Studio 54

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Un anno fa mi facevo un regalo.

Meglio: mi ricordavo di essermi fatto un regalo del quale mi ero completamente scordato.

Giungeva infatti a destinazione una mail che avevo programmato qualche settimana prima esattamente per il giorno del mio compleanno: le dimissioni da Repubblica.

Ricordo ancora la telefonata di uno dei vicedirettori, apparentemente sgomento, che mi chiedeva ragione di quanto appena ricevuto. Ricordo di averci messo un po’, a realizzare di cosa parlasse. Ricordo di aver pensato, subito dopo, che ero più o meno senza lavoro ma che mi sentivo più leggero.

Poi il direttore mi avrebbe convocato a Roma, mi avrebbe detto cose, ne sarebbero successe altre. Nulla di terribile, in realtà. I rapporti fiduciari si basano appunto sulla confidenza tra chi li intrattiene. Se non c’è, è del tutto normale che si agisca di conseguenza. Su entrambi i fronti. Diciamo che ho detto, più o meno, “conosco la strada”. Senza rancore. Giuro.

Perché sono il classico tipo che a un certo punto si alza e se ne va. L’ho sempre fatto. Per una sorta di paura coraggiosa. Dai giornali, dai programmi tv, mai (e per fortuna) dagli affetti duraturi. Per questo ho moglie e figli sberluccicanti.

Normalmente me ne vado per accelerare derive già prese. Talvolta mi cacciano proprio. Ma se c’è una cosa che ho acquisito con l’età è l’accettazione delle conseguenze. Si perde sempre qualcosa, nello specifico un riquadro di libertà e, anche di popolarità. Ma si guadagna in consapevolezza.

Sei quello, sei tu, ti fai scudo con la scempiaggine scomposta per dire quel che pensi, dunque cagioni reazioni. Nel tuo piccolissimo. C’è gente che per scrivere quel che pensa, o che ha scoperto, viaggia sotto scorta. Come l’amico Carlo Verdelli, che fu cacciato nel giorno in cui gli scadeva la condanna a morte per il reato di antifascismo. Come Roberto Saviano, che risulta ad alcuni un “solito stronzo”, per citare Arbasino, solo perché in Italia i venerati maestri possono fare anche il giro inverso: ci stanno sui coglioni, quelli bravi e coraggiosi. Come Nello Scavo. Per tacere di altre grafomani che lavorano tre le bombe, i proiettili, il sangue altrui, come Barbara Schiavulli e le molte donne inviate di guerra che evidentemente possiedono un quid belluino di cui ignoro il motivo.

Ma che molto apprezzo. E invidio.

A fronte di tutto questo, qualche banda di troll organizzati sui social è quasi nulla. E dico quasi solo perché gli insulti e le minacce, non le critiche, qualche segno lo lasciano. È quasi nulla persino quando in parte riesce nel proprio disegno: far passare come un estremista inaffidabile, in certe stanze, la moderata e sarcastica indignazione di cui mi nutro. Che poi si traduce nella mancanza di carta su cui scrivere. E su un senso di vuoto, dacché tra le colonne di piombo ho cominciato e lì mi sento ancora protetto.

Oggi compio 54 anni e sono abbastanza felice. In questi anni è successo di tutto. Dolori profondi che ancora devo fronteggiare e che nulla hanno a che fare con la mia gioia di scrivere. Ma anche felicità enormi. E un’acquisizione piuttosto recente: una sorta di rassegnazione attiva, di allegra presa d’atto, per la quale devi sforzarti, almeno, di essere ciò che vuoi. Sapendo che potrai essere molto meno. E che i semi che proverai a gettare talvolta marciranno perché li hai sparsi troppo lontano, non li hai annaffiati abbastanza, o perché il letame su cui li lanci non è poi così fertile.

Ho 54 anni, un taccuino pieno di errori, di scuse porte talvolta in ritardo, un amore, un po’ di amici, estimatori inconsulti a cui dire grazie, cani sciolti come me che mi hanno sempre salvato dal sussidio di disoccupazione, qualcuno che ogni tanto mi ferma e mi ringrazia per avergli rallegrato le mattine, o per aver condiviso due o tre cose di buon senso che ci rinchiudono nel recinto dell’impopolarità. Come il libro che ho molto amato e che mi piace molto presentare: sono misantropo sui grandi numeri, mi piacciono le persone una ad una.

E poi c’è anche  un considerevole numero di persone a cui sto sui coglioni. A pieno titolo. Talvolta, con mia piena gratificazione. Certi nemici, molto onore. Sono e mi sento, per la prima volta da quando convivo con la mia adolescenza infinita, un signore di mezza età.

Per questo, anche per questo, mi saluto augurandomi il meglio, a me e a chi mi vuol bene, e prendo a prestito le parole di un grande intellettuale del Secolo Breve che ieri mi ispirò, oggi mi ispira:

“Ne ho in serbo altre fortissime”.

Di Rolex che non lo erano e regolamenti di conti: una riflessione

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Roman Pastore, candidato 21enne di Calenda, bullizzato dalla sinistra radical chic per un orologio – Il Tempo

Roman Pastore mentre presenta il suo slogan elettorele: “Amici ahrarara”

Funziona così. Un’utente Twitter né celebre né no esprime una valutazione sul giovane candidato di un partito “moderato”, ossia che l’importante orologio da lui indossato pubblicamente strida con le patenti di maleducazione sociale che la sua fazione attribuisce ai povery fruitori del reddito di cittadinanza.

Nulla di trascendentale. Una considerazione poco più che estetica che rileva una contraddizione in termini. Si può essere d’accordo oppure no. Io, per dire, non sono particolarmente d’accordo sul rapporto causa/effetto tra status sociale e messaggio politico, ma aprirei volentieri un dibattito pubblico sul senso dell’opportunità che il nostro ex centro ha smarrito da mo’, per sostituirlo con una spregiudicatezza ostentata assai.

L’utente in questione però è attenzionata. Fa parte suo malgrado di una squadra che squadra non è. Una lista di proscrizione che i “moderati” si passano nelle chat private ma spesso anche in pubblico, perché arrivino ancor più chiaramente a chi di dovere. Una lista di cui faccio parte pure io, pur avendo in passato discusso animatamente con la reproba, dalla quale mi dividono molte cose. Ma che non per questo disprezzo.

Siccome l’utente è un bersaglio, arriva la cavalleria. Prima viene circondata da una valanga di troll, secondo uno schema che ormai non ha neanche bisogno di essere scatenato dal leader (anzi: penso che il segretario del partito del giovane ne sia a suo modo inconsapevole) ma parte in automatico, innervato dagli intellettuali di complemento, le firme che smaniano un posto accanto alla gente che conta. Hai visto mai che arrivi la telefonata giusta. O anche l’aperitivo giusto nel posto giusto, dacché molto giornalismo politico è diventato uguale a quello sportivo: non critichi il barnum che ti dà il pane. E gli stuzzichini.

Infine appare la contraerei: l’irrilevante querelle sfonda sui media mainstream. Diventa tema centrale. Se ne parla, del tweet primigenio, come della prova che sui social esiste l’odio di classe. In Italia. Nel 2021. Si parla di sinistra “radical chic” (cioè elitaria) per deplorare la critica al presunto elitarismo altrui, in un cortocircuito curioso ma non infrequente. Gli stessi che davano dei brigatisti a chi non gradiva un estimatore di Pino Rauti all’archivio di Stato, o energumeni da social a gestire il Pnrr, naturalmente nel nome della libertà di espressione, ora chiedono un procedimento contro l’utente da parte dell’Ordine di cui fa parte. In ultimo, si inseriscono le parole “figlio di papà” nel dibattito e le si collegano alla prematura scomparsa del padre del giovane, in modo da attribuire alla nemica anche il vilipendio di salma.

E il cerchio si chiude: bolle virtuali che si nutrono solo dell’indicazione del nemico, spesso immaginario, gente che dalle peggiori Destre ha mutuato la diversione del dissenso su chi si ritiene in qualche modo ostile solo perché vagheggia flebili distinguo, attacca un tweet attribuendogli la bile di cui si pasce ogni giorno. E scatena insulti, minacce, il solito teatrino.

Non credo, non penso, che i giornali siano coscienti del gioco in malafede a cui si prestano. Mi limito però a rilevare lo sbilanciamento tra chi non ha rappresentanza, ed esprime le proprie opinioni giuste o sbagliate, in una manciata di caratteri, e di chi appoggia la propria narrazione intossicante su chi, dandole spazio e ufficialità, la legittima.

Non è un caso solo italiano, quello dei partiti che annichiliscono il dissenso giovandosi delle loro consuetudini coi media ufficiali.

Da qui a dire che sia qualcosa di civile, addirittura di democratico, però, ce ne corre.