Visitate la Tunisia – Visitez la Tunisie – Visit Tunisia – Besuchen Sie Tunesien

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bambina-tunisinaNon sono mai stato in Tunisia.

Mi piacerebbe andarci ora.

Avere il piccolo coraggio necessario.

Mi piacerebbe – di più – che una campagna d’opinione internazionale riempisse la Tunisia di turisti.

Mi piacerebbe che insieme, con un gesto concreto, rispedissimo al mittente la strategia rozza ma chiarissima dell’Is: uccidiamo la normalità per imporre la dittatura fondamentalista.

Al momento, è molto probabile che ci riescano.

L’ovvia reazione delle ambasciate, dei Ministeri dell’Interno, dei tour operator, è stata quella di avvisarci (ora: bravi) che quel luogo del mondo è pericoloso. Dunque è giusto stare a casa.

Ma così facendo abbandoneremo il bambino che barcolla sulla via della democrazia compiuta. E lo lasceremo in balia di chi i bambini li fa esplodere, li disprezza, come le donne, cui nega l’identità, come gli uomini di buona volontà, di tolleranza, chiunque preferisca la luce dell’imprevisto alle tenebre della certezza teocratica.

Andiamo in vacanza in Tunisia.

Andiamoci adesso. Compiamo un gesto non violento eppure fortissimo per contrastare chi spara agli indifesi.

Andiamo in Tunisia.

Cerchiamo le tracce dei berberi, dei romani, degli arabi, dei fenici, prima che qualcuno arrivi a ripulirle. Andiamo a inseguirle su una spiaggia, nel parco nazionale di Ickeul, tra le rovine di Cartagine, dentro un piatto che somiglia ai nostri e neppure siamo perché.

Andiamo in Tunisia. Magari da non soli. Magari in modo visibile, in tanti.

Visitiamola.

Prima che la Tunisia sia costretta a fuggire di casa.

E visiti noi.

Matteo Renzi e i migranti: un discorso coraggioso

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Dallo spin doctor di Matteo Renzi riceviamo e volentieri pubblichiamo il discorso che pare voglia tenere di qui a poco al parlamento europeo. Sembra roba un filo velleitaria, ma interessante.

di Matteo Renzi

Buongiorno a tutti.

Prendendo la parola in questo consesso europeo sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me. Ma spero che questo mio breve intervento, forse tardivo, renda giustizia alla grandezza del Paese che rappresento e all’intelligenza di chi mi ascolta.

Durante il Semestre Italiano di presidenza europea abbiamo sottovalutato il problema dei migranti. Noi per primi. Non abbiamo cercato una soluzione condivisa per motivi che ritenevamo strategici, e invece erano puramente tattici. Speravamo di ricondurre il problema ad accordi negoziali tra le nazioni dell’Unione, o alla revisione di quelli esistenti.

Gli sbarchi quotidiani sulle coste italiane, i cammini delle speranza di chi parte dall’Africa subsahariana e tenta di passare per l’Ungheria, i tentativi di passaggio dal Marocco alla Spagna, e dalla Francia al Regno Unito, richiedono una risposta immediata, ampia e, userò un aggettivo che in parte spaventa anche me, generosa.

Nel mio Paese, e da quel che leggo anche nei vostri, coloro che si oppongono alla tensione razzista, e a chi si ne fa scudo per lucrare consensi, si sentono rispondere con scherno: “E allora accogliamoli tutti”.

Allora, oggi, questo sento il dovere di comunicare agli illustri colleghi del parlamento europeo: noi faremo proprio così. Li accoglieremo tutti.

Li accoglieremo e forniremo loro un permesso di soggiorno temporaneo che li regolarizzerà su tutto il territorio europeo.

Ciò risponde a un’esigenza tattica, ma anche strategica.

Tatticamente, diciamo con forza all’Europa che le nostre frontiere sono le vostre frontiere. Condividiamo ciò che adesso è un problema, e non possiamo che risolverlo insieme: ne va dell’Unione.

Strategicamente, ci diciamo tutti insieme che la rivoluzione da compiere è molto più profonda, che i nostri strumenti sull’asilo politico sono inadeguati al presente, che bisogna prendere atto di come sia impossibile separare chi fugge dalla miseria da quelli che scappano anche dal terrore e dalle persecuzione perché le tre condizioni – miseria, terrore, persecuzione – sono frutto delle politiche che anche noi, Europa, abbiamo applicato negli ultimi duecento anni.

La consapevolezza montante delle nostre responsabilità è inoltre benzina per gli estremismi tutti, copertura ideologica per gli Stati Islamici più o meno autoproclamati e, dunque, un pericolo molto più reale che la gestione collettiva e consapevole di un flusso migratorio che nasce da evidenti esigenze di sopravvivenza.

E’ una posizione complessa, per molti versi impopolare, che certamente comporterà prezzi da pagare. Al mio governo, in termini di voti. Al mio Paese, in termini di rapporti bilaterali con Paesi amici, gli stessi Paesi che hanno già abolito Schengen senza dircelo e considerano l’Italia niente di più che una battigia lanciata in mezzo al Mediterraneo. Anche la Gran Bretagna, che ha come capitale la città più multiculturale del Mondo.

Ma appunto non è più il momento di tattiche. Un grande italiano, Alcide De Gasperi, citando un teologo americano, diceva che i politici guardano alle prossime elezioni, gli statisti alle prossime generazioni. Noi abbiamo meno tempo. Quando tornerà a farsi sentire l’odore disgustoso dell’esplosivo, nelle nostre strade pulite, laddove crediamo scioccamente di essere al sicuro, dovremo aver quantomeno avviato un percorso culturale che costruisca una nuova e duratura stagione di pace. Dovremo opporre la ragione all’isteria. La coscienza alle viscere.

Dovremmo vincere, senza combatterla, la Terza Guerra Mondiale.

Per questo chiedo, oggi, un rivolgimento epocale delle politiche europee sull’immigrazione. Chiedo di non anteporre gli interessi commerciali alla dignità delle vite umane. Di rivedere la politica economica verso l’Africa con una rivoluzione di sistema che rimuova lo sfruttamento e crei, al contempo, nuove opportunità di guadagno, reciprocamente sostenibili. Richiamo l’Europa a quei valori cristiani che avremmo voluto inserire tra le radici della nostra Costituzione. Valori che contemplano la solidarietà al primo posto. Il bene che chiama il bene. Che tenta di convertire un guaio in una risorsa.

Adesso.

Chiedo di compiere, qui e ora, un atto di coraggio collettivo per il quale i nostri figli ci ringrazieranno.

Accogliamoli tutti.

Grazie per avermi ascoltato.

English version on Quartz

Di anni di piombo che non finiscono mai, trasmissioni tv e altre vicende piuttosto pesanti

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Anni fa mi capitò di lavorare ai prodromi di un programma che poi non feci: Hotel Patria, condotto da Mario Calabresi.

Partecipai non ricordo se a una o due riunioni preliminari, poi fui risucchiato da altre produzioni e ne rimasi fuori. Con dispiacere. Ne nacque una trasmissione aggraziata, di quelle che una volta si definivano di “servizio pubblico”. Forse perché non c’ero io.

In quelle due riunioni, Calabresi mi parve un raccontatore formidabile. L’entusiasmo con cui parlava delle sue scuole elementari, a Milano, e di come quei banchi fossero oggi occupati da giovani italiani provenienti dal tutto il mondo, e la volontà di spiegare in tv la normalità dell’immigrazione, la sua ineluttabilità, la sovrapponibilità con gli esodi dal sud Italia degli anni ’60, mi colpirono molto. Idem per la passione che mise descrivendo di un suo blitz alla Ferrero, ai primordi della professione, quando l’ormai defunto capostipite gli aveva disvelato storie inedite di ovetti e Nutella, a patto che non ne facesse parola all’esterno. Appena finito il giro – spiegava – corse fuori e scrisse tutto sul taccuino, ripromettendosi di usare il materiale solo a intervistato defunto. Per non tradire il patto. Per raccontarne la grandezza. Non l’ha poi fatto: forse il patto gli sembra ancora valido.

Non lavorai a quel programma, e mi dispiacque, perché avevo un’idea che mi è tornata in mente oggi, dopo la polemica sulla nomina (subito rientrata) di Adriano Sofri a consulente per la riforma carceraria. L’idea era quella di un atto simbolico tra persone intelligenti. Era un’idea naïf, apparentemente paracula, ma non era stata pensata per esserlo. Io avrei voluto che Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi, incontrasse davanti alle telecamere Luca Sofri, figlio di Adriano. Avrei voluto, gliel’avrei proposto, non feci in tempo, che due menti laiche e generose, unite loro malgrado da quella cappa insopportabile che ancora innerva la parodia della politica di questo Paese, si raccontassero a vicenda quel che era stato. Avrei voluto una cerimonia. Non so se conclusiva. Certamente, nelle intenzioni, catartica. Un rito di laicità.

Quei due cognomi, quelle due persone, erano gli unici titolati ad affrontare l’argomento. Così come oggi sono stati legittimi, quasi dovuti, il tweet del direttore de La Stampa contro la nomina di Adriano Sofri e il passo indietro che questi ha subito compiuto. Però, ecco, anche se quel programma non si farà più e nel frattempo io mi occuperò forse più utilmente di facezie mattutine, continuo a pensare che sarebbe bello e quasi necessario un passo avanti. Per lasciare sullo sfondo i vari sindacati di polizia fascistoidi e i nostalgici (e gli eredi) della violenza politica, che oggi ci hanno intasato le timeline.

E’ molto possibile che sia tutto ancora troppo fresco perché il mio desiderio abbia un senso, ed è praticamente certo che io non abbia alcun titolo per renderlo pubblico. Però ormai l’ho fatto. Qui siamo. Ma a volte, non so voi, io sento un importante bisogno di altrove.

 

Un pezzo schifosamente retorico sul ritorno in serie A della Fortitudo

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La chiamarono V rosa.

Era un derby di forse vent’anni fa. La Fossa dei Leoni acquistò un congruo numero di boxer, li colorò della suddetta tonalità affinché simulassero l’incarnato posteriore, e compose una coreografia grande come la curva dando le spalle alle squadre.

Fuor di metafora: mostrarono il culo, in duemila. Alcuni per davvero. Con tanto di stella al centro per impreziosire l’opera.

Sotto, i giocatori della Virtus facevano la ruota. Si scaldavano. E ridevano. E io con loro. Perché quel piccolo capolavoro di grevità, in fondo, omaggiava i perculati. E scolpiva a suon di chiappe la grandezza di basket city. Quando eravamo re. E l’ironia, ma mica sempre, ci rendeva grandi e migliori. Tutti.

Ho sempre amato la Virtus. Per me il basket cominciò con un piccolo telo bianco che portavo al Madison, a nove anni, sul quale mia zia Anna aveva cucito con due lacci di scarpe una specie di V. C’era Tom McMillen, in campo. C’era Peterson in panca con le basette paraboliche e i pantaloni a campana da monaco tibetano. C’erano Villalta, Bonamico, Bertolotti che tirava da tre quando il tiro da tre manco c’era. C’era Charlie Caglieris che ruotava il pugno.

Ricordo perfettamente la prima radiocronaca, secoli dopo, al parco Ruffini di Torino, anno ’89. Il muro era ancora su. E anche Richardson era molto su. E ricordo quando il mio capo a l’Unità, Franco Vannini, mi annunciò che sarei andato in Belgio per la prima trasferta europea della mia carriera: Sunair Ostenda-Knorr. Gli dissi che per festeggiare avrei acceso un cero alla Madonna di San Luca. Mi rispose che eravamo comunisti: bastava che non perdessi l’aereo.

Per anni ho scritto di basket e per anni sono stato in mezzo, anche se in un giornale piccolo, alle diatribe tra le due parrocchie. La Virtus chiamava per lamentare l’occhio di riguardo per la Fortitudo. E viceversa. Tutti i santi giorni.

Quando Giorgio Seragnoli s’improvvisò Saputo abbronzato, presi a seguire in giro per il mondo anche l’Aquila. Una volta ci fecero salire su un Antonov bulgaro per Berlino, due giorni dopo che era precipitato un Antonov romeno a Verona. Tutta la comitiva stazionava ai piedi del velivolo, terrorizzata. L’equipaggio implorava di salire. Poi, in ritardo, arrivò Carlton Myers con le cuffie a palla e si lanciò sulla scaletta. Il bello di non leggere i giornali.

Il “tiro da 4” di Danilovic lo vidi che ero già in sala stampa: non volevo bagnare il computer col primo champagne dell’Aquila, ero scappato prima. Coniglio. Ma Dominique Wilkins aveva in mente un’altra storia.

A quelle diatribe lego la mia giovinezza, ma non è questo il solo motivo per cui sono contento che la Fortitudo sia tornata in A. In fondo poco m’importa di questi anni faticosi, di case madri, parchi delle stelle, matricole vecchie e nuove. Poco m’importa e in fondo poco so, perché ormai il basket mi è quasi irricevibile, visto che non fa nulla per farsi capire e amare.

Ma sono felice per la vecchia e cara Effe, che smarrii per strada quando cominciò a stravincere, perché mi restituisce una parte di me. Perché quando ritmavano “non abbiamo mai vinto un cazzo” erano una meraviglia vera. Perché gli spigoli della memoria col tempo diventano curve, come diceva De Gregori. E senza la Fortitudo, senza le palette di Santi Puglisi, senza lo stile di Dan Gay, senza l’orgoglio di Stefano Pillastrini, senza Black Nino Pellacani e le sue magliette, senza belle penne come Lorenzo Sani ed Emilio Marrese, senza gli insulti di Alberto Vecchi quando faceva il capoultrà, avrei trascorso anni molto meno divertenti e appaganti.

E Bologna con me.

Così, l’altra sera, a vederli sciamare sul parquet di Forlì, ho fatto festa pure io. E ho pensato che quella scena sarebbe piaciuta molto anche a Paolino Castelli dell’Ansa. Un altro che come me barcollava tra le due sponde di basket city col sorriso sulle labbra. Uno che m’insegnò come si stava al mondo, quello strano mondo di giganti.

L’avrebbe raccontata benissimo, Paolo. Ci avrebbe raccontato cosa siamo stati. E cosa, chissà, un giorno torneremo a essere. Poi avrebbe riso forte e si sarebbe acceso un’altra sigaretta.

Anche per lui: bentornata, Fortitudo.

Uscito sul Corriere di Bologna

Renzi, Grillo, Casson e un partito che festeggia le sconfitte: un’inutile riflessione

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(ANSA – BRUGNARO) Renzi indica a Casson un comunista in sala, anziché la security faccia il proprio dovere

In Liguria i civatiani non hanno votato la Paita. E il Pd ha perso.

A Venezia i renziani non hanno votato Casson. O sono rimasti a casa. E il Pd ha perso.

La costante: il Pd ha perso.

E Renzi risponde che invece no, ha perso la sinistra.

I renziani aggiungono che è anche colpa dei Cinque Stelle, che in Laguna non hanno nemmeno saputo votare un personaggio a loro affine (o, meglio: affine a ciò che dicono di voler essere e che Grillo mai sarà) come Casson.

Io non capisco niente, né di politica né di altro, ma a Renzi e ai suoi mi permetto di dare un piccolo suggerimento: occhio a crogiolarsi con l’isolamento grillino.

Oggi, con l’Italicum, il Movimento Cinque Stelle andrebbe al ballottaggio col Pd. E siccome la destra si ricompatta contro i candidati “comunisti” (Venezia, appunto, docet) potrebbe persino vincere.

Questo potrebbe lasciarsi Renzi: un Governo Dibba. Con Salvini all’opposizione (o magari in coalizione: sui migranti hanno le stesse idee).

E, anche, un partito che festeggia le sconfitte.

E’ il combinato disposto di un leaderismo estremo che fabbrica nemici diversi ogni giorno: sindacati, giornalisti, belle anime della sinistra, opposizione interna, tutti trattati come fastidiosi e superabilissimi impacci sulla via delle decisioni ineluttabili.

Non è una domanda di scuola: visto che i tuoi storici avversari, appena possono, si rimettono a sostenere chi hanno sempre votato, fossero anche cadaveri politici come Berlusconi, e di fronte alla marea importante di ruspe e vaffanculo, dove può arrivare uno che si è scelto per nemici parte di quelli che ancora lo votano?

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