche quella scarsa, ma scritta da un amico, o da una fanciulla con cui desideri giacere. Geniale è il fotomontaggio comico rubato chissà dove. Geniali sono le boutade di Roberta a Radio Maria e quelle di Sgarbi a Radio Belva. Geniale è il tizio che riprende una tabella prelevata da un sito che l’aveva composta fotocopiando il motto di spirito di un deputato grillino che l’aveva letto su Spinoza.it che al mercato mio padre comprò. Fate girare.

Geniale, in assoluto, è lo spirito non richiesto che inonda le bacheche e ci spinge a complimentarci con gli umori altrui, nella speranza che qualcuno prima o poi si complimenti con noi.  Un fiume di consenso senza valore che conferma l’incapacità tutta tricolore di scindere contenitore e contenuto: siamo, noi, il popolo che confonde il demenziale con la demenza e la satira coi satireggiati. Quando Matt Groening* dotò Homer Simpson di un unico aggettivo – “Mitico!” – valido per le Duff ghiacciate, i quadri di Kandinskij, l’incontro con Cristiano Ronaldo, stava sfottendo, tra gli altri, il linguaggio della middle class americana. Ci è piaciuto. L’abbiamo adottato. Abbiamo unito e mezzo e messaggio, come tanti Mc Luhan postmoderni mandati a sbattere contro Mc Donald’s. Ma non ci bastava ancora: l’abbiamo reso geniale.

So bene che il problema dell’appiattimento linguistico non rientra tra le prime cinquecentomila emergenze italiane e si colloca qualche posizione dopo, diciamo tra il battesimo del figlio di Carmen Russo e la rubrica di Carlo Rossella su Il Foglio, però è pure vero, anche senza ricorrere al Moretti di Palombella Rossa (mitico) che chi parla male pensa male. Clicca male. Condivide male, all’impronta, senza leggere, senza sapere. Forma, sui social, una specie di coscienza collettiva carlona che mira a rafforzare i propri pregiudizi attraverso un plebiscito incidentale e virtuale.

C’è un esempio, in questi giorni. Anzi due: la bambina “rapita” dai Rom in Grecia, sorta di leggenda metropolitana realizzata – forse – che ci permette di diventare razzisti senza più sensi di colpa, al placido prezzo di un clic. Mitico. E poi c’è la questione Odifreddi. Fino alla settimana scorsa era un genio, lui, col suo delizioso anticlericalismo postseminariale. Di quei like si sarà senz’altro compiaciuto. Adesso, dopo che ha applicato le medesime categorie matematiche a valori non negoziabili  è diventato mitico inondarlo di contumelie. E lui, il professore, si chiede perché, dopo aver ridotto il negazionismo a tema da social, con un linguaggio da social, su un social, ci sia gente che vuole parlare di cose così importanti proprio sui social.

“Geniale” è una sorta di “carino” anabolizzato. Si porta con tutto, e con niente. E’ la banalità del bene, anzi del benino, come “mitico” era la banalità del benone. In un solo giorno di tweet, quello in cui queste righe sono state compitate, la mitica Barbara D’Urso si vantava di ospitare il mitico Bobby Solo, decine di mitici appassionati festeggiavano il mitico sequel di “Scemo e più scemo”, le mitiche fan di Nek ne rilevavano il mito per aver citato un mitico proverbio cinese (“Se cadi sette volte, rialzati otto”), il mitico doppiatore Luca Ward pronunciava la frase “Se abbaia è radio Canaja”, il mitico Pupo, di passaggio a Erevan, si complimentava col mitico monte Ererat, e risultavano altresì mitici Bruno Barbieri di Master Chef, la Polaroid SX70, Mara Maionchi, Rossella Brescia, Red Ronnie, la caponata, Frank Poncherello dei Chips, Massimo Boldi, Rudy Zerbi, la Bauhause, Tabacci, il Legnano calcio, Giampiero Galeazzi, il taccuino di Pippo Civati, i Loacker (segue).

Contemporaneamente, Nicola Zingaretti della Provincia di Roma ci teneva a definire geniale il nuovo singolo di Vasco, Giuseppe Cruciani sosteneva per interposto tweet la genialità del Fatto Quotidiano, Caterina Balivo riscontrava il genio in una ricetta di patate dolci e paprika, e geniali risultavano pure Peppa Pig, Massimo Boldi secondo estratto, le cotolette vegan, la battuta di Andrea Agnelli sullo scudetto di Jakartone, Kronosisma di Vonnegut e una lista sterminata di amichetti nostri. Specie su Facebook, laddove, però, per fortuna, si affaccia anche l’unico antidoto possibile a questo letargo collettivo dello spirito critico: lo spostamento di senso.

E’ una crepa, l’aggettivo “geniale” utilizzato sarcasticamente, ma si allarga: I geniali titoli della Domenica Sportiva su Roma Capoccia, i geniali 14 euro al mese che dovrebbero rivitalizzare l’Italia, la geniale iniziativa di un libro per analfabeti, la geniale Rosy Bindi che assicura impegno per combattere l’antimafia, la geniale professoressa che invece di far lezione sta un’ora al telefono per un’offerta della Tre. Anche se, in questo caso, già scivoliamo nel campo del “grande”, cioè dell’aggettivo con cui Letta, sinceramente impressionato, onorò Berlusconi all’epoca del coup de théâtre sulla fiducia.

Ma dell’affezione/ammirazione tutta italiana per il diavolo parleremo un’altra volta. Può uscirne un articolo geniale.

*Anche se alcune fonti attribuiscono l’invenzione a Tonino Accolla, compianto doppiatore di Homer. Che a quel punto diventerebbe esso stesso mitico.

Uscito su La Lettura del Corriere della Sera il 29 ottobre 2013

Perché sono contro la Tav

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Pensavo questo, no?

Pensavo che nonostante il mio pane venga dalla satira, che è per forza di cose estrema, faziosa, talvolta aggressiva, gli ultrà – con qualche amichevole eccezione – mi stanno abbastanza sui coglioni.

Quelli del Bologna, tendenza fascionostalgica, mi hanno omaggiato di una scritta minacciosa davanti allo stadio. E mio figlio è molto orgoglioso: certi nemici, molto onore.

Gli juventini scassano spesso la minchia, ma smettono appena scrivi una cazzata sul Milan. Allora rompono quelli del Milan. Finché non ne fai una sull’Inter. Allora… no, gli interisti no. Sono un po’ il Pd del calcio: incassano tutto, sono abituati alla sofferenza.

I grillini, poi. I grillini si arrabbiano perché il verbo è intangibile. Sempre meno, in verità. Adesso le loro ragioni hanno smesso di urlarle, in molti, persino sui Social. Ma continueranno a votare Peppe, magari vantandosi un po’ meno, trollando un po’ meno. Perché da Silvio, a Benito, a Giulio, a Gianroberto, l’italiano certe passioni se le tiene un ventennio almeno.

E poi ci sono i No Tav.

Che poi io mica sono a favore della Tav, specie quella verso Lione. Ma penso che nella frase “Tav in Italia” la parola sbagliata non sia “Tav”, sia “Italia”. Se non fosse per gli appalti a cazzo, con Don Ciccio già pronto a intercettare la commessa. Se non fosse per le gallerie fatte costruire a chi manco lo so, ora, ma temo di scoprirlo tra vent’anni in un’inchiesta. Se non fosse perché è un’idea di Silvio e che l’appoggia molta gente indifendibile, se non fosse per mille altri motivi ambientali che mi spingono al no, direi: cazzo, è un treno.

Cioè, io non capisco niente, forse mi sbaglio, i giornali non li leggo tanto, ma mi pare che in Val Susa siano state da poco raddoppiate in ampiezza le gallerie autostradali. Ergo passeranno più Tir, dunque più merda. Come da sempre e per sempre. E non ricordo rivolte, per le autostrade più larghe.

Che poi manco è più Tav, no? E diventato un treno ad alta capacità. Cioè servirebbe alle merci. Ma fior di studi dimostrano che le merci non ci sono, non c’è la richiesta, che il corridoio è stato dismesso perché la Francia, la Slovenia, un po’ tutti, hanno mollato il colpo. E se non fosse per tutte le granitiche controindicazioni di prima, che ribadisco, che sposo, che difenderei fino alla morte, direi: ovvio che non c’è la domanda. E’ come non costruire una ciclabile perché tanto la gente non va in bici. Certo che non ci va: non ci sono le ciclabili. Questo direi, se non ci fossero Silvio, Lunardi, Fassino, Don Ciccio e compagnia cantante.

Però poi no, forse non lo direi. Perché ne so poco, davvero. Ma soprattutto perché sostanzialmente sono un pavido, un pigro. E a me di farmi fracassare i coglioni come è successo oggi, perché ho scritto che è un po’ comodo fare i No Tav da un teatro, o dalle colonne di un giornale, magari spiegando che i reati sono giusti perché si oppongono ad altri reati, ecco, mica mi va.

Non mi va perché non mi appassiona la slabbrata e vetusta teoria dei cattivi maestri, anche se, è evidente, sul treno della contestazione è salita gente che farebbe fatica a trovare la Val di Susa, senza Google Maps. Ma ha altre (e legittime, figurarsi) aspirazioni.

Non mi va, anche se certa retorica intellettuale è proprio quella dei favolosi Seventies.

Non mi va, anche perché in questo curioso Paese, quella retorica (vogliamo chiamarla di estrema sinistra?), trova oggi la sua migliore interprete in Daniela Santanché, che l’altro giorno ha finalmente ammesso ciò che il Pdl – il più eversivo dei partiti – lasciava intendere da tempo. Cioè che c’è un bene superiore, nel suo caso il culo di Berlusconi, per cui il codice penale non esiste più. Ed è inutile aspettare il corso della magistratura per stabilire quali e quanti sono i reati, persino se a guidarla è quella risorsa dello Stato, cioè di tutti noi, di Giancarlo Caselli, che anche lui si prende dell’infame sui muri da quelli che osa indagare. Infame, lo stesso aggettivo di cui lo onoravano i mafiosi.

In attesa del prossimo Carlo Giuliani, e del prossimo Placanica. E qualcuno che vuole entrambi c’è sicuramente su tutti i fronti. Chissà che bello spettacolo teatrale, che bel libro ci verrebbe. Quanti bei talk show. Quante copie di Libero e il Giornale in più. E anche di là, anche di là.

Non mi va perché poi mi toccherebbe ricordare che la Tav l’hanno già fatta tra Bologna e Firenze, sventrando lo sventrabile, prosciugando fiumi, lasciando paesi senz’acqua, per guadagnare una fottuta manciata di minuti. Ma quando lo fai presente, chessò, ai fan di Casaleggio, beccato mentre va da Peppe a parlare contro la Tav sfrecciando a 300 all’ora in galleria, poi ti spiegano che no, quella è un’altra storia, mica è la stessa Tav, perché non vieni in Valle…

Ecco, no. Pensavo di non andare in Valle. Pensavo di continuare a ritenere, con la mia testolina bacata, che quella Tav lì sia sbagliata e inutile per i fattori di cui sopra, tutti sacrosanti, tutti giusti, tutti intangibili. E che quei motivi, ampiamente rappresentati in parlamento, potevano già essere un disegno di legge, perché c’è un partito col 25 per cento che aveva tutti gli strumenti per agire.

Invece stanno a campeggiare sui tetti, cazzo, invece di essere al governo. Per difendere la democrazia, loro, in un partito che paga la Siae a Kim Jong Un.

Pensavo a tutte queste cose, con pacatezza, rispetto, quasi affetto per la battaglia contro quel treno (perché è un treno, cazzo) nonostante, come ho già detto, e giuro che era una battuta, a ogni gigantesca scritta sui muri, spesso scelti tra le case più povere, come se le abitazioni popolari non avessero diritto a un po’ di bello e a un po’ di decoro, mi verrebbe da andare ad aggiungere personalmente una traversina.

Perché in verità no: io sono profondamente, fieramente, immarcescibilmente contro la Tav in Val di Susa (e sul Garda, e ovunque ci sia qualcuno che ha un motivo fondato per non volerla, così come era sacrosanto non volere i viadotti dell’A1 negli anni ’60) ma fatico a condividere questa battaglia con chi usa i propri megafoni culturali per opporre l’illegalità bohemienne all’illegalità dei poteri forti.

Lo Stato si cambia, non si abbatte.

Buona No Tav a tutti.