Che poi siamo fondamentalmente sangue ed emozioni.
E quanto è accaduto in Francia all’inizio del mese ha coinvolto entrambi, in egual misura.
E ognuno di noi, alla ricerca di una qualche certezza che ci rassicurasse, è andato a cercare un filo che riannodasse i tessuti del cuore recisi.
Qualcuno l’ha trovato leggendo Oriana Fallaci. Qualcuno rivedendosi il clamoroso sketch di Corrado Guzzanti sul G8 del 2001 (quello dove un telefonista invasato si lamentava che Fall’Aci, ma a lui l’Aci l’aveva lasciato a piedi), qualcuno ha cercato sullo scaffale, o sulla rete, un suono che scavasse un tunnel oltre le Alpi.
Che poi chissà se è vero che un francese è un italiano triste.
Però nelle piazze e nelle strade per una volta avevamo le stesse espressioni, le stesse facce smarrite. La stessa voglia – qualcuno in buonafede, altri meno – di difendere la libertà, la satira, la cultura.
Questa è una pagina musicale. E di cultura musicale con la Francia ne abbiamo scambiata parecchia. Un tempo importavamo parecchio (da Brassens a Lio, passando per Johhny Halliday e l’Aznavour del Rosso Antico), poi abbiamo cominciato a esportare tanto. Una certa idea dell’Italia che somigliava molto a un’altra idea: quella che noi abbiamo della Francia. E allora Paolo Conte. E allora Gianmaria Testa. E allora l’Oliympia. Merci. De rien. Au revoir.
Nel frattempo la nostra idea di musica francese semplicemente non esiste più. L’ultimo tentativo di mainstream fu, ormai una quindicina d’anni fa, Damien Saez. E in questi giorni confusi la sua storia, i suoi dischi, possono diventare una colonna sonora interessante.
A partire da Jeune et con. Il brano che gli diede la notorietà in patria e col quale si tentò di lanciarlo pure qui. Suoni indie, troppo per noi, quasi una sorta di grunge postdatato, e un testo che raccontava i giovani coglioni (è il titolo) della sua generazione. Una generazione meticcia. Confusa. Saez ha sangue misto spagnolo e algerino. Criticava il sistema (l’Occidente, il capitalismo, certo vuoto che li accompagnano nel tragitto dalla villetta all’Outlet) ma intanto pubblicava con le major. Sferzava (sferza) il suo Paese, ma era (è) intriso della sua storia.
Così ha fatto un percorso.
Oggi ha 37 anni. Dopo quel primo album ne ha scritti altri sette. Si è contaminato di generi e persone. Dai Noir Desir degli esordi (ma lui citava i Pink Floyd, i Led Zeppelin anche Miles Davis) si è arrivati a Miami, che – semplifico, molto – ha le sonorità dei Massive Attack mandati a sbattere contro i Subsonica. Il testo della title track racconta appunto Miami e i suoi fiumi di coca e di niente. Ma è una Miami che somiglia a Parigi. E somiglia a noi.
La copertina di quell’album, una bibbia che copre a malapena il fondoschiena di una modella, destò scandalo persino nella tollerante Francia. Ma l’album, del 2013, vendette bene. E Saez continua la sua parabola di giovane ribelle, anche adesso che giovane lo è meno, capace di gesti realmente estremi: molti suoi pezzi li pubblica gratis. Spesso prima delle elezioni. Ed è difficile immaginare qualcosa di più eversivo in un contesto nel quale ogni talento ha un codice a barre.
Perché parlare di lui, oggi?
Perché è figlio della Francia multietnica, come il tizio che la settimana scorsa sparava sulla satira. Anche quel tizio aveva cominciato con la musica, faceva il rapper. Il nostro mondo faceva abbastanza schifo a entrambi. Entrambi conoscevano la violenza, almeno verbale (ci sono pezzi di Saez gratuiti e violenti, come certe vignette del Charlie Hebdo).
Ma Saez è laico. Quindi figlio della Francia che l’ha generato, della sua storia. Capace di mediare culturalmente. E di mediare culture diverse. Quindi si può fare. Ed è lì che possiamo e dobbiamo andare. Con un filo di speranza nel cuore.
E le cuffie a palla.
(Uscito su Sette il 16 gennaio 2015)