Una cosa retorica su tifo, ultrà e striscioni del menga

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Ho amici ultras.

Detto così, sembrerebbe la classica captatio benevolentiae che nasconde antipatia (esempio: “Non sono omofobo, ho tanti amici gay”).

Mi auguro invece sia un prodromo di tono, da malato del Bologna quale sono, per quello che vado a scrivere. Senza troppi giudizi, spero senza pregiudizi. Farò domande.

A proposito di pregiudizi malriposti: quando domenica è apparso l’arcinoto, e non originalissimo, striscione su Napoli, i miei riflessi condizionati sono scattati come un relais. In passato m’era toccato di duellare per iscritto con la parte “nostalgica” della curva, ricavandone attenzioni importanti che spaziavano dagli insulti alle minacce. Va bene (no, le minacce non vanno bene. Ma siccome l’impopolarità è insita nel mestiere che mi sono scelto, citerò nientemeno che Matteo Salvini: ci sta).

Così mi sono autoassolto: saranno stati loro – mi sono detto – anche perché il lenzuolo galleggiava da quelle parti. La curva è grande, le anime tante. Mi sono crogiolato nella tesi della sparuta minoranza, e anche che quella minoranza fosse diversa da me. Bene: coscienza 2, realtà 0. Palla al centro.

Poi un mio amico ultras, uno di quelli che nella vita di tutti i giorni, per dire, lavorano concretamente per la tolleranza e l’integrazione tra i popoli, lo so per certo, ha scritto la sua sui social. Un post lungo, in cui confessava di soffrire, quando dalle altre parti inneggiano alla strage del 2 agosto, perché quelle son cose serie, ma che il resto, anche quello striscione, rientrava nella logica da curva che dal di fuori è impossibile capire.

Ops.

Infine Paolo Alberti, già capo della Fossa dei Leoni, un tipo simpatico e intelligente che mi pare avesse inventato anche la celeberrima V rosa anti Virtus, capolavoro di ironia per cui rido ancora adesso, uno, se ben ricordo, che era in prima linea quando si trattava di raccogliere fondi in curva per i terremotati, una persona con cui, penso, non farei fatica a trovare un denominatore di discussione davanti a una birra, ha consegnato il suo pensiero alla rubrica che ha sul sito di Alberto Bortolotti: Playblogna.it.

E ha scritto, in un italiano forbito, con una sintassi che alcuni colleghi si sognerebbero, una specie di bollettino politico. Lo sunteggio: l’abbiamo fatto apposta, volevamo che se ne parlasse, cori e striscioni erano volutamente razzisti per protestare, tra l’altro, contro le squalifiche per discriminazione territoriale, e anche perché quando il Napoli viene qui sembra giochi in casa, e siamo noi quelli recintati dalla Polizia. Il messaggio – riassumo ancora – era per gli Abete, i Galliani, quelli che hanno ucciso il calcio, quelli che squalificano i giocatori corrotti ma poi li graziano, che veicolano assenza di valori, e comunque dov’era, Gianni Morandi, quando la società veniva devastata e il buon nome del Bologna e di Bologna violato?

Ora, Paolo, io sono d’accordo con una parte importante delle tue analisi, tolto l’accenno secondo me del tutto ingeneroso a quella bella persona di Gianni Morandi.

Sono d’accordo sul calcio farlocco, sul giocattolo lordato, sulla lotteria impossibile a cui devono vincere sempre gli stessi, sugli interessi immediati che, all’italiana, prevalgono su una decente programmazione. Sono d’accordo su Guaraldi, per quanto mi chieda chi altri in città – questa è Bologna: guardati intorno – abbia mosso passi concreti per sostituirlo. Sono d’accordo sulle curve tenute come tuguri, sugli ultras trattati solo come un problema di ordine pubblico. Sono d’accordo su quella poderosa presa per i fondelli che è la tessera del tifoso.

Però, siccome la domenica ti sei assunto l’onere o l’onore di rappresentare la mia città, dunque me, vorrei chiederti quand’è che ti ho delegato a protestare in quel modo agghiacciante, scindendo il messaggio dal mezzo, lo stesso che avete usato per l’Heysel, o contro la debolezza umana di un altro uomo perbene: Pessotto.

Vorrei chiederti se davvero lo stai facendo, con quel tono a me irricevibile, per un calcio migliore, per il Bologna, per Bologna, o per una semplice affermazione territoriale, una dimostrazione muscolare, e se dunque tu – e in generale gli ultras, al netto di ogni analisi sociologica che non mi compete e non saprei fare – non stiate invece prendendo in ostaggio la mia passione e quella di qualche altro per fini diversi. Legittimi finché vuoi, ma diversi. Personali.

Perché – è l’unica opinione, il resto sono davvero domande, e so che avrai la compiacenza di rispondermi – è vero che il cosiddetto calcio moderno, dunque televisivo, sta svuotando gli stadi. Ed è anche vero che non possiamo pretendere allo stadio qualcosa di diverso dalla mentalità che anima tutto il Paese, in qualunque campo, soprattutto la politica, e cioè che gli altri sono nemici indistinti contro cui protestare (lo Stato, Equitalia, la Lega calcio) e noi puri, invece, siamo sempre legittimati a fare ciò che vogliamo da un bene superiore, che siano la rivoluzione, la partita Iva, o un gol di Rolando Bianchi. Però se io non porto più mio figlio allo stadio, e del calcio (purtroppo) non gliene frega una beneamata favola, è anche perché penso che novanta minuti di vaffanculo, e quella scritta, non siano una cosa normale. Non qui, almeno un tempo. Ed è il motivo per cui ieri eravamo su tutti i giornali, e persino da Vespa: la percezione di un popolo si forma lentamente, dunque si stupiscono che accada a Bologna. La tua, la mia.

Anzi, e ti saluto, voglio usare un luogo ancora più comune: i novanta minuti di vaffanculo creano gli stadi di domani. E poi succede come ai piccoli tifosi della Juve, che nella curva squalificata neanche dovevano esserci, con la loro triste imitazione degli insulti che di solito usiamo noi adulti.

Avresti mai pensato di trovarti lì, accanto a loro? Ecco: ci sei. Ci siamo.

Forza Bologna.

 

Uscito sul Corriere di Bologna

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