A nessuna richiesta: due o tre cose che so del culto di Padre Pio

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(ANSA - DISNEYLAND) San Pio durante il celebre miracolo del Disco d'oro

(ANSA – DISNEYLAND) San Pio durante il celebre miracolo del Disco d’oro

Da “Tutti al Mare Vent’Anni Dopo” (Perdisa Pop, 2006)

La costa del Gargano sembra un televisore celeste cui qualcuno abbia girato al massimo la manopola del colore. In un posto così, solo un perfetto cretino concentrerebbe la propria attenzione sui cartelli che scortano la strada. Appunto. Così, mentre il turchese a strapiombo si fa sempre più vivo, mi ritrovo a notare che anche la pubblicità dell’Ipercoop di Foggia, come già quella di Bari, presenta un’inedita banda tricolore sotto il logo. E ben presto un’ipotesi perversa si fa strada: magari, visto che qualcuno continua a percepirlo come un supermercato comunista – bell’ossimoro – i capoccioni del marketing hanno pensato di tranquillizzare i clienti moderati sul proprio patriottismo. Di qui i colori della bandiera sbattuti in bella e inutile mostra. Un’ipotesi talmente paranoica che sta quasi in piedi.

A Pugnochiuso, dopo una breve discesa tra pini, cartocci di vino, bottigliette, un camper trevigiano messo strategicamente in modo da far passare solo chi arriva in elicottero, ritrovo Cala La Pergola, meraviglioso anfiteatro di roccia che il Serra descrisse assediato da genovesi urlanti, romani vocianti, locali bercianti. La conformazione naturale aiuta a diffondere i rumori umani. Ma quali siano, non saprei dire. Mentre sono quasi a contatto con la piccola spiaggia – capienza al limite, circa 150 persone, solo una signora in costume nero intero galleggia a dieci metri dalla riva – il brusio viene squarciato dall’antifurto di una Citroen Zx nera targata Foggia. Ora: ma chi cazzo te la ruba una Citroen Zx di almeno quindici anni? Fatto sta che la sirena va avanti a intervalli regolari per mezz’ora e il proprietario non ritiene di farsi vivo. Risalendo sconfitto, mi convinco che in pochi e limitatissimi casi la giustizia sommaria non è poi ‘sta gran barbarie.

Superata Vieste, dove le case soffocano l’antica torre d’avvistamento in un abbraccio che solo l’abitudine e l’assuefazione possono rendere accettabile, proseguo la ricerca di una spiaggia appartata. Qualcuno però ha altri programmi per il mio futuro prossimo. Nella litania di campeggi, un’insegna si fa largo a gomitate: Camping Padre Pio. E’ il segno, forse, che per farsi un bagno in santa pace servirebbe un intervento divino. Ma anche, un favoloso pretesto per sterzare verso l’interno. E andare a verificare se davvero San Giovanni Rotondo è diventato quel tempio con troppi mercanti che ha scandalizzato persino intellettuali del calibro di Marcello Veneziani. E dico calibro (non ricordo chi cito, ma se la battuta è copiata chiedo comunque scusa a Luttazzi) perché trattasi di pistola.

Il primo dei molti miracoli di giornata è la pulizia del parco nazionale. I quaranta e passa chilometri di tornanti tra Vieste a San Giovanni riconciliano con la natura, che in Puglia – tutta, pure nel Salento più selvaggio – sembra una Miss mondo col corpo pieno di cicatrici. Né si alzano, almeno in concomitanza col mio passaggio, i pennacchi di fumo bianco che ho incontrato a ripetizione da Napoli a qui. Per puro divertimento, mi sono pure preso la briga di segnalare gli incendi a uno qualunque dei circa 170 numeri centralizzati – 115, 1515, 113, 112 – e ogni volta mi hanno risposto che già sapevano. Anche in Calabria, verso Cutro, dove l’incendio già lambiva la carreggiata e non si vedeva traccia d’intervento umano. Sono sempre più convinto (stavolta cito Benni, e me lo ricordo pure) di appartenere alla schiera degli “omini con vocina”: credibilità fonetica zero.

Sul depliant dell’albergo di San Giovanni, il secondo evento che la mente umana non può spiegare: perché, se si trova a circa tre chilometri dal santuario, sostiene di essere a 900 metri? Probabilmente perché conta sulla levitazione naturale, che permetterebbe al pellegrino di raggiungere il luogo di preghiera percorrendo in volo la linea d’aria. Nella hall, i primi gadget smontano la tesi di Veneziani: nulla che non sia strettamente correlato al culto. Come non considerare tale il pianoforte a coda in miniatura con sopra il volto di Padre Pio? E il padre Pio meteo, che scandisce il tempo della preghiera cambiando colore? Per non parlare del portachiavi etnico con Padre Pio ricamato sulla suola di un sandalo di cuoio, del bavaglino Padre Pio, della boule de neige di Padre Pio, dell’accendino padre Pio in finta radica, e naturalmente del servizio da té per bambole con sopra il volto del santo di Pietrelcina.

Uscendo, la sensazione di estremo rigore si rafforza. Mentre percorro a piedi quelli che credo essere 900 metri, realizzo che il Giubileo del 2000 ha permesso di combinare fede e accoglienza con esiti commoventi. Se prima il pellegrino era costretto a dormire in ripari di fortuna, ora può scegliere tra centinaia alberghi di ogni ordine e categoria. Tra cui il “Centro spirituale Padre Pio”, che non ha ritenuto di chiamarsi hotel per non indurre il visitante a un facile riposo dello spirto.

Quanto al cibo, il proliferare dei buttadentro (otto in un quarto d’ora: si mangia con meno di dieci euro) testimonia un fervore laborioso e diffuso. C’è pure un Mc Donald’s, che finora al sud avevo trovato solo all’interno di grandi strutture commerciali. Qui, invece…

Salendo, sotto il sole sempre meno clemente, una manina mi distoglie dalla traiettoria del Trenino del Pellegrino. Mi avesse centrato, avrei potuto comunque contare sul rinnovatissimo Pronto Soccorso, il cui ingresso è proprio davanti alla basilica e nel mezzo di un traffico rigoglioso. Geniale.

Percorsa un’avveniristica passatoia, sorta di aeroporto del credente in attesa che l’anima si libri in volo, eccomi nella spianata dei parcheggi. Qui, fino a cinque anni fa, l’accesso al Parco del Gargano si innalzava inutilmente intonso, con le sue ovvie conifere. Oggi lo impreziosisce un delizioso silos multipiano e, ai suoi piedi, una fila di bancarelle. Su cui la modernità di culto si dipana per arditi accostamenti: le icone di padre Pio, declinate in ogni oggetto e forma, fianco a fianco col wrestler John Cena, con le magliette di Bart Simpson, con i polsini istoriati dal simbolo della marijuana, con la maglia di Gullo, quello del reality show “Campioni”. C’è anche una pistola ad aria compressa.

Il miscredente che è in me affronta una negoziante, nascosta da alcuni Padre Pio in vetroresina pubblicizzati anche su Gente. Come da ritaglio esposto. Il più costoso esce a 550 euro. Le chiedo quale articolo va di più. Giustamente mi fulmina: “Che domanda idiota. La fede è un dono, i percorsi che segue sono personali, e spesso silenziosi. Dio quando arriva non si annuncia”. Mi scuso, anche perché l’ultima affermazione suona vagamente minacciosa. Poi abbozzo: “Cosa è cambiato dopo il Giubileo?”. Risponde: “E’ cambiato che l’amministrazione ha concesso licenze all’impazzata e qui non si vende più niente. Il pellegrino va dal venditore poco professionale e si busca la fregatura. E’ un’abbuffata, invece il piattino va messo con le mani”. Poi mi guarda fisso e ripete: “Dio quando arriva non si annuncia”. Sbaglierò, ma mi sembra che voglia annunciarmelo lei.

E’ il momento di scendere e di entrare nel santuario. Conosco la cripta: periodicamente la guardo via satellite su Tele Padre Pio, di notte. E’ un’inquadratura fissa, ovviamente. Ma chissà perché mi sento di preferirla ai programmi di Gabriele La Porta. Fuori, nel piazzale, almeno un migliaio di persone. Di ogni estrazione, con ogni vestito. Anche quelli da mare: magari sono passati a fare un salutino prima di tornare a casa, ché porta bene. Sotto, a pregare, saranno sì e no una quarantina. In ginocchio, disposti ai quattro lati del cubo di marmo. Un cartello ammonisce a non lanciare denaro, la tomba ne è piena. Anche banconote da 500 euro. Adagiate su foto di persone, ex voto. Un fluire di speranze difficile da arginare e da codificare per chi nel cuore non porti altrettanta luce, o disperazione. Tling, cadono altri due euro.

Uscendo, entro nella prima pizzeria che non mi ha consegnato bigliettini. E’ presa d’assalto. Una ragazza visibilmente non italiana è sopraffatta dalle ordinazioni. Sbuffa, allarga le braccia, si rivolge fuori controllo alla padrona del locale. Avrà vent’anni, un grembiule blu, una bustina dello stesso colore. Dopo essere stato servito per ultimo, quando la folla è sciamata, scopro che di anni ne ha 23. E’ romena, di Brasov. Transilvania. Ha una figlia di tre anni, che non vede da gennaio. Prende 300 euro al mese. Anzi prenderebbe. Non la pagano da maggio. Ma non ha i soldi per tornare a casa, e qui almeno le danno da dormire e da mangiare. Le fanno la carità, insomma.

Risalendo in macchina, resisto alla tentazione laica, o laicista di invocare l’ennesima intercessione divina, stavolta per Agneta e per la sua bimba e contro la megera che sta sotto la cassa, naturalmente ai piedi di un’icona del santo. Esco. E annoto l’ultima insegna che lo merita: “Prefabbricati Padre Pio”. Intanto, sulla radio dedicata al santo, il cantante neomelodico Mimmo Nardo sta invitando gli ascoltatori a una serata per il Chad “a cui forse viene pure Giletti”.

Poi, la voce dello speaker: “Adesso vi facciamo vedere alcune foto”.

Miracolo.

 

Ho visto anche Zingaretti felici: una lettera di Emanuele Lanfranchi sul caso Report

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zingabbaA proposito delle mie considerazioni sul cosiddetto metodo Report, ricevo su Facebook e volentieri ripubblico

di Emanuele Lanfranchi*

Caro Luca mi permetto di intervenire e di invadere il tuo spazio. Ma penso sia giusto, per completezza di informazioni, fare qualche precisazione. Prima di tutto però voglio ribadire per l’ennesima volta che mai mi sono lamentato per le domande del giornalista o del fatto che non ha seguito la traccia concordata. Come dico nella registrazione ne ero consapevole e mi stava bene così.

Col giornalista semmai mi lamento di altre cose: l’aver tagliato il resto dell’intervista, la tesi precostituita e, ma questo solo dopo la messa in onda del servizio, l’assenza totale di verifica delle fonti.

Per quanto riguarda il taglio dell’intervista: mettiamola così, se tu mi chiedi una intervista sui risparmi regionali io non pretendo (senti registrazione) un panegirico su quanto siamo bravi e compagnia bella. Mi aspetto anche le cosiddette domande “scomode”, ci sta, è il ruolo del giornalista che lo impone. Come impone però anche una correttezza nella messa in onda del servizio, in cui si racconta anche quanto di buono è stato fatto, oltretutto in questo caso argomento strettamente connesso all’oggetto dell’inchiesta (è stata tagliata la frase in cui Zingaretti sosteneva che anche grazie ai 63 dirigenti esterni si è risparmiato 1 miliardo di euro).

La tesi precostituita era lampante fin dal trailer: in Regione si fanno i bandi di gara finti. Questo è l’assioma di partenza raccontato così bene dalla Bernardeschi (ex dirigente regionale ehhh) a cui Mottola chiaramente non chiede prove di quanto afferma (Mottola:
ma quanti nomi ha indovinato; Bernardeschi: tutti. Io: e dove sta scritto? Come lo dimostri? Quanti candidati c’erano a questi bandi?). Anche nel caso successivo della fantomatica dirigente oscurata in volto che accusa brogli nei concorsi. Ma io come faccio a sapere se è davvero una dirigente? Ma soprattutto Zingaretti avrebbe dovuto avere la possibilità di spiegare il fatto, chiarire cosa era successo. Invece non solo questa possibilità Mottola la esclude serenamente ma, anche in questo caso a sostegno della tesi della signora non c’è alcuna vera prova.

Quindi questo pippone solo per dire che nessuno vuole il giornalista docile o servizievole, ma neanche, permettimi, il giornalista che ha come unico intento quello di fregarti o di sputtanarti. Sarò romantico ma vorrei un cronista severo e puntuale, duro e autorevole, obiettivo e giusto.


Ah per quanto riguarda la telefonata ammetto che anche a me non è piaciuto registrare all’insaputa, per questo prima di pubblicare, per questo a differenza di quanto fa Report, ho avvertito il collega che mi ha dato il suo benestare. Un saluto.

* Capo Ufficio Stampa di Nicola Zingaretti alla Regione Lazio

Caro Emanuele, grazie per la lettera e per le precisazioni di merito in essa contenute. Come avrai notato, però, io ho cercato di trarre dalla vostra vicenda una piccola analisi di sistema, tutt’altro che estremista. La riassumo: trovo che nessuno, nemmeno con le migliori intenzioni, possa decidere cosa un cronista deve inserire in un pezzo. Come ho scritto e ripeto (anche perché si veniva dall’invasione delle cavallette) non dubito affatto che ci siano mirabilie della Giunta Zingaretti da raccontare. Ma temo non sia compito di chi fa giornalismo d’inchiesta. Quanto alla tua obiezione sulle imprecisioni che il servizio conterrebbe, le chiacchiere stanno abbastanza a zero: o quei bandi erano truccati, o no. Se non lo sono, è diffamazione. E allora, forse, invece di precisare fareste bene a querelare e, intanto, a richiedere una precisazione ai sensi della legge sulla stampa. Se sì, al di là dei modi usati, c’è invece la possibilità che, come nel caso della Mafia romana, il gigantesco ingranaggio della Regione Lazio contenga quantomeno impurità che vi sono sfuggite, vi converrebbe dare un’occhiata quanto prima. Infine, due cose: 1) Provocando il tuo interlocutore, durante quella registrazione, ne hai assunto i comportamenti: bisogna perciò decidere se tu sia stato un buon cronista pro domo veritate o sia stato furbetto come chi accusi; 2) quando qualcuno ha scritto di vicende che conoscevo bene, o mi è capitato di dare interviste, ho sempre riscontrato forzature e imprecisioni, che ho persino dovuto rettificare, ovviamente con tre righe pubblicate nella posta a pagina 2028. Ciononostante temo che l’unico modo per dare decoro al mestiere sia applicare il proprio punto di vista, badando se possibile che sia un punto di vista preparato e perbene. Naturalmente, visto il dibattito che questa storia tra suscitando – dibattito che tra l’altro ritengo utilissimo – è la mia opinione. Ti auguro buon lavoro. Grazie.

Il metodo Report: due o tre cose spiegate male

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La vicenda è nota: Report chiede un’intervista al presidente della Regione Lazio, Zingaretti, e poi la inserisce in puntata tagliando solo la parte che riguarda recenti e poco commendevoli fatti di cronaca.

Il capoufficio stampa di Zingaretti chiama stizzito il cronista e gli rimprovera di:

1) Non aver seguito le domande concordate;

2) Aver estrapolato solo una parte;

3) Non aver dato le notizie buone – ce ne sono – che riguardano l’operato di Zingaretti.

Poi registra il tutto e lo mette online, con l’obiettivo di “smascherare” il cosiddetto metodo Report.

Orbene: anche a me, da semplice spettatore, ci sono cose di Report che non piacciono. Ogni tanto, ma è un problema mio, mi provoca la cosiddetta “Sindrome di Mi Manda Raitre”, quella che mi assaliva quando un tizio andava a lamentarsi di non aver vinto al Totocalcio acquistano santini profumati su una chat line. Dopo tre minuti cominciavo a urlare verso il video: “Te lo meriti, coglione. La prossima volta sta’ più attento. E spero ti tolgano il diritto di voto”. Poi mi portavano via.

Ed è anche vero, accusa che l’agit prop di Zingaretti muove alla Gabanelli, che a volte le inchieste sembrano partire da un assunto da dimostrare. E questo le rende un filo meno credibili.

Inoltre, cazzo, nel 2014, prima di riprendere dovete “fare il bianco” e mandare in onda interviste a fuoco.

Però.

Però prendiamo le tre accuse punto per punto e diamo loro una risposta chiara.

1) E allora?

2) E allora?

3) E allora?

Fare domande non concordate, estrapolare la parte che si tiene più rilevante, lasciare le realtà edificanti a chi deve comunicarle per mestiere (gli uffici stampa, non i programmi di inchiesta) è proprio della professione giornalistica.

Deontologia impone che si segua l’onestà intellettuale nel dare le notizie, che le si propongano al pubblico in modo trasparente, che ne si stabilisca la rilevanza su criteri di oggettività e di impatto sociale. E Report lo fa nel 99 per cento dei casi.

Altrimenti, per citare Piero Fassino, la Regione Lazio si fa una tv sua in cui ci racconta le meraviglie (ce ne sono) di Zingaretti e vediamo quanti ascoltatori prende.

Il problema di questa ansia delle disintermediazione, di questo schifo per la stampa, di questa diffusa antipatia per chi svolge con coscienza il proprio lavoro, è che le notizie vanno bene solo quando toccano gli altri. Che il “sensazionalismo” – Grillo insegna, e proprio sulla Gabanelli: da eroina a reietta – viene accettato solo se colpisce gli avversari. Che il giornalista dev’essere cane da guardia per chi ci sta sui coglioni e cane da compagnia per noi.

Sennò il Pd di Roma, quando Report scoperchiò la mafia capitale con largo anticipo – insieme a Lirio Abbate de l’Espresso – si sarebbe mosso di conseguenza, senza aspettare le sirene dei carabinieri. Invece derubricò il tutto a rottura di palle che si sarebbe presto quietata. Come accadde.

Per questo, con tutto l’affetto per Zingaretti che mi piace molto già dai tempi di Ferie d’Agosto*, trovo che il metodo Report sia preferibile al metodo smaschera Report. Anche perché se c’è una cosa che mi urta del programma di Raitre è l’abuso dei fuorionda. Lo capisco se hai l’esclusiva di chi è stato a Ustica. Meno se serve a sbugiardare un assessorino, magari già mascariato a sufficienza con le telecamere spianate.

Però è esattamente lo stesso metodo che ha usato chi Report voleva sbugiardarlo. Perché siamo tutti adamantini coi fuorionda degli altri.

Ma di come la mancanza di senso dell’opportunità abbia ucciso questo Paese tratteremo la prossima volta.

A presto.

* Nota per il senatore Giovanardi: è una battuta

 

Una moderata considerazione a beneficio del cittadino Di Battista

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fn m5sCome ho già scritto, mi preme ringraziare il cittadino Di Battista perché mi ha aiutato a schiarirmi le idee.

Ieri sera da Mentana diceva cose sulla corruzione (alcune) che, benché espresse in un italiano da social network e con un tono di voce altissimo, collimavano in gran parte con quel che penso io e molta gente come me: la legalità come valore, la necessità di riformare la politica debellando i comitati d’affari, eccetera. Come molti pentastellati, Dibba credeva di avere l’esclusiva dell’indignazione. E come quasi tutti i pentastellati, pensava che questi tizi (politici, banditi, ma soprattutto il mondo di mezzo che chiudeva gli occhi) arrivassero da Marte. Che non fossero stati votati, scelti, favoriti da un Paese profondamente colluso, marcio nelle viscere, composto per una parte importante da persone, cittadini appunto, che a furia di girare la testa dall’altra parte hanno una trottola montata sul collo.

Ma questo è un problema parcellare.

Lasciamo stare il contesto. Lasciamo stare che non avesse alcun progetto concreto con cui rispondere alle domande di Mentana, a parte richiedere la presidenza della commissione trasparenza del Comune, perché così poi garantiva lui. Al netto di tutto, Dibba lanciava un messaggio condivisibile: moralità, onestà, appunto trasparenza.

Eppure. Eppure mi suonava irricevibile. E me ne dispiacevo. Mi sentivo vittima di un pregiudizio. Perché non mi convinceva?

Stamane ho letto che prima di quella diretta Di Battista era stato in Campidoglio. Aveva berciato (e vabbé, si presupporrebbe che gli eletti portino avanti la battaglia politica altrimenti, ma questo è un vulnus insanabile: stanno dentro al Palazzo e credono di essere fuori) insieme ad altri manifestanti. In modo comunque legittimo. Solo che l’aveva fatto insieme a quelli di Forza Nuova. E alla domanda su come si sentisse coi fascisti a fianco, uniti nei cori, aveva risposto: “Mica glielo posso impedire”.

In quella frase di Di Battista ci sono i fondamenti del mio pregiudizio nei suoi confronti:

1) per me l’antifascismo è un valore non negoziabile e quindi, manco per un breve tragitto tattico, mai unirò il mio cammino a quello di chi non sa e non riesce a professarlo con chiarezza.

2) se sei così tonto da andare a manifestare insieme ai fascisti contro una piovra malavitosa comandata dai fascisti, significa che al posto del cervello hai un milkshake alla vaniglia.

Ciononostante, madido della della rassegnazione con cui vedo lui, gli altri quattro del direttorio, il tizio che li comanda, l’altro tizio che adesso beve i caffè a Genova ma ha prima creato un sogno e poi l’ha ricoperto di velleitarismo, disprezzo per la democrazia, consegnandolo alla situazione attuale, mi permetto di dare a Di Battista un piccolo consiglio:

di tattica e di presunzione si muore.

In due anni avete vissuto pensando sempre ai 10 secondi successivi, imbarcando chiunque per il consenso spicciolo, senza costruire – mi si perdonerà il francesismo – un cazzo di nulla di niente. E’ il vostro limite più grande. Al quale mi preme aggiungerne un altro: questa pretesa di rappresentare il nuovo, l’intangibile, il puro, vi rende invotabili da una gran parte del Paese. E vi porta allo schianto.

Serve un disegnino? Lo farò. Gli ultimi ad aver seppellito le ideologie, a pensare che con la destra corrotta si potesse percorrere un tratto di strada a scopo strumentale, sia per scriverci la Costituzione davanti a tutti, sia per decidere gli appalti in camera charitatis, sono i vostri avversari più acerrimi, quelli senza i quali ormai manco riuscireste più a definirvi.

Per ora, l’abdicazione del Pd ai propri valori fondanti sta nelle carte della Procura di Roma. In futuro potremmo ritrovarla nei libri di Storia, senza che il Movimento ne abbia minimamente impensierito la deriva.

Quindi la brutta notizia per il cittadino Di Battista è questa: in quanto ad abuso di tattica e presunzione di intangibilità, siete tali e quali al Partito Democratico.

Uno vale l’altro.

Ciao.