Salve, sono quello sfigato di Bottura

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Attenzione: questo pezzetto è largamente oltre lo sticazzi nucleare, ma lo scrivo ugualmente a scopo antropologico, a futura memoria, per una lettura della povertà espressiva in cui si dibattono i comunicatori politici nostrani, immagino tra l’altro non gratis.

Allora: eravamo rimasti alla Bestiolina renziana complimentata pubblicamente dalla Bestia salviniana per l’accerchiamento ai danni del sottoscritto.

Ne avevo scritto qui, incassando la solidarietà di Beppe Giulietti e della Fnsi, e di qualche sparuto collega. Non tanti. Ma capisco che il tema, finché non ci tocca da vicino, possa risultare perdente e personalistico. Inoltre sto sui bagigi a molti altri giornalisti: non pensavo certo a plebisciti.

Ringrazio Beppe, il sindacato e Articolo 21 perché il loro schierarsi ha portato a risultati immediati: la Bestiolina è sostanzialmente scomparsa di Twitter, dove era attivissima attraverso account facilissimi da individuare (com’è profondo il mare) e si è trasferita in parte su Facebook, dove arrivano a ondate troll renziani che commentano, tutti insieme, in ritardo, qualunque virgola sul loro idolo.

Parentesi: venire sulla mia bacheca Facebook personale è come aspettarmi sotto casa. Perché è vero, è pubblica. Ma usarla per insultarmi è come orecchiare una conversazione perché la porta è socchiusa e entrarmi in tinello a darmi del coglione. Costringermi a blindarne i commenti, come farò, rappresenta pur sempre una limitazione piccina delle libertà personale. Certo, non sono Anna Politkovskaja o Kashoggi. Non mi spara nessuno. E al massimo mi fanno a pezzi i maroni, non tutto intero.

Ma (fine della parentesi) c’è una novità. La nuova narrazione prevede che io non sia

più uno stronzo, un sx/sx, un grillino sotto mentite spoglie, ma un perdente. Uno sfigato. Uno che cacciano dai giornali. Uno che invidia Renzi e che va compatito. Che deve farsi una vita, eccetera. Al massimo uno che delude (“Ti seguo da tempo, ma con questa ossessione…”).

All’inizio pensavo che fossero solo ultimi giapponesi rimasti in azione nonostante la denuncia su Articolo 21 . Invece è semplicemente cambiato il messaggio da far passare, il modo di polverizzarmi la uallera, di punire il diverso parere. Non il meccanismo: scrivo una cosa, ad esempio sul “questo lo dite voi”, e dopo qualche ora, attenzionati da account singoli o da piccole pagine che rimestano nel torbido, arrivano.

Tra l’altro, se è concesso l’uso di categorie novecentesche, attaccarmi sulla professione è di destra. Anche Nicola Porro, per lungo tempo, apriva le dirette sostenendo che mi avessero cacciato dai programmi tv che ho sempre continuato a fare. Per culo, e perché alla fine sono bravino. Ora, il troll renziano medio dice che mi hanno mandato via da Repubblica. Dalla quale però sono venuto via io, spintaneamente. O almeno credevo. Che sappia cose a me ignote?

E mentre qualche antico bestiolino ancora vaga per Twitter a punire i reprobi (il tweet qui a fianco è dedicato a me e al mio amico Alberto Infelise, che prima di diventare puntaspilli dei renziners conoscevo appena) la domanda delle domande è un’altra: ma con tutto quello che succede, col partito praticamente scomparso, coi sondaggi a zero, con le visite all’estero mentre qui manco passiamo il confine provinciale, col casinone sul principe Salman che sarà pure un amico, ma secondo la Cia faceva a pezzi i giornalisti, davvero avete tempo da perdere dietro a uno che un giornale manco ce l’ha più?

Perché Matteo, si fidi, lei ha fatto anche cose buone. Ma il primo che le seppellisce di sostanze organiche non sono io, non siamo noi, è lei. Anzi: sono i suoi.

Ah, le rinnovo per quando vuole un invito a discutere pubblicamente dell’odio in rete. Magari impariamo qualcosa entrambi.

Ciaone.

Scissione e liberazione: perché il Pd e Italia Viva dovrebbero separarsi per davvero

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Tra Renzi e Zingaretti | Il Foglio

(ANSA – KODAK THEATRE) Zingaretti e Renzi quando vinsero l’Oscar per il miglior sorriso fasullo

Me lo chiedeva l’altro giorno Michele Serra in radio e non ho saputo dargli una risposta: ma perché nel Pd c’è una corrente renziana? In effetti: avendo Renzi un partito, come mai ci sono persone a lui afferibili in un altro? Michele, che ne sa molto più di me, ha escluso ciò che a me parrebbe ovvio: per condizionare due forze politiche in un colpo solo, uno delle quali da fuori, quindi con un maggiore peso contrattuale, in attesa di rientrare nel principale con la fanfara. Almeno nei desiderata.

Però, se la cosa sembra curiosa lui, figurarsi a un cacadubbi come il sottoscritto.

Causa recenti evenienze personali, che ho riassunto qui, voglio però evitare qualunque critica anche solo apparentemente distruttiva, anche perché mi pare che sia il Pd, sia Italia Viva, stiano perseguendo l’implosione con una pervicacia che non abbisogna di appoggi esterni. Dunque mi sforzerò di essere propositivo e di pronunciare una parola che nel campo della cosiddetta Sinistra, ove la si consideri tale anche in questa evenienza, ha spesso risuonato con esiti nefasti: scissione.

Perorandola.

Spiego: esiste nel Pd, se ho ben inteso, una cosa che si chiama “Base riformista”. Che non è di base, dacché non risulta sia minimamente popolare tra gli elettori. E non è riformista, ma sostanzialmente turbo-liberista e perfettamente aderente al progetto di Sinistra del Centrodestra che Italia Viva ha da tempo messo in atto. Base riformista è la responsabile principe di quello che potremmo definire l’incommensurabile puttanaio attuale. E questo al netto dei giudizi sulla vicenda di Nicola ZIngaretti, per la segreteria del quale, come credo chiunque, nutro la stessa passione che per un Bologna-Fanfulla 0-0 dell’84.

Il risultato è un partito oltre la crisi di nervi, in cui si gioca con le poltrone, anche accusando altre di puntare alle poltrone che si occupano al momento, e un altro partito che nei sondaggi viaggia costantemente alle temperature di Novosibirsk in dicembre.

La domanda di bassa politologia è appunto questa: davvero il Pd perderebbe qualche voto se quelli di base riformista se ne andassero? E, di contro, Italia Viva guadagnerebbe o no da una momentanea iniezione di deputati e da qualche uomo in più che magari sollevi sul cosiddetto territorio, battendo le fabbriche un ufficio del proprietario via l’altro, qualche consenso in più?

La dico ancora meglio: perché lasciare alla Lega la cosiddetta classe produttiva del Paese? Italia Viva non è concorrenziale con nessun partito di sinistra della galassia. Ma tra i due Mattei, ci sono sicuramente fior di imprenditori che sceglierebbero Renzi. Di più: magari lo farebbero pure votare. Togliendo consenso non già a quei pericolosi comunisti del Pd, ma proprio a Salvini.

Dunque, se ne gioverebbero tutti: il Pd potrebbe leccarsi le ferite, magari aprendo ‘sto cazzo di discussione programmatica davvero a chiunque, rifondarsi, fare un congresso allargato domani perché altrimenti non arriva vivo alle elezioni, e Italia Viva rischierebbe addirittura di non essere azzerata alle prossime elezioni politiche. Che, siccome si faranno con una legge comunque di deriva proporzionale, spingerebbero inevitabilmente alla scelta tra un asse Cinque Stelle Dedibbizzato, il Pd, la cosiddetta sinistra radicale (che non è radicale e forse per quello raccoglie poco) e il gruppo vacanze Visegrad.

A quel punto Renzi potrebbe decidere il miglior offerente, fingersi paciere, lucrare quel ruolo centrale che tanto ama, e quantomeno sostituire Di Maio agli Esteri. O passare definitivamente al lato oscuro della forza, come vorrebbero alcuni suoi consiliori economici che infatti flirtano pubblicamente tra Borghi e Bagnai.

Tra l’altro, dato il congelamento imposto dall’agenda Draghi, il Governo non ne risentirebbe punto.

Morale: Renzi vuole ancora scalare il Pd, ma non lo vogliono né il suo elettorato, né quello del Pd. Potrebbe più facilmente scalare Forza Italia, o la base leghista, invece di camminare a fianco di Salvini. A meno che non sia proprio quello il progetto in atto, e che il prossimo #staisereno non sia per l’ennesimo tizio che si sta fidando di lui.

Intanto, ecco, se state insieme ci sarà un perché. Ma è dentro di voi. Ed è sbagliato.

Una cosa lunga e noiosa su cosa mi piacerebbe fosse la Sinistra in questo curioso Paese

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Il Pd sbanda pure all'opposizione, Zingaretti e Renzi pari sono | L'HuffPost

Renzi ha ragione.

La “cabina di regia” contiana è l’idea di chi ha della democrazia un concetto turistico (cit.) ed è abituato a leadership cooptate. Culturalmente, viene dal partito di cui il Presidente del Consiglio è espressione. Lì, al netto del rivendicato egualitarismo, esiste una cerchia di prescelti che, combinata coi “tecnici” di area, ossia quelli che normalmente hanno superato almeno l’esame all’istituto alberghiero, sorvola ed esautora la fanbase – nel nostro caso, il Parlamento – poiché la riconosce inadeguata, incompetente.

Se Berlusconi portava in politica un’idea aziendalista, verticistica, dunque totalmente isolata dai meccanismi democratici (in azienda decide uno, e uno soltanto), quella dei casaleggesi è più vicina al socialismo reale. La dittatura del popolo. Una democrazia diretta in cui un satrapo, solo, cala le decisioni. Una fattoria degli animali. Anzi, più letteralmente, una factory.

Naturalmente Conte non ha ambizioni dittatoriali. Si è trovato a gestire questo considerevole troiaio (come credo dicesse Churchill) e fa quel che può e sa. Cioè poco. Uno che ha Casalino come spin doctor è conscio, nel profondo, di poggiarsi su fondamenta di argilla. La torsione autoritaria non è tale principalmente perché non alberga nelle intenzioni di chi dovrebbe operarla. Ma è del tutto evidente che un commissariamento del Governo sarebbe pericoloso.

Perché?

Perché viene dopo lo svuotamento di legittimità del Parlamento. Operato da chi, negli anni, ha governato con le regole del maggioritario estremo senza mai (mai) averne la legittimazione popolare. So bene che siamo una Repubblica Parlamentare. E che quindi il mantra grillino del “non eletto da nessuno” è vuota propaganda. Resta che, da Monti in poi, da quando cioè una situazione straordinaria portò al commissariamento di Lega, Forza Italia e Alleanza Nazionale, da quando cioè Giorgio Napolitano regalò a Berlusconi il tempo di rialzarsi e a Grillo quello di organizzarsi, il migliaio tra deputati e senatori è definitivamente diventato un timbrificio gestito da nominati.

Ma se questo è accaduto si deve principalmente alla responsabilità degli esecutivi successivi. Dei governi che hanno stravolto la dialettica parlamentare a colpi di Fiducie. Di chi ha blindato il palazzo dopo averne espettorato gli anticorpi del dialogo. Di chi ha consolidato una prassi per cui l’Aula è sostanzialmente una passerella per i collegamenti tv del question time.

Conte 1, cioè. Ossia Salvini e Di Maio. E Matteo Renzi.

Che l’ex Presidente del Consiglio sia diventato, oggi, alfiere del parlamentarismo, risulta anacronistico come un Briatore che inviti a versare l’Irpef. Ma questo è normale. Renzi ha molti pregi “politici”, quasi quanti i suoi sponsor pesanti, nascosti dall’enorme ego in cui risiede. La spregiudicatezza è certamente il principale. Gli manca una strategia, come hanno dimostrato i rovesci ripetuti degli ultimi anni. Ma è maestro di tattica. Per riacquisire centralità sarebbe capace di dire o fare cose di Sinistra. Anzi: l’ha già fatto. In passato.

Meno scontato è che il Pd ne sia ritornato completamente succube. Che lo usi come testa di ponte per manovre anche legittime che però, una volta di più, rimuovono un dato non trascurabile: il consenso. Il quale pare sia necessario per raggiungere un obiettivo che le forze progressiste non conseguono dai tempi di Romano Prodi: vincere le elezioni.

In questa traversata nel deserto che la Sinistra riformista compie con un agio imprevisto (governa) manca totalmente la percezione dello scoramento attivo che pervade il proprio popolo residuo. Le uniche tornate elettorali vincenti del recente passato derivano dalla paura di finire nelle mani di una qualche scappata di casa telecomandata da Salvini. Ma sono stati sempre e comunque voti difensivi.

Vederli agire, ora, con logiche da Prima Repubblica, leggerne le convulsioni alla ricerca del riequilibrio, del rimpasto, del predellino da cui disarcionare compagni di strada certamente modestissimi, vederli perseguire logiche che neanche Forlani ai bei tempi, e tutto mentre il loro popolo si rintana ogni giorno di più, risulta oggettivamente frustrante. E irrispettoso del loro capitale umano. Sul quale potrebbero investire, proprio come le aziende che, in tempi di crisi causa Covid, mettono sul piatto le risorse residue per rilanciarsi. O almeno dovrebbero farlo.

Il Partito Democratico, invece che baloccarsi con questioni di leadership, dovrebbe sfruttare i due anni che mancano al voto – Francia o Spagna, una maggioranza si troverà – per lavorare sulla propria identità. Dovrebbe prendere dal machiavellismo renziano il solo dato che gli manca: stare al Governo agendo come se ci fossero altri, quasi manifestando il disprezzo per la sbobba che si è costretti a ingoiare, e puntare (al contempo) a blindare la propria identità. Partendo dal dato che c’è uno zero di differenza. Cioè che la macchina del consenso vivaista, vincente ed efficace in ambiti apparentemente opposti come i social e gli uffici che contano (quelli degli Ad, o le redazioni dei giornali) ha il 2 per cento dei consensi reali. Zingaretti, che ci creda o no, il 20. È quello, il predelino, cristallizzato, su cui innestare quattro idee di buon senso, anche apparentemente impopolari, che trasformino gli elettori asintomatici in veicolo di contagio.

Prima però vanno ascoltati. Cercati, e poi ascoltati. Coinvolti in uno stato generale permanente, scovati nelle loro comode case, strappati alle loro librerie ben fornite. Rigenerati.

Anche se l’alternativa c’è: cedere alla scalata ostile di Italia Viva, stringersi alla coorte di un centro reazionario che inglobi anche i “responsabili” di Forza Italia, gettare benzina sull’inevitabile incendio populista che scaturirà, in assenza di un colpo d’ala, dalle urne, e condannare un italiano su cinque a perdere definitivamente rappresentanza.

Dall’opposizione. E senza aver mai governato per davvero.

Fate il vostro gioco. Ma presto.

 

 

 

 

Chi ha il panel non ha i denti: come il Pd lavora concretamente per estinguersi

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D’Alema in cardigan, Renzi con polo e fetta biscottata. La sinistra in streaming si piace ma non si pigliaL’intervista doppia di Renzi su Repubblica (pagina 3, come il suo consenso elettorale) e di Di Maio (pagina 7, come il voto che in vita sua non ha mai preso neanche per sbaglio) ci dice molte cose sul futuro del Governo. Alcune le sapevamo già, e attengono sia al trecartismo del leader di Italia Viva, sia all’insipienza pericolosa di un Ministro degli Esteri che non sa di esserlo e non fa nulla per nasconderlo. Altre risultano meno evidenti, ma portano tutte in un’unica direzione: il Pd non esiste e si sta facendo invischiare in una lotta muscolare per cui non possiede i muscoli.

Spiego: le ultime elezioni hanno conferito al Partito Democratico post renziano il 18 per cento dei voti. Al ramo politico della Casaleggio Associati, il 33. Sembra incredibile anche a me, ma è andata così. Che fossero ere geologiche fa è rilevante ma non dirimente: in Parlamento, benché stiano esplodendo, i grillini contano ancora una rappresentanza molto più folta dei loro alleati di Governo ed è per questo che hanno espresso il presidente del Consiglio. Figura di rara modestia ma legittimata a stare lì, tra l’altro in opposizione al richiamo della giungla che Tarzan Di Battista sta lanciando all’ala (se possibile) più sgangherata del MoVimento.

Conte è una figura piuttosto casuale di cui la nostra Storia abbonda. Un trasformista che si definiva populista e firmava senza batter ciglio le peggiori salvinate, un facente funzioni che, da questa parte del mondo, ha un solo merito: due anni fa l’allora Ministro dell’Interno lanciava manifestazioni di piazza contro i migranti. Affollatissime. Oggi no. E se anche lo facesse, sarebbero di opposizione. Con un impatto di torsione democratica infinitamente inferiore.

La parte migliore del presidente del consiglio (non premier: non siamo a Downing Street) è ciò che gli sta alle spalle. Ossia la moral suasion, molto moral, che il presidente Mattarella esercita con provvida determinazione. Nessuno ha mai definito quello attuale un Governo del presidente, anche perché sarebbe offensivo per il Colle. Ma certamente non sono mancati i consigli.

Conte lo sa, di essere Ranocchia al cospetto di Zico. Quindi ascolta.

Quel che sostengo, dunque, è questo: il Partito Democratico ha ottime ragioni per considerarsi insoddisfatto di un Governo nel quale la viceministra dell’Economia è una che non aveva passato l’esame da commercialista. Però, come diceva Schopenhauer, tra il dire e il fare c’è di mezzo “e il”. E tra il Pd e una sorte magnifica e progressiva ci sono i voti che non ha e verosimilmente non avrà, costituendo al momento nient’altro che un bene rifugio, senz’altro indispensabile ma poco appetibile per chi si tura il naso dal 2007 a oggi.

Nel frattempo, non c’è traccia alcuna della rivoluzione culturale che, sola, potrebbe portare la sinistra riformista a vincere. Non c’è traccia di un’analisi a specchio coi propri sostenitori residui,  non c’è traccia di una progettualità che vada oltre giochetti di Palazzo il cui joystick, insieme a molti deputati e capigruppo, e in mani esterne al partito.

Pensare di cambiare un Paese seduto, e una base elettorale prostrata, giocando al gioco dei 9 su Zoom con D’Alema è limitato, subalterno, scoraggiante per chi ha visto quell’area politica occupata, sventrata, abbandonata. E perdente. Perché se il Pd continua a delegare battaglie poltronistiche ad altri, finirà con lo scordarsi per cosa combatteva e per cosa dovrebbe combattere.

Per citare un “rieccolo”: un Paese normale. In cui i riformisti non vadano a rimorchio di un centro che non esiste e di un movimento populista su cui bisognerebbe innestare un patrimonio culturale, anziché contendergli poltrone da intestare a qualche caporione esterno.

Oppure: date ‘sta Farnesina a Renzi, così prendiamo due piccioni con una fava e ricominciamo a parlare di politica.

Grazie.

Perché l’addio alla politica di Renzi ha cambiato questo Paese

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Renzi, tour nel Mezzogiorno. Il film della giornata - Campania - ANSA.itDice: epperò hai l’ossessione di Renzi.

Non verissimo. Ne scrivo, ne parlo, lo cito al bar – quando è aperto – molto raramente. Però è vero: se gli attribuissi il peso che ha nelle urne dovrei evocarne le gesta molto più di rado. La Svp viaggia più o meno allo stesso livello di consenso e mica faccio battute sugli Schützen. Anche se… Sapete come fanno quattro Schützen a entrare in una Cinquecento? Non ci entrano: hanno un’Audi.

Dunque mi sono chiesto: perché periodicamente mi sovviene? Lascia stare gli hater che appena lo sfiori si attivano come richiamati da un misterioso (mica tanto) ordine di scuderia. Spesso faccio incazzare la gente ma non ho ansia da prestazione. Non scrivo per cercare insulti. Sarò strano: mi piace di più quando qualcuno è d’accordo con me.

Sarà mica, come dicono loro, che è antipatico? No. Tra l’altro sono antipatico pure io, dovrebbe piacermi. Le peripezie giudiziarie? Garantismo a parte, gliele rinfacciano solo La Verità e Travaglio. Dimmi con chi vai, eccetera.

Il punto allora potrebbe essere è che riciccia ovunque, e che col 2 per cento manovra mezzo Pd, il Governo, mo’ tresca pure con D’Alema, e, insomma, trovo la sua spregiudicatezza così poco familiare. Fuochino.

Credo di aver risolto l’arcano oggi, quando ho riciclato la battuta che faccio ogni anno il 4 dicembre: “X anni fa Renzi perdeva il referendum e lasciava la politica. Sarò impopolare ma ammetto che mi manca”. Un usato sicuro, che si basa su un dato incontestabile. Così incontestabile che la Bestiolina è rimasta silente. Un commentatore (vero) l’ha buttata su Bersani che l’aveva boicottato. Certo: infatti i prodromi di LeU e il loro tre per cento spostarono il 60 per cento dei voti. Un altro, invece, mi ha aperto gli occhi: “Meno male che non se n’è andato. Così si è schiantato subito”.

Ecco, credo nella debacle del renzismo il dato più faticoso sia la schedina vincente (la seconda) gettata nelle acque reflue. La dabbenaggine insistita. Lo scorpione che, attraversando il guado, punge sé stesso.

L’uomo trovò nelle urne il proprio Papeete elettorale. Come diceva Bauman, fece il passo più lungo della gamba. Capita. La politica è maratona. Ebbe l’intuzione giusta: mollare palazzo Chigi Poteva (doveva) rifugiarsi sul Monte Atos il tempo di essere dimenticato, e sarebbe stato richiamato a gran voce. Sotto lo Stellone, bisognerebbe scriverci “Aridatece il puzzone”. Voglio dire: abbiamo riabilitato Berlusconi che stava per mandarci in bancarotta…

Invece no. Invece volle andare al voto da leader, invece ci fece vivere il momento magico e terribile in cui Gentiloni al confronto sembrava un incrocio tra Obama, John Kennedy e Brad Pitt. Invece prese le “cose buone” e le ammantò di superbia, mentre tutti – tranne quelli che poi hanno fatto carriera nei due partiti che comanda – gli dicevano che no, che il passo indietro serviva a prendere la rincorsa, eccetera.

Oggi potrebbe sfidare Conte senza averne fatto nascere il Governo e alle prossime elezioni, invece che Salvini e la Meloni, probabilmente vincerebbe il centro-centro-centro-sinistra. Ma non andrà così. E anche questa sconfitta avrà il marchio della cupidigia dell’uomo che volle farsi imperatore quando era re.

Ecco perché, ogni tanto, ne tratto.

Perché poteva mancare. Invece è mancato.