Di treni, migranti e altre sciagure apparenti

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Di lusso no, ma lontana destinazione sicuro: da Milano a Livorno in Intercity servono 4 ore e 45 minuti. Se invece si cambia e si prendono i Freccia, ce la si può cavare nella metà del tempo. Ma si spende il triplo.

L’altra sera a Pavia è salito un ragazzo (scoprirò dopo) eritreo. Magro come la cartavelina, vestito leggero, con una borsa della spesa di tela, quadra, piena all’inverosimile. Il cripto-razzista che si agita anche nel sottoscritto, perché anni di suprematismo bianco incidentale l’avranno pur lasciato, qualcosa, nel DNA, ha subito pensato che non avesse il biglietto. Poi, siccome ho fatto almeno le Medie e avevo buone professoresse di educazione civica, quel “pensato” è diventato “temuto”. Temevo,  per lui, che fosse senza biglietto. Ipotesi che si è avverata pochi istanti dopo quando la capotreno, con un gesto ormai inusuale nei convogli a passo lento, ha iniziato la controlleria.

Siccome si erano sparsi per la carrozza, non ho subito inteso che fossero in tre. La ferroviera è stata cortese, civile, come raramente accade se hai la pelle della pigmentazione sbagliata e ti trovi di fronte a una qualunque divisa. Ma non ha derogato: “Dovete scendere a Voghera”. Il ragazzo sapeva qualche parola d’inglese e ha abbozzato una trattativa. Ha cercato di spiegare che doveva raggiungere Ventimiglia, probabilmente – qui è sempre il paternalista che parla e grugnisce – per tentare la lotteria della frontiera verso un Paese che avrà molti difetti, tipo che agguanta i migranti e li riscarica da noi come rifiuti, ma non Salvini ministro dell’Interno per interposto Piantedosi.

Siccome sono un radical chic di quart’ordine (abbastanza radical, in effetti, ma vesto malissimo) ho messo mano alla carta di credito e… c’era già stato qualcuno più veloce di me: una ragazza che, mentre io ancora ticchettavo sul Mac le facezie da riversare su questo nobili pagine, si era avvicinata, aveva fatto domande, completando l’identikit del pericoloso invasore: poco più di vent’anni, sbarcato a Lampedusa su un barchino, portato in Sicilia e poi, in bus, a Milano. Quindi a Vicenza. Infine, lasciato libero con zero denari in tasca, nessun documento, una tessera della Croce Rossa con un numero di identificazione e la frase “Vai un po’ dove ti pare”. Lui andava a Genova, contando sul passaggio di un connazionale verso la frontiera.

Quando è saltato fuori che i reprobi erano tre, io e la ragazza ci siamo divisi la devastante spesa di 64.50 euro, tacitando la coscienza per qualche ora di fronte a qualcosa, qualcuno, che di solito rimuoviamo, che è più facile maneggiare sui social, che alla fine, comunque, non la senti anche tu questa voglia di aperitivo a Corso Como?

L’esperienza però è stata educativa, confermativa: l’immigrazione, come viene gestita, la consegna di questi fantasmi a un futuro opaco, cosicché magari diventino ciò che già gli imputano di essere per questioni etniche, ché da fantasma cos’hai da perdere, è molto più che un’ipotesi. Tanto, se impazzisci e ti crivellano di colpi, i Crosetto e le Meloni rivendicano la pena di morte à la carte. Oppure, se fai branco coi tuoi connazionali, poco importa che fino a 18 anni ti abbiano detto che no: anche se sei nato qui, scordati di essere italiano. Sei figlio di un dio minore. E se muori perché siedi sul sellino sbagliato, chi ti ha braccato fa cancellare i video di chi lo ha ripreso mentre concludeva col botto la caccia all’uomo. Nero.

Al netto delle ideologie falsamente securitarie, ché se sei bianco ti si regala l’illegalità “di necessità”, tutto è oggettivamente, realmente, plasticamente utilizzato come veicolo di consenso sulla pelle degli ultimi. Anzi: di conservazione del dissenso, scopo raccolta voti. Per far viaggiare, altro che Soros, la vera industria che governa il mondo: fatturare la paura. Miliardaria, dacché l’identità rancorosa di chi comanda e di chi comunica hanno convinto i penultimi che i nemici siano quelli che stanno peggio.

Sempre ieri, poco prima, nella fase “braveheart” da tastiera che spesso attraversiamo noi buonisti frustrati, avevo ricondiviso un video del Tg3: un barcone, una donna, il suo neonato ancora attaccato al cordone ombelicale in mezzo a una trentina di disperati pigiati su loro stessi. Sotto, avevo raccolto commenti da mettersi a piangere dalla rabbia. Violenti, infami, disumani. Di quelli che sì, ci saranno anche bot russi pompati dall’algoritmo… ma anni di degrado informativo alla fine ci sono riusciti: la percentuale di italiani brava gente punta verso il centro della Terra. Presenti inclusi, sia chiaro.

Così, ho fortificato nella prassi quello che penso da tempo: imperfetti, inevitabilmente collusi, autoassolutori. Ma facciamo un cazzo di qualcosa. Di concreto, intendo. È l’unico atto politico che ci è rimasto.

La ragazza, l’ho scoperto dopo che i tre ragazzi erano scesi, ha un’idea proprio bella per mettere in contatto i senza diritti, senza nome, senza tutto, con un percorso di regolarità. Per farli uscire dal buio. Sa già come, dove, quando. Con chi. Ma è diventato un progetto vero e proprio l’altra sera, sul tardi, grazie a tre persone smagrite cui non possono bastare due spicci compassionevoli. Aveva gli occhi lucidi per la commozione e per la rabbia. Come una specie di sorriso. Sono sceso sorridendo pure io.

Uscito lunedì su La Stampa

Un’analisi naïf della piazza “proPal” di ieri, con una buona dose di velleitarismo in omaggio. Enjoy.

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Tentare un’analisi non tifosa della manifestazione di ieri è un’impresa ardua, ma perché non provarci? Con tutto il rumore che c’è intorno, ragionare a giochi fatti può ancora avere un senso. Forse.

Vediamo. Primo punto: il “divieto” di Piantedosi non ha mai avuto nulla a che fare con l’ordine pubblico.

Il prefetto Piantedosi dopo aver saputo che in realtà il Ministro è sempre Salvini

Serviva, e c’è riuscito perfettamente, a far passare l’idea che i “pro-pal” moderati, quelli per cui Israele certo che deve esistere, il 7 ottobre certo che è stato un pogrom agghiacciante, l’antisemitismo mai e poi mai, però non è che si possa tenere tutta la Palestina in un campo di concentramento e fare strage di bambini, ora anche in Libano, per la carriera politica di Netanyahu… a suggerire l’idea, dicevo, che un minimo di contestualizzazione li (e ci) apparenti ai tizi che sfilano inneggiando alla Shoah.

Punto secondo: in piazza c’era tanto letame ideologico.

Elly Schlein sul Giornale dei Giusti, quello che dà patenti di antesemitismo agli altri

C’erano l’estrema sinistra che nulla ha a che fare col centro-sinistra moderato, dunque è inutile che si chieda a Schlein, una che è stata accolta facendone notare il naso camuso, di dissociarsi. Dissociarsi da cosa? Quelli sono suoi nemici, sono nemici di una sinistra liberale, erano in piazza contro di lei e contro tutti noi che cerchiamo di dare al nostro confuso essere progressisti una prospettiva, da sconfitti totali quali, al momento, siamo.

Un simpatico travestimento del sottosegretario Bignami (a destra)

Punto terzo: in quel materiale organico che inneggiava alla strage di giovani inermi, quella di un anno fa, spiccava l’estrema destra che vede nella destra di Governo, allo stesso modo, un nemico, ancorché si guardi bene dal contrastarla, scioglierla, sgomberarne le sedi. Ma c’è un ma: la “conversione” del partito che sta a palazzo Chigi è recente, di comodo, un po’ come l’atlantismo meloniano che viene dopo decenni di guerra alle “plutocrazie”, inserita in un contesto (l’antimondialismo) che rappresentava la versione neofascista dei no-global. I primi, in divisa, hanno fatto sparire i secondi, a Genova, vent’anni fa, a suon di botte. Ora governano, ma nelle chat, sui social, nei consigli comunali, restano quelli: inni al Duce, a Hitler, all’Asse (non quello del water, anche se gli somiglia).

Punto quarto, e ultimo. Può darsi che il punto terzo sia sbagliato, frutto dell’imprinting progressista, addirittura post comunista (italiano), dello scrivano cui si devono queste righe. Così fosse, l’Italia avrebbe da trovare una posizione originale nella confusione che circonda la questione Medio-Orientale. Qualcosa per cui, ovvio, sacrosanto, l’Iran è uno Stato canaglia, la teocrazia cui abbiamo lasciato violentare una generazione che vuole cambiamento, parità di genere, libertà. Certo, il Libano non è il miglior vicino del mondo ma bombardarlo significa creare nuovi jihadisti. Certo, Hamas è il peggio e rivedere le immagini del 7 ottobre è una ferita, profonda, ogni volta, ma quello che stanno subendo i palestinesi innocenti è terribile e, oltretutto, controproducente.

Bill Clinton insieme a due pericolosi semiti

La sovrapposizione tra l’invasione russa dell’Ucraina e quello che sta combinando Netanyahu sono un cavallo di battaglia dei liberali alle vongole (liberisti al curaro, in realtà) ma la situazione è profondamente diversa. Nel primo caso, trattare la pace, ora, significherebbe dare alla prepotenza putiniana il sigillo della comunità internazionale. In Palestina, riaprire un canale di dialogo è necessario: anche il tremebondo Biden, con le sue balbuzie, ha cercato di farlo capire. Ignorato da quel losco figuro che governa Israele: corrotto, autoritario, criminale di guerra.

Rabin e Arafat, entrambi uccisi, erano riusciti a trovare una sintesi per dare ai due popoli (semiti, entrambi) una prospettiva di pace. Oggi ci sembra impossibile, assiepati in curva come siamo. Ma Netanyahu non è Israele, Hamas non è – ancora – la Palestina. Gli uomini di buona volontà (e così abbiamo rimesso insieme muro del pianto, calvario e spianata delle moschee che a Gerusalemme stanno praticamente nello stesso posto), dovrebbero impegnarsi per questo.

Stefano Benni diceva, e temo abbia ragione, che Dio (o Allah) farebbe meglio a non esistere. Ci farebbe una figura migliore. Proprio perché sono ateo, mi permetto di sperare. Nella fine delle guerre sante. O almeno, intanto, che da queste parti la si pianti di fare gli ultrà. Forse, più facile la prima.

Un’esaustiva, totale, assoluta smentita degli incredibili fraintendimenti creati da un mio post sull’azienda di sportswear “Decima Legio”

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Ricevo con malcelato stupore la diffida di un legale dell’azienda “Decima Legio” secondo cui, rilevando la presenza del loro logo (una X) sulla tuta nera di un noto allenatore del nostro tennis, peraltro non citato, avrei accostato il marchio in questione al fascismo, un evento che – come tiene a comunicarmi – è stato condannato dalla Storia prima che da me. Il fascismo, non il mio post. Condivido.

Il post frainteso

Cito dalla missiva di precisazione: “L’ispirazione del brand è tratta dalla Decima Legione di Caio Giulio Cesare, divenuta la sua preferita, nella campagna di conquista delle Gallie e determinante in una delle più celebri battaglie della Storia, quella di Alesia, il cui valore icastico è noto a tutti. Il richiamo a tale legione si sposa perfettamente con i valori degli sportivi cui l’azienda si rivolge: forza, sacrificio, combattività, determinazione, lealtà e fierezza, tutte caratteristiche riconosciute dalla storiografia ai soldati della Decima legione”.

Com’è a tutti noto, la Decima Legione di Caio Giulio Cesare, e a maggior ragione la campagna di Alesia,

rappresentano un episodio oggettivamente molto icastico, fortemente radicato nel comune sentire, e ritengo del tutto normale che un’azienda barese di recente fondazione decida di dedicarle nome (“Decima”) e marchio. Anzi: colgo l’occasione per scusarmi anche con Caio Giulio Cesare, il cui immaginario fu purtroppo arbitrariamente utilizzato da Mussolini per una sfortunata epopea, ma non merita certo di essere confuso – ad esempio – con la Decima Legio fascista che operava proprio nella mia città: Bologna.

Probabilmente l’increscioso equivoco è nato dall’aver scritto “devono proprio

rovinare tutto”. In verità, volevo significare che, a mio fallace parere, non quello di Giorgio Armani, i capi “Decima Legio” sono abbastanza funerei e, un po’ come il lungo articolo che mi ha dedicato oggi un prestigioso quotidiano diretto da Daniele Capezzone, piuttosto brutti.

Ma posso capire l’equivoco: il clima è questo, purtroppo la gente vede fascisti ovunque.

Per rendere ancora più evidente che “Decima Legio” nulla ha a che fare con nostalgie  sepolte dal passato e non più riproponibili, allego alcune immagini pubblicitarie che rendono evidente l’assenza di ogni collegamento, compresa la divisa per il circolo di tennis di Raisport, nonché un’istantanea della sbarazzina “linea bulla”.

Spero di aver chiarito l’increscioso qui pro quo. Formulo perciò sinceri auguri, oltre che al legale, che peraltro lavora per tutti noi svolgendo una prestigiosa consulenza per la presidenza del consiglio dei ministri, a “Decima Legio”, al suo titolare che oggi ha spiegato al quotidiano di cui sopra che frequenta persino parenti di sinistra, cui voglio rivolgere un saluto apotropaico all’insegna della più pura romanità: ave.

Se avete pensato ad altro, è perché siete ossessionati.

Libero, oggi

Nota a parte Non avendo mai scritto ciò di cui mi accusa il dottor Mottola, potrei valutare azioni legali. Ma do già abbastanza lavoro alle Procure per intasarle con sciocchezze del genere.

Un inverecondo pippone su cosa vorrei da ciò che resta della Sinistra

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Nella narrazione passivo-aggressiva che delimita il campo espressivo della Destra, Giorgia Meloni ha fatto sapere che, grazie a lei, la parola “patriota” non è più una vergogna. È ovviamente un grossolano falso. Patriota è un aggettivo, o sostantivo ove lo preferiate, che data ai tempi del Risorgimento. Dunque alla nascita dell’Italia unita. Dunque a uno dei due miti fondanti di questo Paese, dacché l’altro – la Resistenza – rappresenta, quello sì, una vergogna per chi al momento timona la nostra democrazia.

Giorgia Meloni in total black alla parata del 2 giugno (Istituto Luce)

Nulla di strano in questa ricostruzione che serve a individuare nemici, tipica di un partito che ha abiurato la svolta di Fiuggi e oggi rappresenta di fatto, rivendicandola, la continuità col Movimento Sociale. Cioè con una traslazione appena più blanda, ma solo perché sconfitta dalla Storia, del Partito Nazionale Fascista. Un po’ come se il Pd rivendicasse l’invasione dell’Ungheria. O Schlein tenesse a casetta, in bella vista, il busto di Stalin. O la massa degli elettori progressisti avesse nostalgia della Cortina di Ferro. Manco Peppone, manco.

Diverso è il discorso di Nazione, una categoria novecentesca che, a proposito di apparenti sofismi lessicali è, banalmente, la madre dei nazionalismi. Ossia di ogni conflitto, compreso quello russo, varato da chi fino a dodici secondi fa rappresentava un punto di riferimento per chi ci governa. Un problema in politica estera – l’Austria che chiude le frontiere con noi dentro, i Paesi di Visegrad che ci rimbalzano sui migranti, l’atlantismo vassallo per accreditarsi a Washington – che basta e avanza come schermo interno per ogni torsioncina autoritaria, per ogni passetto verso la commistione dei poteri, per ogni occupazione rivendicata, per ogni controllo che salta nel nome di un valore impalpabile, di un arroccamento emotivo ma fascinoso: la Nazione, appunto.

In tutto questo, a preoccupare, è principalmente l’opposizione. La debolezza, dell’opposizione. Sulle parole, sui fatti.

Il MoVimento Cinque Stelle è da tempo alla ricerca di un nuovo jolly, un Reddito di Cittadinanza o qualcosa del genere, da calare sul tavolo della propaganda per ridarsi un’identità. Ché, nel trionfo dei partiti personalistici, Giuseppe Conte appare anche a molti sostenitori per quello che è: una figura opportunista che bada principalmente alla propria conservazione, alla competizione interna nel campo della cosiddetta sinistra, rispetto alla quale è peraltro un corpo estraneo per storia personale, obiettivi, formazione politica. 

Giuseppe Conte Uno (Ansa – Crispi)

Il Pd, invece, resta al momento preda del peccato originale che in quarant’anni di Governo Mediaset l’ha spinto ad arroccarsi in una specie di Sagunto culturale: farsi dettare le parole dagli altri, con ciò che ne consegue in termini di marginalità e depressione post votum. Ne è rimasto vittima pure l’eccellente sindaco di Bologna, allorché voleva appunto cancellare la parola “patriota” dalle vie dedicate ai partigiani. Se l’erano presa gli altri – il percorso del ragionamento – tanto valeva lasciargliela e mettere il cappello sui partigiani. Che invece sono di tutti, morirono per tutti.

Ne è vittima, in questi primi passi, Schlein, che affida l’analisi della sconfitta a sette minuti di video, girato con una qualità tra il Super 8 e le rivendicazioni dell’Isis. Un pasticcio che coopta in peggio la disintermediazione prima grillina, poi salviniana, ora meloniana, e comunica, al netto di una retorica da spogliatoio calcistico, un vuoto propositivo. Che tra l’altro, ed è forse ancora più grave, forse nemmeno c’è.

Al netto delle bufale di governo sul predominio culturale e informativo della Sinistra (la Destra ha il controllo dell’immaginario collettivo dacché l’informazione mainstream, Rai in testa, è diventata un’immensa Rete 4), la segretaria del Pd ha ora un imperativo categorico: non ascoltare nessuno. Ovviamente me compreso.

Non la parte del suo partito che minaccia l’uscita a destra: un saldo zero, in termini elettorali. Come minimo. Non chi le intima di abbandonare i temi civili per sostituirli con quelli sociali, dacché si possono, si devono, affiancare. A patto però di trovare parole nette. Ad esempio per dire che il cosiddetto utero in affitto è già reato, dunque non è un problema di cui vale la pena occuparsi. Di specificare con chiarezza che sostenere Kiev coi soldi del Pnrr è un problema non perché si debba armare l’Ucraina, ma perché il Pnrr non sanno manco dove si comincia a scriverlo. Di rivolgersi direttamente a chi sorregge questo Paese con le proprie tasse, dipendenti e autonomi, quando qualcuno parla di “pizzo di Stato”.

La segretaria Pd durante il suo video su OnlySchlein (Ansa – Zuckerberg)

Manifestando per dir loro grazie, per rivendicare il tax pride di chi patriota lo è davvero, in carne e Irpef.

Una battaglia che, ove la si voglia affrontare, si vince creando stilemi e luoghi propri, fossero anche le desuete piazze, o un pullman alla Prodi con cui palesarsi, da qui alle Europee, all’Italia per cui non si esiste più. Specie al Sud.

Pacificazione e buongoverno non sono sexy, sui social. La buonafede non lo è. Nemmeno un Morisi o un Longobardi potrebbero mai rendere appetibili equità sociale e senso dello Stato. Né intrupparsi nei talk show rissaioli può essere la via: in tv ci si va a farsi intervistare, anche dalla stampa nemica, ma da soli. O duellando con gli altri leader.

C’è una parte non minoritaria del Paese che ha bisogno di non sentirsi sola. Va cercata, compattata, con una sorta di veltronismo radicale, uno spietato buonismo, una vocazione maggioritaria che, se proprio deve colpire qualcuno, va indirizzata contro le disuguaglianze. Contro chi se ne frega del riscaldamento globale e taccia di gretinismo chi semplicemente non vuole andare arrosto. Anche perché odia i giovani. Contro chi il pizzo di Stato se lo prende ogni giorno dalle tue tasche, facendoti concorrenza sleale, derubandoti dei servizi che gli regali. Contro chi in trent’anni ha abbassato le retribuzioni e moltiplicato i profitti, facendo molti più danni degli elusori come Google o Amazon. Contro chi dall’Europa vorrebbe solo argent de poche e nessun dovere. Contro la mentalità mafiosa, proattiva o rassegnata che tutto ottunde e tutto blocca. Contro chi spaccia per merito l’essere nati dai lombi giusti: il merito si misura quando si parte da posizioni di partenza simili, se non uguali.

Proponendo un’Italia di uguali, ecco. E non di uguali a Budapest.

In tutti i luoghi, e in tutti i laghi. Avendo cura se possibile di proteggerli, i laghi: ché cementificare il territorio, anche quello, fa parte di una subalternità culturale i cui esiti tutti stiamo pagando e pagheremo, se qualcuno non avrà il coraggio di praticare l’impopolarità finché non diventa popolare.

Da patrioti. Ché, come diceva, Mark Twain citato dal Pojana: “Essere patriota significa sostenere la tua terra sempre, e il tuo governo quando se lo merita”.

Una cosa prolissa sulla SS Lazio, il tifo organizzato, i riflessi condizionati

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Non avendo mai puntato all’unanimità, non mi stupisco di risultare spesso antipatico e irricevibile. Per parafrasare il bunjee jumper di Piazzale Loreto: “Certi nemici, molto onore”. Non mi spaventano, ancorché mi fracassino l’apparato riproduttivo, le shitstorm organizzate. Ne ho ricevute da partiti di quasi tutto l’arco costituzionale, tolto il Pd. Non perché io sia del Pd: è che non capiscono le battute. Però, ecco, ma mi rendo conto che sui social sia molto difficile, vorrei essere responsabile di quello che dico e non di quello che capiscono gli altri. Specie se gli altri si raggrumano come una massa senza volto sulla base di quello che hanno creduto di capire. Una massa in cui c’è ovviamente molta gente in buonafede, alcuni decisamente simpatici, cui riservo questa risposta. Perché a tutti non è umanamente possibile.

Non chiedo scusa, intanto. Non chiedo scusa per aver rilevato, con una blandissima battuta, la curiosa “coincidenza” dello striscione che, nella curva della SS Lazio, ha commemorato la Regina Elisabetta con il tradizionale fascio font. Con tutto che la Regina Elisabetta, o per meglio dire il suo predecessore, contribuì alla fuga verso il confine del coniglio pelato che ci aveva resi camerieri dei nazisti. Quello che mandò mio padre in un campo di concentramento. Diciamo che, al netto di tutto, si poteva scegliere una grafica più consapevole.

Non chiedo scusa perché quello che avete capito voi, o che vi è piaciuto capire, non è quello che dicevo. Cioè: non ho mai detto che tutti i laziali sono fascisti. Ho celiato sulla curiosa coincidenza di una curva infestata, come molte, ma, storicamente, più di molte, da gente che potendo invaderebbe la Polonia. E non escludo che l’abbia già fatto. Facile? Certo. Le battute sono facili. Falso? Dai: non ci credete manco voi.

Che ci siano laziali antifascisti è noto. È un’ovvietà. Essendo nemico dei luoghi comuni, ho più volte dato pubblicità al Club laziale che si definisce tale. E che non è stato trattato coi guanti, mi risulta, in quello spicchio di Olimpico. Ho già aggiunto un dato che suona molto come “ho anche amici gay”. Ma ho almeno tre amici laziali antifascisti. Veri, eh? Non credo siano anche gay, ma non è che si possa essere perfetti.

Non chiedo scusa perché è un tema persino naturale, per un tizio come me, e l’ho sempre trattato per qualunque squadra. Pagandone le conseguenze, peraltro del tutto onorevoli, con insulti e minacce. Minacce reali. Anche quando la squadra era quella, il Bologna Fc 1909, che per me è una ragione di vita. Dacché a me fa abbastanza vomitare, per usare un giro di parole, che gli stadi italiani siano diventati un non luogo di prepotenze nostalgiche assortite. Quando accade, ne scrivo. Sono un cagacazzi anche dal vivo, tra l’altro. E prima o poi magari mi menano: solo negli ultimi due mesi ho rischiato con un tizio che salutava romanamente ad Ascoli e un farmacista filonazista nel Triestino.

Perché a me il fascismo, il nazismo, quella merda lì, chiamatela come volete, manda il sangue alla testa. I bulli, mi mandano il sangue alla testa. Una volta lo chiesi a un partigiano: “Come spiegherebbe a un ragazzo i fascisti?”. E lui: “Gli direi che erano dei bulli”.

Siccome però campo – bene – anche di facezie, quando posso li metto in burletta: una risata li appenderà. E non mi importa molto quali colori sfruttino per propalare quella – ripeto – merda. Anzi, come ho già scritto anche nei miei libri: essermi famiglio comporta una responsabilità maggiore. Se a vagheggiare il tempo dell’olio di ricino è qualcuno che condivide una mia passione, calcistica o no, direttamente o qualche con simbologia paracula ma evidentissima, m’incazzo il doppio. Così come chi ha nostalgia dell’Urss, chi sta con Putin, i vetero-comunisti, chi si permette di spezzare una piccola lancia per le Br, mi fa incazzare come non mai. Perché mi somiglia, o crede di somigliarmi. Mi sta vicino. Dunque, se posso gli tiro, una scoppola, metaforica, più forte.

Ora: non pretendo che i laziali antifascisti, nel momento in cui si fa notare quello striscione di melma, tra l’altro acqua di rose rispetto a quel che si è visto da quelle parti, prendano le distanze. Sarebbe come chiedere a tutti i musulmani di dissociarsi dal terrorismo, o come se gli italiani dovessero andare in giro per il mondo specificando di non essere mafiosi. Ma almeno sarebbe opportuno non sucarla a chi fa notare un’ovvietà di cui non possono non essere consapevoli. Prendetevela con chi lo sporca davvero, il vostro nome. Mica con me.

Ché quando all’estero mi dicono che c’è la mafia, per dire, o quella volta che in Polonia il tizio del bed and breakfast mi ripeté “bunga bunga” allo sfinimento, convinto di essere divertente, mica rispondo per le rime e m’incazzo con lui. Non è che, nello specifico polacco, mi sia messo a fracassargli la uallera spiegando dove poteva infilarsi il bunga bunga. Perché non sono berlusconiano: non mi tocca. Di più, quel “bunga bunga” l’avevo preso per il culo altrettanto allo sfinimento pure io. Spesso non gratis. Cos’è? Vogliamo l’esclusiva dell’indignazione? I panni sporchi eccetera eccetera?

Per finire, ma mi serviva qualcosa di più di un tweet, dico solo che mi è spiaciuto dover bloccare a raffica anche qualcuno che ha frequentato il bene dell’ironia e quindi non lo meritava. Ma a un certo punto, mettermi a battagliare in punta di penna su una mania di persecuzione immotivata – nessuno, ripeto, ha mai detto: “Tutti i laziali sono fascisti” – era davvero diventato impossibile.

A me, con tutto il rispetto per la Lazio, della Lazio – come dicono a Cambridge – importasega. Mi interessa solo il Bologna. Quando parlo del quale, sono permaloso e spesso vittimista come tutti i tifosi. Ma ne sono consapevole, ed è forse ciò che mi salva. Perché quando mi riprendo dalla mancanza di ossigeno, quasi sempre riesco a sussurrarmi ciò che, ora, mi sento di ripetere a ogni singolo tifoso laziale da cui sono stato aggredito senza ragione: stacce.

Di solito, in questo modo, mi calmo.

Post scriptum Siccome questo post eccede i 200 caratteri, nessuno l’avrà letto fino in fondo. Ma aggiungo solo una cosa: quando ho usato la mia presunta “pavidità” per un’altra battuta su un’ulteriore coincidenza – sono fatto così: molta gente molto più potente ha cercato di zittirmi: in genere reagisco alzando la voce, finché non mi cacciano – sono stato preso in parola e mi si è aperta una scuola di tip tap sui coglioni perché rifuggirei il confronto. Ergo: lascerò aperti i commenti al post. Anche perché non è che ci voglia ‘sto coraggio a prendersi qualche altra pernacchia: c’è gente che con le parole rischia davvero. Ho già detto quel che dovevo. Non ho nulla da spiegare, null’altro a cui replicare. Dico solo che, come sempre, continuerò a scrivere l’accidenti che mi capita. In base alle cose in cui credo. Potendo, con ironia. Ah: Forza Bologna, sempre.