Tua Suora

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https://www.youtube.com/watch?v=TpaQYSd75Ak

Fino alla sua apparizione (occhio, il termine non è casuale) i riflettori di The Voice illuminavano un unico tema: come si colora i capelli Piero Pelù? E’ vero che usa petrolio? E se sì, è vero che a ogni puntata del talent di Raidue il prezzo del greggio sale di 8 dollari al barile?

Poi è apparsa lei, suor Cristina. La religiosa gospel. E il velo, invece di squarciarsi, s’è infittito. Collocandosi idealmente sul capo di un pubblico che l’ha adottata, se n’è innamorato, è cascato mani e piedi in questa sorta di Sister Act alla pummarola. Anzi: visto che c’è di mezzo la Carrà, allo squacquerone.

In tv la fantasia è come un buon difensore nella retroguardia del Milan: latita. Ed è così che fior fior di autori* sono al lavoro per cavalcare l’onda, mutuare la genuflessione, cooptare la linea narrativa religiosa di The Voice. Del resto un Paese in cui la rivista “Il mio Papa” vende centinaia di migliaia di copie, Papa Francesco è trendtopic su Twitter e Matteo Renzi fa il premier non può, neanche volendo, non dirsi confessionale.

Quali i prossimi passi? Eccone alcuni, in anteprima.

Fra’ Stornato Verso la settima puntata di The Voice, J-Ax introdurrà un suo vecchio amico, caduto nella ganja da piccolo e poi uscitone dopo aver visto la luce. Anche senza erba. Fra’ Stornato propone un repertorio di reggae cattolico che coniuga i classici di Bob Marley in chiave caraibica e i classici di Tony Santagata in versione ska. I fan già lo chiamano lo Ska-Ppato di casa, e a lui piace.

X Factor Nella prossima edizione del talent di Sky, Morgan sarà sostituito da un personaggio che si veste in modo meno eccentrico: l’ex presidente della Cei Bagnasco. I cantanti dovranno soggiacere ad alcuni test sull’Antico Testamento e chi sbaglierà a intonare il Salve Regina sarà trasferito nel Purgatorio, un ambiente umido e ostile in cui un impianto stereo a tutto volume diffonde senza sosta brani dei Tiromancino. Abbassando leggermente l’illuminazione su Simona Ventura, i telespettatori da casa potranno anche vedere la Madonna.

Mastersing Cucina e canto in un unico, dinamico talent mandato in onda da Sat2000. In diretta dal convento di Camaldoli, introdotti da Francesca Fialdini, l’abbacinante ex conduttrice di A sua immagine che adesso manda in tilt gli spettatori di Uno Mattina, alcuni monaci prepareranno piatti tipici della tradizione di clausura: dal boccone del prete, allo strozzapreti, agli strangolapreti, cioè tutte pietanze che in realtà il riferimento cattolico ce l’hanno solo nel nome ma, se cucinati da religiosi, dovrebbero far breccia anche nel pubblico ateo. Tra i giudici, suor Paola, suor Germana, e un vescovo americano che vorrebbe farsi eleggere Papa col nome di Bastianich I.

Ti lascio una missione Un simpatico format a metà tra la nota gara canora per bambini e la recente missione in Africa di Al Bano e altri cantanti a beneficio della prima serata di Raiuno. In questo caso il taglio sarà più solidale: Al Bano stesso, introdotto da Fra’ Cionfoli, raggiungerà il Continente nero insieme a Povia, Minghi, i Cugini di Campagna, Antonello Venditti e i Pooh. Il lato umanitario riguarda l’Italia: appena depositati in loco, i tizi di cui sopra verranno abbandonati sulla pista senza spiegazioni. Seguirà un Te Deum di ringraziamento intonato da piccoli coristi.

* tutta invidia, la mia

Uscito su Sette

Sto invecchiando: l’omelia di Barbapapà di oggi mi sembra da mettere in cornice (una cornice grande)

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Eugenio Scalfari

da la Repubblica del 23 03 2014

SPERO che ai lettori non sembri una stranezza se comincio questa mia predica domenicale con il film di Veltroni su Enrico Berlinguer, proiettato giovedì scorso all’Auditorium di Roma. Ho conosciuto bene quel personaggio sul quale ho scritto un articolo domenica scorsa; poi ho visto il film ed ho letto i commenti che i giornalisti gli hanno dedicato, tra i quali quello bellissimo di Michele Serra sul nostro giornale. Perché dunque ci torno ancora?

Ci torno per chiarire un punto, per rispondere ad una domanda che molti si sono fatta e molti altri si faranno vedendo quel film nelle sale cinematografiche e alla televisione di Sky: Berlinguer e il partito da lui guidato erano comunisti come si chiamavano e credevano di essere, oppure no?

Certamente lo erano ma a loro modo che non somigliava a nessuno degli altri partiti comunisti al di là e al di qua della cortina di ferro che divideva in due non solo l’Europa ma il mondo intero. Il partito comunista italiano guidato da Berlinguer, e prima di lui da Longo e da Togliatti, era nato a Lione, liquidò Bordiga, che l’aveva fondato nel 1921, e si ispirò all’insegnamento di Gramsci. Tra le sue “sacre scritture” non c’erano soltanto Marx ed Engels ma Antonio Labriola, Giustino Fortunato e perfino Benedetto Croce.

Berlinguer accentuò queste caratteristiche e prese le distanze non solo dal partito-guida di Mosca ma anche dal pensiero di Lenin. Il discrimine riguardava una questione fondamentale: la democrazia, quella sostanziale ed anche quella formale, cioè le cosiddette “libertà borghesi”. La democrazia, secondo il pensiero di Berlinguer, doveva essere rispettata e difesa sempre, nessuno spazio alla “dittatura del proletariato” che Lenin patrocinava come prima fase rivoluzionaria. Una democrazia che prevedeva anche alleanze con forze politiche non comuniste purché anch’esse fossero sinceramente e pienamente democratiche.

Questo fu il partito di Berlinguer e se passò dal 25 per cento dei consensi elettorali ereditati da Togliatti al 34 raggiunto da Berlinguer nel 1977, questo accadde perché una parte dei ceti borghesi si avvicinò a quel partito. In realtà, almeno una parte del suo gruppo dirigente e perfino quella aristocrazia operaia che rappresentava la classe lavoratrice, fece propria la cultura liberal-socialista che aveva ispirato “Giustizia e libertà” e poi il partito d’azione e di cui il maestro coevo alla leadership berlingueriana fu Norberto Bobbio insieme a Galante Garrone, a Calogero, a Omodeo, a Salvatorelli, a La Malfa.

Questo è stato il lascito di Berlinguer. Come e perché questa eredità politica sia poi entrata in crisi è un altro discorso che riguarda la crisi della politica, di tutta la politica, del sistema dei partiti, dei loro rapporti con le istituzioni, quella che Berlinguer aveva già identificato definendola questione morale, occupazione delle istituzioni da parte dei partiti, oggi più che mai intensa e di assai difficile risanamento.

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Questa crisi è il tema oggi dominante in Italia e in Europa. A me sembra che ci sia molta confusione nei pensieri di chi se ne occupa e se ne preoccupa. Ho letto su Repubblica di ieri un’intervista di Paolo Griseri a Marco Revelli sul suo nuovo libro intitolato “Post- sinistra” e mi ha stupito l’analisi che l’autore fa sostenendo che l’economia nella società globale ha ucciso la politica diventando una sorta di pilota automatico che porterà il mondo verso la catastrofe.

Mi sembra con tutto il rispetto per il pensiero di Revelli, che questa sia una semplificazione sostanzialmente sbagliata. L’economia moderna è una disciplina nata dal pensiero di Adam Smith e di Ricardo tre secoli fa, di fatto agli albori dell’illuminismo e assunse non a caso il nome di economia politica. Non esiste e non è pensabile un’economia senza politica o addirittura antipolitica come non esiste una politica priva di una sua economia. Lo stesso Carlo Marx questa verità la conosceva benissimo e la teorizzò quando scrisse “L’ideologia tedescae il 18 Brumaio”.

Marx riteneva che la rivoluzione proletaria dovesse essere preceduta dalla rivoluzione borghese per la quale manifestò addirittura simpatia e che considerava necessaria. Quella rivoluzione era ancora in corso negli anni Quaranta del diciannovesimo secolo. È evidente che la rivoluzione borghese aveva un enorme contenuto economico così come l’avrebbe avuto nel pensiero di Marx e di Engels la rivoluzione proletaria che ne sarebbe seguita.

La storia prese una strada diversa: la rivoluzione proletaria che secondo Marx sarebbe nata nei paesi europei economicamente più abbienti avvenne invece in Russia, cioè in un paese dove la borghesia non esisteva neppure. Di qui un suo percorso che Marx se fosse stato vivo avrebbe certamente sconfessato poiché non aveva le condizioni per attuare il comunismo annunciato nel manifesto del ’48.

Ecco perché ritengo che la post-sinistra descritta profeticamente da Revelli come un’economia che distrugge la politica a me sembra un nonsense.

Può essere e probabilmente è un’economia politica non accettabile, ma non distrugge la politica che non è distruttibile visto che è una categoria dello spirito e come tale appartiene alla nostra specie e vivrà con essa fino all’avvento del regno dei cieli (per chi ci crede).
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Oggi abbiamo i populismi e l’antipolitica (che sono tutti e due forme di politica e di economia). Abbiamo un partito

che cerca di darsi una nuova forma con la guida di Matteo Renzi e avremo il 25 maggio le elezioni per il Parlamento europeo il quale a sua volta avrà il compito di eleggere il presidente della Commissione di Bruxelles, cosa che non era accaduta prima, quando quell’incarico era di competenza dei governi dei paesi membri della Ue.

Il Partito democratico si può a questo punto definire nei suoi quadri, nei suoi gruppi parlamentari e nei suoi militanti un partito renziano. Fino a qualche tempo fa si diceva che fosse l’unico partito italiano (e forse anche europeo) non personalizzato. Non aveva un Re. Adesso ce l’ha. Per simpatia per il personaggio, per la sua energia e voglia di fare, per il suo desiderio di avere successo e quindi di portare il suo partito al massimo della popolarità elettorale e infine per mancanza di alternative.

Ai tempi dei tempi Pietro Nenni, che fu un tribuno d’eccezione, diceva quando ci fu la scelta istituzionale nel giugno del 1946, «O la Repubblica o il caos». Adesso lo slogan che più corrisponde ai desideri (e alle paure) dei democratici è «O Renzi o il caos».

Questo slogan ovviamente presuppone che Renzi abbia il successo che desidera, ma è un successo che si gioca contemporaneamente su molti tavoli.

Anzitutto su quello della popolarità e Renzi ha scelto: i 10 miliardi (che nell’anno in corso saranno più o meno sette) andranno interamente nelle buste- paga dei lavoratori a partire da quelle del 27 maggio prossimo, due giorni dopo le elezioni europee che sono l’altro tavolo sul quale si giova il successo. Diminuzione dell’Irpef, due giorni dopo le elezioni: il rapporto è chiaro e perfetto.

Naturalmente alcuni settori della società non sono contenti. Non è contenta la Confindustria di Squinzi, non sono contente le imprese che saranno tassate sulle rendite dei titoli e su altri tipi di entrate mobiliari; non sono contente le piccole imprese del Nord-Est in crisi che vorrebbero sostegni e crediti bancari di favore e non è contenta la Cgil che teme un’eccessiva mobilità del lavoro precario. Infine non sono contenti i manager pubblici i cui compensi, secondo la spending review di Cottarelli dovrebbero avere un tetto che tagli il supero così come anche per le pensioni al di sopra di un limite abbastanza elevato.

Renzi questi scontenti li conosce e farà di tutto per placarli usando qualche attenzione concreta nei loro confronti, ma avrà bisogno di tempo.

In realtà avrà bisogno di tempo per tutta questa politica e dovrà prenderselo salvo che sul taglio dei 10 miliardi (sette) da mettere in busta paga per le tasche dei lavoratori fino a 25mila euro di reddito netto annuo. Questa copertura la deve assolutamente trovare.

Ma c’è un altro obiettivo che deve realizzare a corto respiro ed è la riforma elettorale. Questo è a costo zero dal punto di vista finanziario, ma un costo politico ce l’ha. Alla Camera è già passato, al Senato qualche problema ci sarà ma lui spera di risolverlo ed è probabile che ci riesca. Il che tuttavia non risolve il problema della riforma del Senato e quindi della legge elettorale che rimane zoppa a meno che Berlusconi decida di mettersi contro per ottenere lo scioglimento anticipato delle Camere.
Se questo avvenisse si voterebbe alla Camera con un sistema nettamente maggioritario e al Senato con uno nettamente proporzionale. Una manna per Forza Italia, per la Lega, per Grillo e insomma per quasi tutti ma non per Renzi. Tuttavia qui il manico ce l’ha in mano Berlusconi sempre che si superi l’ostacolo del Quirinale, il che sembra tutt’altro che facile. Napolitano non credo accetterebbe di sciogliere le Camere con due percorsi elettorali così diversi e quindi con maggioranze probabilmente contrapposte. Comunque un rischio c’è perché l’alternativa in questo caso potrebbe essere una
crisi di governo.
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Infine c’è il tavolo delle coperture da effettuare, dell’occupazione, del pagamento dei debiti verso le imprese e dell’Europa. Questo gruppo di questioni è strettamente interconnesso ed è qui che si gioca realmente la sorte del governo e del partito renziano.

Segnalo un punto non marginale per capir bene il personaggio Renzi. Fino a quando sembrava che il governo Letta sarebbe durato fino al 2015 e quindi sarebbe stato Letta a presiedere il semestre europeo di spettanza italiana, l’allora (e tuttora) segretario del Pd sosteneva che la presidenza europea semestrale non contava assolutamente niente. Letta diceva il contrario ma Matteo ci rideva sopra. Da quando però è arrivato a Palazzo Chigi Renzi ha immediatamente cambiato linguaggio sostenendo che quel semestre sarà fondamentale per l’Italia e per l’Europa (anche per il mondo?).

È fatto così, il Re del Pd: cambia linguaggio di continuo, secondo con chi parla; dà ragione a tutti, capisce tutti, incanta tutti (o ci prova). La sua vera natura è quella del seduttore. Da questo punto di vista somiglia molto, ma con metà degli anni, a Berlusconi.

Non entro nell’esame delle coperture, dell’accoglienza europea alle proposte renziane, ai tempi necessari per arrivare ad una svolta vera, che certo non è quella dei 10 miliardi (sette) dell’Irpef. Dico solo che sui tagli di Cottarelli bisogna stare attenti perché ci saranno anche effetti negativi sull’occupazione come conseguenza di alcuni dei tagli proposti.

Ma la considerazione con la quale concludo, molto personale, è la seguente: se è vero, ed è vero, che il seduttore Renzi è più bravo del seduttore Berlusconi, esiste l’ipotesi che l’eventuale successo di Renzi sui vari tavoli del gioco porti con sé dopo vent’anni di berlusconismo vent’anni di renzismo. Questa ipotesi la considero un incubo. Ma magari piacerà agli italiani che in certe cose sono molto strani.

L’uomo col capello

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Ieri sera mentre guardavo la perfomance di Peppe da Mentana, mi è tornato in mente l’uomo col cappello di Bar Sport.

Lo vedevo lì, con tono ora vittimista ora aggressivo, mentre impastava certezze assolute alla brutto giuda, mandava messaggi minatori al sindaco di Parma, mischiava l’Egitto, l’ambasciatore inglese, Renzi, il referendum in Crimea, i server da 250.000 euro l’anno, i bilanci di Casaleggio, si dichiarava nullatenente, ammetteva che va in tv per fare promozione allo spettacolo nei teatri, non si ricordava di aver candidato Orellana a presidente del Senato, “e posso chiamarti Enrico?” (ad libitum).

Alla fine, mentre su Twitter già avanzava la categoria #gliocchibellidipeppe, io mi interrogavo: solo io ho visto un anziano in balia di se stesso che barcollava sugli affondo di Mentana? Solo io, mentre pronunciava Occupi Uoll Street, parlava delle piazze che si riempono, arrancava dietro agli anacoluti di senso e di linguaggio, pensavo di trovarmi di fronte a uno che ha imparato la lezione e pure male?

Ecco, temo il punto sia questo. Noi siamo qui a occuparci del tizio che urla, a deridere Peppe o ad osannarlo, ma anche lui è un semplice portavoce. Del vero leader. Quello che con ogni evidenza scrive i post lucidissimi del blog, dato che nonno Peppe, proprio ieri sera, ha candidamente dichiarato che non sa gestirlo, il blog. E secondo me faticherebbe con ogni evidenza persino a lanciare Word.

Il leader è quello che teorizza guerre mondiali salvifiche, che usa la politica come un tram – prima Silvio, ora Peppe – per le proprie teorie, che spiega agli imprenditori come salvare l’Italia ma con le sue aziende, lo dice lui, è alla canna del gas, e senza il botto di clic che gli porta l’altro, il portavoce, e la pubblicità dei corsi per andare a rubacchiare qualche laurea all’estero, o per dimagrire in 5′, probabilmente sarebbe davvero nei Simpson a fare lo stuntman di Telespalla Bob.

Il leader del M5S non è l’uomo col cappello.

Purtroppo, è l’uomo col capello. 

#vinciamolui.

La linea della polenta

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Stamattina a Lateral, tra i tanti che faccio, ho commesso un errore: ho confuso Rita Atria, la collaboratrice di giustizia che si uccise dopo la strage di via D’Amelio, con Lea Garofalo, la giovane mamma testimone contro la ‘ndrangheta che fu tratta in inganno dal compagno e sciolta nell’acido.

Ne avevo parlato perché sul manifesto, a pagina 6, c’era un pezzo che raccontava i buchi nella protezione dei testimoni di mafia. Quei buchi in cui si annidano i regolamenti di conti, le vendette, ma anche e soprattutto l’abdicazione dello Stato, l’ennesima, al proprio dovere di credibilità. Dicevo, in radio, che un Paese civile non mette un articolo così a pagina 6 di un quotidiano – benemerito – da ventimila copie. In un Paese civile questa roba sta in prima pagina su tutti i giornali. Come il bimbo ucciso l’altro giorno in Puglia. Come ogni notizia di guerra, perché quella della mafia è una guerra contro di noi.

Poi mi sono destato: è una guerra? No, perché una guerra bisogna combatterla in due.

E mi sono detto – non parlo di chi fa la scorta civile ai Pm siciliani, non parlo di Telejato, non parlo di chi ogni giorno, dal basso, tenta di affermare la legalità – ma quand’è esattamente che il taglio di 100 auto blu, per l’opinione pubblica, è diventato più coinvolgente di un quattrenne che muore crivellato?

Occhio, eh? Non è benaltrismo. Non dico nulla degli spot di Renzi: è la politica moderna, e tra l’altro ha pure chiamato tra i collaboratori quel vero mastino della giustizia che è il giudice Cantone. No, parlo proprio di noi. Quand’è stato esattamente che il sangue di certe parti d’Italia ha cominciato a valere meno? Quando abbiamo ritenuto che fosse giusto farci gli affari nostri, magari senza accorgerci che quegli affari se li facevano sotto casa nostra gli stessi che sparano ai bambini?

Poi, per carità, vale tutto. Il motivo per cui non ho irriso gli 80 euro di Renzi (ma lui, un po’, sì) è che, se mai arrivassero davvero, saranno ossigeno per le fasce più deboli. E lascia stare che li spenderanno in ticket, addizionali, servizi che lo Stato ha smesso di dare. Quel che mi chiedo è invece perché chi governa – e chi fa opposizione, e sa parlare solo di casta, mai di noi e dei nostri difetti, e se va in Sicilia dice che la mafia è meglio dello Stato – sia in sintonia così profonda con gran parte del Paese quando derubrica la mafia a evento che non tira. Al massimo tira a segno.

Non ho la risposta. E ‘ste righe in fondo lasciano il tempo che trovano (nuvoloso, pure dentro, mentre scrivo) ma temo che tutto attenga a una coscienza di popolo perduta, se mai c’è stata, alla sindrome del ping pong che ci porta a girare la testa dall’altra parte, e dall’altra, e dall’altra.

Sciascia parlava della linea delle palme, della sicilianizzazione dell’Italia. Senza sapere che sarebbe arrivata in Germania, e non solo. Ma ora il problema, forse, è la linea della polenta. E’ il “cazzi loro” tutto nordico che anima i Salvini, gli economisti di Paragone, gli antieuro complottisti.

Gente che cerca un colpevole altro da sé. Che non vuole responsabilità.

Per quello Zaia pensa di portare il Veneto via dall’Italia (anzi, vuole l’indipendenza, perché in Austria, quando sfrecci a 200 all’ora, magari vai in galera). Vuole andarsene, e in tanti con lui, perché con una frontiera in mezzo sarebbe ancora più facile non vedere il problema.

Solo che, e lui non lo sa, attaccato a quella frontiera c’è un grosso specchio.

La sindrome del tortellino

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Beppe Maniglia deve pagare o no l’occupazione del suolo pubblico? E quella delle mie orecchie? E del mio apparato riproduttivo?

Ieri in città si discuteva di questo, come in una plastica descrizione del paesone insonnolito in cui viviamo, quello che si fa costruire Fico dai privati ma manco riesce a fare la voce appena men che flebile con un tizio che scoppia boule dell’acqua calda e contenuto degli slip altrui.

Un filo meno quotata, nel chiacchiericcio da Bar Otello ormai orfano persino del Bar, e di Otello, la vicenda del bike sharing, delle bici condivise da affittare a stanziali e turisti. Quelle che il Comune ha rinunciato a proporre perché un solo esemplare, evidentemente in oro massiccio tempestato di lapislazzuli, costava – parola dell’assessore Colombo – 2000 euro l’anno.

Appena il tempo di dirmi che no, dai, non è possibile, ci sarà una ragione se le bici del sindaco sono così controproducenti, che siamo in Italia e mica a Londra, Parigi, in una qualunque città europea, e dunque, Bot, mica puoi metterti sempre a sputar sentenze senza rilevare il male di vivere e di amministrare di Merola e dei suoi… che le mie dita sono corse a Google. Google notizie, per la precisione.

Ho scritto: bike sharing.

Nelle prime quattro pagine (4) ho scoperto che a Roma stanno ampliando il servizio, anche se qualche bici se la fregano. Che Milano ha appena introdotto 20 nuove stazioni e punta ai 50.000 abbonati entro l’Expo e che sta introducendo bici a pedalata assistita. Che a Busto Arsizio (!) funziona tutto benone e le due ruote, dice il sindaco, costano 550 euro l’anno. Che a Genova furoreggiano. Beh, certo, l’efficiente nord… A marzo partono a Cagliari, le bici del Comune. A Teramo hanno appena esordito e vanno che è un piacere. Ci sono a Presicce, provincia di Lecce. Le hanno a San Marco in Lamis, nel Gargano. A Palermo hanno appena potenziato la flotta…

A Bologna no. Può darsi sia un impeto di autocoscienza, la decenza di non costringere i noleggiatori a pedalare su quella parodia mai presidiata, mal segnalata, spesso dimenticata che è la celeberrima rete di piste ciclabili. Probabilmente non si vuole essere corresponsabili della roulette russa che coglie chi tenta di fare lo slalom tra le pensiline del Civis (il Civis!) in via Irnerio.

O più probabilmente è quella drammatica carenza di prospettiva che uccide chi governa questa città. Fatevi prestare almeno le slide da Renzi, mo’ che siete tutti con lui.

Non ne so nulla, per carità. Non invidio Colombo, immagino che prima di sventolare bandiera bianca abbia alzato il telefono per chiedere a Enel o a qualcun altro di imbastirgli una rete di bici a pedalata assistita ma poi quelli, cattivi, gli abbiano preferito San Marco in Lamis.

Però non mi stupirei se manco ci avessero provato. Perché questa vicenda delle bici di tutti, oltre a rappresentare un autogol comunicativo e strategico segnato da centrocampo in rovesciata, di tacco, sembra un plastico di Vespa della nostra “sindrome del tortellino”. La condanna a guardarci l’ombelico, rassegnati, che ottunde anche le menti migliori, e le migliori idee.

Il restauro dei portici, ad esempio.

Tempo fa, mentre cercavo una bici da affittare, dunque avevo tempo, pensavo tra me e me che sarebbe stata una bella idea affidare il recupero del nostro biglietto da visita al crowdfunding. Poi l’ha fatto, il Comune. Neanche il tempo di esultare (tra l’altro il mio vicino non mi sentiva, perché ero in piazza Maggiore e Beppe Maniglia ci sovrastava a tutto volume) che ho scoperto obiettivo e donatori: il portico di San Luca, i bolognesi

Ecco: tu hai i portici più belli del mondo, non riesci a preservarli, ma il signore benedetto delle idee ti illumina e ti consiglia di coinvolgere un aiuto esterno. Giustamente, una tantum, cerchi un patto sociale con la città. Bravo. Però ci provi nel momento di massima sfiducia nelle istituzioni, e raccogli gli spicci necessari a tinteggiare cinque arcate. Adoperi cioè un metodo nuovo (il crowdfunding) per una questua vecchia: ogni arco ha già il nome di un benefattore, s’è sempre fatto così.

Proviamo ora a uscire dalla sindrome del tortellino. Traduciamo in inglese qual c***o di sito che serve per la raccolta, abbiniamolo a una strategia di comunicazione decente, vendiamo il restauro della più bella città medievale del pianeta (tutta, anche quella laica) al resto del mondo. Mandiamo una e-mail a John Grisham, chiediamogli se fa da testimonial. Dice di no? Paghiamo un ragazzino smanettone che piazzi la colletta in testa ai motori di ricerca. Giriamo un video virale. Cerchiamo donatori negli Usa, in Giappone, nei Paesi arabi, nel Nord Europa. Proponiamo a chi versa una cifra la possibilità di venire a vedere quale meraviglia ha riportato all’antico splendore, facciamolo a prezzo scontato. Creiamo un circolo virtuoso di turismo e responsabilità. Mettiamo Bologna al centro del Mondo e non di fianco al sidecar di Beppe Maniglia.

Possibile che esca qualcosa di più dei 141.000 euro,  e di 181 sostenitori.

E, chissà, magari pure qualche bici.

Uscito sul Corriere di Bologna