Una cosa noiosa su governo, sindacati, minacce e terrorismo

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(ANSA – THYSSEN) Un iscritto Fiom sperimenta la flessibilità in entrata

Il professor Filippo Taddei, giuslavorista che collabora col Governo Renzi, è stato sottoposto a un regime di tutela per le minacce ricevute.

Mettete in fila le parole: giuslavorista, governo, minacce.

A me vengono subito in mente Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi. E ho paura.

Ho paura per Taddei, che non conosco. Ma so essere persona davvero dabbene.

E ho molta paura, anche, per la salute democratica di questo Paese.

Quando Marco Biagi fu trucidato dalle Brigate Rosse, era in corso uno scontro importante sulla riforma del Lavoro. Conosciamo i colpevoli: i terroristi, e chi, nelle istituzioni, trattò Biagi come un mitomane.

Nonostante queste responsabilità chiarissime, l’attenzione post-attentato si concentrò principalmente su Sergio Cofferati. E sulla Cgil, che sarebbe scesa in piazza (tre milioni o uno, non importa) col lutto nel cuore e l’infamante accusa di esserne la causa.

Non era vero allora. Non è vero adesso.

Criticare le riforme del Governo Renzi, quindi anche il lavoro del professor Taddei, è un esercizio tipico della democrazia. Scioperare pure. Fa parte della dialettica tra classi sociali – sì: ci sono ancora le classi sociali – di un Paese civile. Alzare il livello dello scontro è altro.

Lo sa perfettamente chi vuole sovrapporre la violenza verbale (vagheggiando quella fisica) alla protesta legittima, con lo scopo tra gli altri di mettere i sindacati in un angolo. Tutto già visto.

Intanto però la tentazione di lucrare su queste vicende titilla il Palazzo. Sarebbe facile usare strumentalmente la deriva eversiva come fece, ai tempi, Roberto Maroni, mettendo il cappello (Legge Biagi, invece che Legge 30) su una riforma che snaturava le idee del professore ucciso, mantenendo l’impianto liberista senza attivare le tutele sociali più profonde che Biagi aveva saggiamente previsto.

Sarebbe invece bello e utile se al Governo capissero da subito che una controparte democratica è una garanzia per tutti e che andrebbe legittimata, invece di smontarla a suon di hashtag e battute sui Ponti. In modo da combattere, insieme, i nemici veri.

I nemici di Taddei, della dialettica democratica, di chi ancora interpreta l’informazione come esercizio critico del potere. Perché a furia di disintermediare, l’impalcatura della libertà vien giù.

E ci finiamo sotto tutti.

Scusate il pippone.

Dove volano le mosche

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(ANSA - SCHIENA DRITTA) La foto segnaletica di Lorenzo Consoli su TzeTze

(ANSA – SCHIENA DRITTA) La foto segnaletica di Lorenzo Consoli su TzeTze

Avevo scritto una cosa anche lunga su Grillo a Bruxelles. Sul fatto che era Belgio ma sembrava Bulgaria. Avevo ragionato sulla credibilità di uno che attacca il giornalismo altrui ed è l’editore, per interposta persona, di ‘sta roba qui, al cui confronto Libero è la pagina della cultura del Times. Avevo aggiunto questo link. E questo. E questo. Avevo stigmatizzato il solito linguaggio autoritario di Peppe (“Chiuderete”), quello classista (“Si trovi un lavoro”) e concluso che Grillo considera i suoi elettori/lettori pure peggio dei politici tradizionali, se li pesca all’amo con il click baiting del NON CI CREDERAI MAI: CLICCA QUI, FATE GIRARE PRIMA CHE LO CENSURINO e poi quando clicchi, sostanzialmente, non c’è mai un cazzo da leggere. Avevo anche scritto paragrafi appassionati sui new media che sono pure peggio dei vecchi, se incassano la pubblicità di Unipol, Telecom, Mediolanum, dei petrolieri e poi dicono che non è colpa loro, che sceglie Google (e allora? Se vuoi preservare la purezza puoi rinunciare quando vuoi). Poi sono andato a vedere quanti follower ha Tze-Tze su Twitter: 19500. L’Unità, che è morta, ne ha 132000. Se davvero i media che vanno male devono chiudere per meritocrazia, fossi Casaleggio senior o junior comincerei a spedire in giro i curriculum.

‘na robba su Chet Baker che ho scritto per Sette

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Metto i gettoni nell’iPhone.

Ho smesso di intrudere rullini nelle fotocamere digitali solo dopo averne distrutte tre.

In camera ho un ritratto di Landini della Fiom, Olio Fiat su tela.

Quando sento la parola startup metto mano alla pistola.

Persino l’ultimo di Neil Young, per dire, mi sembra un filo troppo sperimentale.

E dei nuovi Pink Floyd, al di là di tutto, m’interessa principalmente che si siano ricordati la maglia di lana. Non vorrei che Gilmour ricadesse nel tunnel del Vicks Medinait.

Così, stavolta, amico lettore/amica lettrice, vorrei consigliarti il cofanetto di un vecchio amico.

Già l’oggetto, il cofanetto appunto, è desueto. Attiene al mondo dei cd, un apostrofo marrone tra il vinile e l’impalpabile, poco connotato. Fosse un politico, il cd sarebbe Angelino Alfano: teoricamente svolge funzioni conosciute ma è desueto e tra un po’ non ci saranno gli strumenti per leggerlo.

Per sovrammercato, ho scelto un cofanetto che arriva dritto dagli anni Cinquanta. Quando il giovane Chet Baker, tra le altre cose, albergava spesso e volentieri nella mia città. Gli dedicarono persino un locale, col suo nome. Gli eredi fecero causa. L’insegna fu cambiata in Chez Baker, alla francese. Ed è rimasta tale fino a poco tempo fa, senza che la progenie di Josephine adisse a sua volte le vie legali.

Chet Baker è Chet Baker. E’ (fu) un curioso intruglio di talento, alcol, sperimentazione, grazia, eroina, follia, curiosità, meretricio, dolcezza. Fu nostro, nel senso bolognese della geografia, ma anche molto italiano. Scrisse e suonò colonne sonore per i soliti ignoti di Nanni Loy (il sequel), passò da Dizzy Gillespie a Fausto Papetti, quello del sax con le donne nude. Si esibì col grande chitarrista Franco Cerri, quello che faceva anche l’uomo in ammollo per la pubblicità del Bio Presto, perché di jazz è sempre stato difficile campare. In Italia.

Ricamò e sporcò il ricamo.

E cantò. Caspita se cantò. My Funny Valentine la ricordano un po’ tutti, nella playlist per studenti fuorisede è il classico pezzo che indirizza la serata. Il resto, anche. E quel resto sta appunto in quel cofanetto: un trittico (“Chet Baker Sings”) che copre gli anni dal ’52 al ’63. Ed è perfetto per gli attimi immediatamente successivi alla conquista di cui sopra. O anche da ascoltare da soli, lungo l’autostrada, alle prime luci del mattino, se proprio non vi va di spegnere la radio e serve aiuto per sostenere l’illogica allegria.

Sono tutte – TUTTE – bellissime. Amo molto, pro domo chissenefregae, l’esecuzione timida di “That Old Feeling”. Ovviamente, “But Not For Me” che sembra restituita alla penna di Gershwin, deprivata com’è da tutta la grancassa quasi dixie di altre interpretazioni. E mi piace molto “I Fall In Love Too Easily” così arrendevole, complice, quasi femminea e per questo struggente, coinvolgente. E “Forgetful”, chitarra, voce, classe, anima, una fonte cui si sono abbeverati, magari senza saperlo, mille cantanti da acchiappo contemporanei come – ne dico solo uno – Fink.

Anche se, per citare un gigante del pensiero (Bruno Pizzul) è davvero “tutto molto bello”.

Persino per un ignorante di jazz come me.

Fate girare.

Se non ora, dopo

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monclerStamattina a Lateral ho fatto una battuta sul caso Moncler, su come l’ha trattato il Giornale, e sulle oche. Ho detto che non si capisce perché Sallusti attacchi Report (e dunque non difenda le oche) visto che la Minetti potrebbe aversene a male. O qualcosa del genere. Abbastanza scontata.

Non è successo niente.

Più tardi ho riciclato la battuta, ma tornare sulla Minetti mi sembrava banale. Ho pensato a quale donna politica mi comunicava maggiore incompetenza in questo periodo (incompetenza, avessi dovuto parlare di trasformismo avrei optato per la forzista-bersaniana-cuperliana-civatiana-renziana Alessandra Moretti, che mo’ vuole pure la Regione Veneto) ed ero indeciso tra Marianna Madia e Maria Elena Boschi.

C’erano foto grandi solo della Boschi, ho scelto la Boschi e ci ho fatto una vignetta.

Alcuni hanno apprezzato la battuta e l’hanno condivisa.

Altre hanno squadernato l’accusa di sessismo. A una delle critiche – tutte legittime, ci mancherebbe – ho risposto che le consideravo valide solo se analoga indignazione era stata spesa, al tempo, appunto per la Minetti. Ma forse si trattava di un paragone infelice. In realtà, a mio modesto parere, il punto è proprio un altro:

essere belli non significa essere scemi (altrimenti io, che sono un cesso, avrei un Q.I. spaziale) però non esime neanche dalle battute sulla propria eventuale insussistenza politica.

Secondo me, e così continuerò a comportarmi nel mio piccolissimo, si può dubitare delle capacità boschiane anche se è donna, si può scrivere che Balotelli è un pirla anche se è nero, si può scherzare su Formigoni anche se è daltonico.

Non che freghi qualcosa a qualcuno, però ci tenevo a comunicarlo.

Vivamarxvivaleninvivalasatiramasolosuglialtri.