Ieri ho fatto un salto a Viadana a salutare Renzo Finardi, il Kaimano del Po.
Non ero amico di Renzo, non in senso stretto. L’avevo conosciuto tramite Bengi, di cui era il fido batterista. E mi aveva colpito perché sembrava vivere in un altro mondo. E quel mondo era, di rimbalzo, il mio. Il fiume. Il grande fiume che i miei antenati mantovani guardavano con paura o speranza, e che per lui era vita e rifugio.
L’altro giorno, per celebrarlo, Daniele, mi scuserà se lo chiamo col nome all’anagrafe, ma quello che parlava ieri dal pulpito era Daniele, non Bengi, ha pubblicato un video del Kaimano che raccontava sé stesso, di quando andava a spargere il bitume sui tetti, prima, e di quando, poi, la sua passione con le bacchette era diventata un lavoro, gli aveva regalato la felicità, perché viveva di quel che amava, e l’aveva infine portato al soglio più alto: il successo coi Ridillo e la tournée insieme a Gianni Morandi. Che era lì anche lui. Perché Gianni è così.
Diceva, Renzo, che non erano tanto i soldi, la fama, la f**a – non lo diceva, ma credo lo pensasse – la vera svolta era che quando arrivava in teatro, per suonare, la batteria era già lì montata. E non gli sembrava vero che qualcuno l’avesse fatto per lui. Perché il frontman a fine concerto mette via la voce. Il bassista, il basso. Il trombettista… ci siamo capiti. Chi pesta sui tamburi, invece, di solito si mette a smontare ogni pezzetto. E intanto pensa. E medita, anche se magari le scuole non erano proprio il suo luogo di formazione. E diventa a suo modo un filosofo. Anzi, senza “a suo modo”.
Tempo fa mio nipote aveva guai proprio con la scuola. Un giorno fece a botte, rischiò la cacciata. Allora me lo caricai in auto e, senza apparente motivo, lo portai sul Po per prendere aria agli occhi. C’era il Re del Po, un tizio felliniano, anzi: zavattiniano, che prende il legno quando si spiaggia sulla riva e lo inchioda, ne fa percorsi sospesi. Li regala a chi vuole giocarci. Ogni tanto arriva qualche bullo, qualche ‘ndranghetista, e glieli brucia. Lui ricomincia.
E c’era Renzo. Che era lì da lui. E che insistette per portarci sull’altra sponda del Grande Fiume a vedere il suo capanno, a offrirci un bicchiere, a mostrarci come si era organizzato per ammirare quel posto della mente che non era solo della mente.
Ieri ho scoperto che mio nipote aveva rischiato di finire in acqua, perché il Kaimano faceva così, prendeva la progenie degli amici e la buttava in acqua. Una sorta di rito, tipo stare sul Gange, coi pesci siluro al posto delle mucche. Ma per fortuna del mio ragazzo, era inverno.
Quando gliel’ho detto, ieri, a mio nipote, che il Kaimano aveva smesso di suonare, ha sorriso mesto: “Me lo ricordo. Fantastico. Un pazzo”.
Un pazzo, un signor musicista, anche, un battutista efferato e dolcissimo, uno di noi: che abbiamo tanta di quella pianura negli occhi che quasi non dovremmo avere niente da sognare. Forse per quello saliamo sui tetti, bitume o no. Ma qualche volta abbiamo una forza che ci spinge giù per correre dietro alla felicità.
Finché si fa prendere.
Grazie Kaimano. Insegna agli angeli a nominare il nome di dio invano.