Dialogo tra un poveretto e un direttore: alcune pacate considerazioni su Marco Travaglio e sul sottoscritto. Viste dalla parte del sottoscritto.

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Un titolo random del Gdg

Premessa: scrivo ‘sta cosa sul mio blog, e non sul giornale con cui collaboro, perché se c’è una cosa che mi infastidisce sono le diatribe personali tra giornalisti. Quelle sulla qualità dei giornali e sul dibattito per renderli migliori invece mi appassiona. Così a volte ne parlo In satira e non. E qualcuno s’incazza moltissimo.

 

Sabato ero a recuperare mia figlia dal campo solare, in un posto dimenticato da dio, tra le Marche e l’Umbria. Intorno, un panorama bucolico. Anche il vociare dei bambini, che di solito accolgo con l’allegria di Erode, mi sembrava un contrappunto gentile a quel posto magnifico.

A un certo punto, Marco Travaglio mi manda un sms per darmi del poveretto.

Non è la prima volta che gli parte l’embolo.

Tempo fa, per rispondere a un mio pezzo su questo blog (sì: su questo blog, cristosanto) intese significarmi, col medesimo tramite, che scrivevo certe cose per conservare il posto al Corriere. Che non avevo. E sul quale, all’epoca, gestivo una rubrichetta nelle pagine sportive. Al lunedì. A pagina 48.

Allora se l’era presa perché avevo osato sindacare il concetto di “massacro” mediatico ai danni di Virginia Raggi.

Stavolta ha gradito pochissimo la mia rubrica su Repubblica che giustapponeva la marea di mentecatti social (quelli secondo cui per ridare la scorta a Ingroia andava tolta a Saviano) al fatto che il Giornale dei Giusti avesse aperto la prima con l’ex leader di Società Civile consegnando l’autore di Gomorra a un pezzo secondo me (oddio, sì: secondo me) un filo reticente.

Dicevo, anche, che ognuno apre il giornale come gli pare. Specie se si ha un’esclusiva. Tutto legittimissimo. Ma forse pure noi giornalisti potremmo evitare di contrapporre, anche incidentalmente, gente per cui dovremmo fare tutti il tifo. Quelli minacciati dalla mafia. Sollecitavo una riflessione.

All’insulto, ho reagito con una certa qual sportività. Perché in fondo sono un ragazzo educato. Ho detto che il mio pezzo parlava principalmente d’altro: una cernita tra persone perbene, cose così. Volendo sintetizzarla: ma perché cazzo ci facciamo la guerra “tra di noi?”. Perché la gente usa Ingroia contro Saviano? Cosa cazzo è successo?

Mi ha risposto che “noi” di Repubblica – su cui scrivo da due mesi – avevamo protetto Rondolino (che ho criticato a sangue) quando insultò Saviano. Ha detto che sempre “noi” siamo – testuale – il giornaletto del Pd. Eccetera.

Ha anche aggiunto che su Saviano aveva pure fatto un editoriale. Un editoriale che iniziava con la frase “Mentre il premier Conte ottiene il primo successo internazionale…”, proseguiva invitando a riconoscere i successi di questo governo, a ignorare le provocazioni di Salvini, diceva che “Saviano non è l’oracolo di Delfi e si può tranquillamente dissentire da lui” e solo dopo aver rassicurato i suoi lettori che lui mica è savianista gli esprimeva la dovuta solidarietà, non senza aver scritto che comunque il Pd lo trattava peggio.

Un editoriale posto nella stessa parte del giornale in cui, come mi aveva spiegato giorni prima, sempre in privato, e sempre per contestare un altro mio pezzo, di solito fa satira. E nel quale, ieri, mi ha additato per circa 70 righe definendomi “gentucola”, con l’usuale tecnica di tagliuzzare i pezzi altrui e trasformarli in requisitoria “oggettiva” a beneficio del Verbo.

Come io ho appena fatto col suo. Visto com’è facile?

Probabilmente gli sms erano il privilegio riservato (fino a ieri) a chi ha compiuto una parte di strada insieme, ai tempi del Governo Mediaset. Mentre qualche differenza c’è sempre stata. Io, per esempio, sono di sinistra.

In radio, ricordo, molti grilllini passarono dall’amore alla profonda antipatia nei miei confronti dopo qualche battuta sui pentastellati. Polverizzavo il Governo ogni giorno, ma su di loro non si poteva. Loro erano, sono, i buoni.  E via di udito selettivo.

Mea culpa: non ho il culto di alcuna personalità.

Per prima la mia.

Poi Marco, sempre in quella surreale conversazione, mi ha pure dato del paraculo.

E devo dire che su questo aveva abbastanza ragione.

Perché nel pezzo che lo ha tanto affaticato mi ero limitato ad adombrare un’ipotesi della quale sono sostanzialmente certo: quei mentecatti* sono cresciuti nel brodo di coltura complottista secondo cui ogni figura altra da sé è un nemico e che contro quel nemico sia lecita ogni arma. Dialettica e non. In una sorta di stato etico dell’informazione che tutto permette e tutto giustifica.

Del resto, per contrastare la mia ipotesi, Marco ha usato via sms il classico linguaggio da social: insulti diretti, ”voi del pd”, eccetera. Tipico di chi spiega agli altri (tutti gli altri) come stare al mondo, ma non tollera una virgola di dissenso.

Di chi quando picchia fa satira, ma guai se qualcuno si azzarda a toccare lui.

Così gli ho detto che se smettesse di guardarsi allo specchio, capirebbe che il suo giornale, nel quale anche le previsioni del tempo fanno piovere solo nelle aree amministrate dal Partito Democratico, peraltro sempre di meno, ha contribuito a questa guerra civile da operetta.

Gli ho chiesto cosa fosse diventato (lo conosco da vent’anni) e gli ho dato la risposta: uno che mena.

Ho anche aggiunto che sul Pd la penso pure peggio di lui. Che l’ho detto in tutti i luoghi e in tutti i laghi. E forse ne ho anche pagato qualche conseguenza.

Ma l’ho fatto senza giacchette. Perché scrivo o parlo dove me lo permettono, sospinto da un’urgenza di dire come la penso. Esponendomi. E sperando che interessi a qualcuno. Talvolta mi prendono a calci in culo. Talvolta me ne vado io. Ma provo a essere, se non coerente, almeno lineare.

Indipendente.

Di parte, ma la mia. Quindi, spesso, diversa.

Anche se non racconto ai miei lettori di non prendere fondi pubblici che non prende nessuno. Per dire. E se dovessi scrivere un pezzo contro qualcuno, non mi metterei a fare il gioco delle tre carte che ha fatto lui nel suo editoriale (o era satira?”): “L’ho detto in tv”, “c’era sul sito”, “il pezzo c’era, dentro”.

Io ho scritto che l’apertura era Ingroia. Ed era Ingroia. Che il pezzo su Saviano era un piccolo taglio centro. Ed era un piccolo taglio centro. E che il tono del pezzo interno non mi era piaciuto perché mi pareva troppo equidistante. E qui siamo nell’ambito delle mie opinioni. Che rivendico. Anche se non le pubblica il GdG.

Aggiungo, come ho detto a un altro tizio del GdG che mi attaccava su Twitter, che prima di dare del servo a me dovranno aver scritto e detto almeno un centomilionesimo di quel che ho detto e scritto io quando Renzi era il padrone del vapore e purtroppo, di fatto (talvolta lavoro – o forse dovrei dire “lavoravo” – anche per la Rai) uno dei miei editori.

Ecco.

Raccontata così, è sostanzialmente una diatriba minore tra due tizi che giocano a chi ha l’ego più lungo. Uno crede di essere Michele Serra e invece è solo Luca Bottura, l’altro crede di essere Indro Montanelli ed è diventato Vittorio Feltri.

Non credo di poter vincere.

Penso però sia anche paradigmatica del distacco dalla realtà che affligge chi si è autonominato l’unico autorizzato a raccontarcela. Come Berlusconi credeva, alla fine, alle balle che diceva, c’è una parte consistente del nostro giornalismo che a furia di alzare la voce per ottenere l’applauso ha formato una platea di tossici del maiuscoletto.

Che è costretta a inseguire.

In una sorta di circolo vizioso che ha distrutto anche la politica, quello per cui potenti e comunicatori, anziché ricercare un minimo di buonsenso,  cooptano il senso comune. E ne diventano schiavi. Peggiorandolo.

Renzi, Grillo, Salvini, Berlusconi. Populisti in misura e con metodi diversi. Ma ugualmente diseducativi. Che forse dovremmo smascherare, magari con l’onestà intellettuale di graduarne le responsabilità, invece di sceglierci quello che ci piace di più e fargli, di fatto, campagna elettorale.

Anzi: campagna culturale.

Questo avrei scritto, spero con adeguato spirito riflessivo, e senza rancori, perché Travaglio ha fatto anche cose buone (non scherzo) e sono fondamentalmente un tizio, appunto, educato.

Se non fosse che, tra le tante cose, Marco (equivocando le mie buone maniere con la remissività) mi ha salutato, prima di andare a imbracciare la mazza da baseball con cui mi ha rappresentato ai suoi lettori, dicendo che faccio il furbo.  Perché chi lo critica o si permette di fare ironie su di lui non può essere altro che questo: furbo o venduto.

Quindi cercherò di sintetizzare il mio scritto con il nitore che mi è richiesto.

Marco: hai rotto il cazzo.

 

 

*Attenzione: non sto affatto dando dei mentecatti ai lettori del GdG. Che ha un direttore residente su Marte, ma anche ottimi cronisti. E spesso, cercando tra un urlo e l’altro dei titoli, lo leggo con interesse.