Di popoli buoi, gufi e rosiconi: un’analisi banale

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Ma quindi il Paese è di destra?

Pensa te.

E il popolo è brutto e cattivo perché non vota come pare a noi?

Forte questa. E nuova, soprattutto.

E allora emigriamo perché… vabbè, dai, bella battuta ma la diciamo da vent’anni.

Dice: dove vuoi andare a parare.

Ma figurati se lo so. Mica sono un raffinato analista politico.

So solo che da quando c’è l’erotomane di Arcore in campo, laggente diventa buona se lo sfancula e troglodita quando lo sceglie. O sceglie i suoi epigoni. Perché Di Maio è la prosecuzione di Silvio con altri mezzi, solo che l’altro per diventare Fanfani almeno ci ha messo vent’anni. Questo si è comprato un gessato da Oviesse et voilà: ecco l’uomo di Stato.

Poi, appunto, io non capisco niente. Porterei allo zero per cento anche il cioccolato al latte. Però, al netto delle ideologie e della categorie Ottocentesche (cit. Di Battista che si riferiva ai partiti del Novecento, ma vabbé) ne farei una bieca questione di concorrenza e regole di mercato.

Partiamo dalle priorità di governo: le tasse da abbassare, per dirne una. Le regalie a pioggia, tipo gli 80 euro. La riformulazione del mercato del lavoro a totale vantaggio degli imprenditori. Scelte giuste? Sbagliate? Non saprei dire. Di certo risultano più credibili in bocca a un qualunque leader di centrodestra, Giggino compreso, che non a Renzi.

Risultato: votano l’originale.

La comunicazione, poi: gufi, rosiconi, battutacce, provocazioni, utilizzo spregiudicato dei social. Magari pagano. Ma cercare di insegnare come funziona Twitter alla Casaleggio e associati può risultare perdente.

Com’è risultato.

La forma partito, infine: personalizzare il Pd appiattendolo su una sola figura, peccare di leaderismo, mandare a cene eleganti la tradizione di mediazione vagamente progressista della sinistra italiana per una copertina di Chi in più. Bella idea, ma ci avevano pensato prima gli altri.

E l’hanno interpretata meglio.

Ora: io posso sbagliare. E sbaglio spessissimo. Ma ‘ste cose, da rozzo osservatore quale sono, le dicevo da tempo. Se vendete la stessa roba della strada accanto, la gente va dal pusher di cui si fida. O ne prova uno nuovo, per vedere l’effetto che fa, che almeno suona sovrapponibile con quello che dice.

L’altro giorno mia madre mi diceva di voler votare “il partito” e non ho avuto cuore di dirle che non c’è più. Né il Pd, né quella parodia di buonissime intenzioni che Leu (D’Alema, cristosanto: D’Alema) ha messo in campo per combattere una guerra ormai perduta.

Così, invece di prendere anche i voti di quelli che a noi fanno così schifo, le varie sinistre hanno perso anche i propri.

Che ormai pensavano di fare schifo a lei, alla (cosiddetta) Sinistra.

Poi sarà anche vero che ormai viviamo in una bolla informativa intossicata dai social per cui ci circondiamo di chi ci dà ragione e vellica le nostre paure. Ma per uscire da quella bolla, in questa traversata del deserto, quel campo vagamente progressista dovrebbe restituire dignità a una parola che ha dimenticato: verità.

Ci aveva provato Gentiloni, che infatti è stato tenuto in naftalina mentre al proscenio arrivava il solito attor giovane non più giovane. Fosse stato lui, il front man, con Renzi chiuso nella Coop di Rignano a fare shopping per almeno tre mesi, il tracollo sarebbe forse stato meno fragoroso.

Dirò una cosa impopolare: persino essersi bruciati Renzi in questo modo, è a suo modo un disastro.

Ma chiunque venga dopo dovrebbe perseguire il bene raro dell’impopolarità. Dire a chiare lettere che i migranti non sono bande di stragisti, che il modo migliore di attrarre imprese in Italia è strappare il controllo del territorio alla mafia (non ne ha parlato nessuno, in campagna elettorale: nessuno) e che le tasse si abbassano contestualmente a un regime sovietico sulla necessità di incassarle. Perché non puoi lamentarti dei 2 centesimi che spendi per i sacchetti se il tuo vicino di casa ti ruba le strade, la sanità, le scuole.

Trattare i cittadini da adulti, ecco.

Lo fece Romano Prodi e vinse due volte.

Poi arrivò il suo carnefice, il deputato di Gallipoli, che ieri è riuscito in un’impresa siderale: perdere lui e far perdere anche Renzi.

Si riparte da qui. Se si riparte.

Hasta la Victoria, forse.

Come Matteo Renzi avrebbe dovuto commentare Rimborsopoli se avesse imparato qualcosa dalla Dc

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di Matteo Renzi*

 

Il cosiddetto caso “rimborsopoli” che sta investendo il MoVimento Cinque Stelle va affrontato con la lucidità che quasi mai Grillo e i suoi collaboratori hanno dimostrato nei nostri confronti.

Vedere Di Maio che parla di “mele marce” ricorda, è vero, il Craxi che definì Mario Chiesa un mariuolo. Ma comprendo perfettamente lo sgomento del capo pentastellato nello scoprire che persino tra i suoi esistono, al netto di un corpo che immagino sano, torsioni e storture tipiche di un partito quando arriva a contare milioni di sostenitori e centinaia di deputati.

Penso sia sincero.

Per questo non ci uniremo al linciaggio di chi gongola vedendo gli “onesti” in difficoltà. Il MoVimento Cinque Stelle ci è avversario in tutto, ma ben conosciamo i danni che la cultura del sospetto ha fatto alla politica di questo Paese. Che deve essere trasparente, non solo sembrarla, senza cadere nel populismo.

Quando Alessandro Di Battista dice “non è vero che sono tutti uguali” ha perfettamente ragione. È ciò che noi del Pd, che il senso dello Stato lo abbiamo nelle radici, diciamo da sempre. Per questo chi si proclama più uguale degli altri sbaglia, per questo “rimborsopoli” è verosimilmente una prova di maturità che la democrazia impone a chi sa accettarne le regole.

Per inciso, è la stessa “restituzione” l’errore fondante: intanto perché versarla alle piccole e medie imprese configura una sorta di “clientelismo buono”. Poi perché lo stipendio di un deputato, eliminando le storture che il nostro Matteo Richetti ha provato ad affrontare purtroppo con relativo successo, è una garanzia di indipendenza rispetto alla corruzione e alle pressioni delle lobby. Fermo restando che se un politico ruba, deve essere perseguito per primo.

Concludendo, auguro ai Cinque Stelle che la corsa elettorale non sia toccata da questa storia, e a me stesso di ritrovarmi nel dopo-voto (che si annuncia non facile) ad avversarci duramente ma lealmente con una sola stella polare: il bene degli italiani.

Tutti.

*Testo raccolto da Luca Bottura della “Amintore Fanfani School of Political Speeches” di Borgo Panigale

Di come non ho passato l’esame di antifascismo (e di come aiutare i nostalgici del pelato, spero involontariamente)

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Ho passato i cinquant’anni ma resto un ragazzo semplice.

Poche idee, sempre quelle. Ad esempio, anche per ragioni familiari, mi stanno molto sui coglioni i fascisti, i razzisti, gli intolleranti. Ho paura di un loro ritorno al potere, magari in una qualche forma transgenica, anche se i tizi di Forza Nuova, Casa Pound e compagnia berciante manco hanno deciso di discostarsi dal modello originale.

C’è un’arietta autoritaria diffusa e terrificante. Che un legaiolo nazista spari su nigeriani innocenti, e che invece dell’ondata xenofoba si discuta del pericolo di averle qua, le vittime, mi pare surreale. Specie se a farlo è la sinistra democratica. Non potrei definirmi comunista, quando me lo dicono sorrido. Ma se aggiungono “italiano”, diciamo che ci prendono. Breznev no, per capirci. Berlinguer di corsa.

Non che io abbia tutto ‘sto seguito, ma diciamo – per citare credo Alberto Tomba – che chi mi conosce un po’ lo sa.

Dopo i fatti di Macerata, e dopo la decisione di Anpi, Cgil ed altri di disertare la manifestazione in programma sabato scorso, ho scritto un pezzetto, proprio qui, piuttosto difficile da fraintendere: si stava perdendo una grande occasione. Per fortuna qualcuno ha raccolto la bandiera antifascista, l’ha tenuta alta e ben visibile, la città è stata invasa pacificamente, e la folla composta ha dimostrato come ci si possa unire e fortificare nel nome di un ideale non negoziabile.

Anche se a qualcuno, tipo Minniti e il Pd, non pare il momento.

È il momento. Sarà sempre il momento.

A un certo punto, ieri, si è diffusa la notizia che un drappello di idioti aveva intonato cori a favore delle foibe. Una minoranza. Sparuta. L’ho letto. Ho scritto una cosa banale (scrivo spesso cose banali) e cioè che erano sontuose teste di cazzo. In precedenza, mi ero anche permesso di rilevare che la bandiera no-Tav in quel contesto non c’entrava una mazza. Qualcuno mi aveva scritto che la Tav (o il Tav, vedete voi) è fascista. Avevo risposto che il filobus invece è del Psdi. Sembrava finita lì.

Oggi però un drappello social è venuto a farmi l’esame di antifascismo. E pare che io non l’abbia superato. Si sono convinti che commentassi la notizia sulla meravigliosa (autocit.) manifestazione di Macerata per strumentalizzarla. Senza capire che stavo facendo l’esatto contrario: volevo discostare tutti noi antifascisti da quel piccolo covo di neuroni spariti, temendo la strumentalizzazione che ne avrebbero fatto i trombettieri nostalgici dell’orbace.

Non è andata bene. Qualcuno mi ha rimproverato di aver preferito Sanremo a Macerata e vabbè, ci sarei appunto andato volentieri – a Macerata, a Sanremo ho già dato – ma proprio non potevo. Ho incassato. Altri mi hanno spiegato che volevo sporcare la manifestazione (definendola meravigliosa: certo). Altri ancora hanno letto il mio pezzo dell’altro giorno al contrario, e invece di rilevare messaggi satanici si sono convinti che nel mio intimo, pur senza esplicitarlo, tifassi perché a Macerata fosse un flop.

Siccome ho appunto cinquant’anni, mi ricordo bene Genova. E mi ricordo che i black bloc, lasciati liberi di sfasciare, vennero usati per distruggere per sempre il movimento No Global italiano. Mentre alla Diaz e dintorni venivano massacrati gli inermi. Ciò che temevo era che qualche furbastro dirottasse Macerata per spezzare le gambe alla battaglia antifascista. Per fortuna (e per la forza di chi è sceso in piazza) non è successo.

Poi naturalmente io posso sbagliare, ma la sintesi di questo pippone è piuttosto semplice: se vediamo complotti anche tra chi la pensa come noi (eccazzo: documentatevi un po’ su chi state contestando, mi pare che persino Martufello sostenesse di come il mezzo sia il messaggio) faremo il gioco di quelli che diciamo di voler combattere. E lasceremo liberi i nostalgici del crapone.

Se poi qualcuno davvero è contento che gli innocenti siano stati infoibati, anche se come rappresaglia per le porcate fasciste in Jugoslavia, quello è un problema suo. Ma diventa un problema mio quando qualcuno lo userà per rendere meno forte una battaglia che invece dovremmo fare insieme. Senza rompere i coglioni a quello di fianco, contandoci sempre più spesso, e cercando di guardare avanti.

Possibilmente con la coscienza pulita di essere indignati, sinceramente, anche per i civili “degli altri”.

W la Resistenza. Sempre.

Ciao.

 

Ps (aggiornamento) A me il mio testo sembrava chiaro da subito: una robina di civiltà, per contarci tra noi, ribadendo che della folla di Macerata dobbiamo essere fieri. Poi siccome abbiamo dei genialoidi che negano la notizia e mi assaltano urlando al complotto giornalistico, chiedendo “le prove!”, allora ecco le prove.  Un coro si sente a 1:42:20 ed è un frammento di due ore bellissime che solo alcuni ultrà in loco e da tastiera si ostinano a sporcare difendendo l’indifendibile. Se vi capita, vedetelo tutto. E speriamo di trovarci uno a fianco all’altro, se servirà, sperando che non serva.

Un modesto suggerimento di marketing per l’ex presidente del consiglio, Matteo Renzi

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Richiesto di tradurre questo tweet di Matteo Renzi, il più potente calcolatore del Mit di Boston è esploso.

Analoga reazione per le mie sinapsi, tanto che mi ero limitato a ritwittarlo con il commento “Eh?”, cui avevano fatto eco alcuni miei follower citando, ça va sans dire, il conte Mascetti. Come se fosse antani.

Poi però ho pensato di diventare il Ris di Parma di me stesso. Di cercare un senso a questa storia, anche se pareva non l’avesse. Ho tentato un’analisi del testo. E mi sono spaventato.

Dunque, partiamo dall’inizio: “Quello di Macerata è un atto di razzista”. E fin qui ci siamo. Virgola. “Ma non sono i pistoleri che possono portare giustizia”. “Ma” è un avversativo. Cosa ci faccia lì non è dato sapere. Siccome disgiunge, pare introdurre un argomento nuovo che non ha a che fare col postulato precedente. Prendiamo dunque la frase di per se stessa e inseriamola nel contesto. Una traduzione sommaria sembra essere: “Ok, erano neri. Ma per questo ci sono le forze dell’ordine”. Cosa scritta in modo più intellegibile anche da Maurizio Gasparri. Solo che detto da Gasparri è una sorpresa positiva, dal segretario del Pd forse no.

Ma attenzione, ché arriva il capolavoro: “L’assunzione per ogni anno di 10mila tra carabinieri e poliziotti è la risposta: buonsenso e non tagli alle forze dell’ordine”. Cioè: un esaltato fascista spara a persone innocenti, per vendicare una povera ragazza che ancora non sappiamo se sia stata uccisa, e la risposta è più polizia per aumentare la sicurezza sociale percepita. Da quelli che votano.

Ora: per fortuna di Renzi, non ne sono lo spin doctor. Se lo fossi, attenendo a un’area politica che un tempo fu parente della mia, gli consiglierei di guardarsi indietro. Vinceva quando dettava l’agenda. Non quando se la faceva dettare da Libero.

In una campagna elettorale in cui l’offerta sul mercato è tutto sommato equivalente (Salvini punta al ventre molle, Berlusconi come sempre appena più in basso), tutti sembrano impegnati in un tragico dibattito di quelli  “moderati” da Maurizio Belpietro. È un po’ come combattere la cocaina con la Redbull: i tossicodipendenti vogliono la dose forte.

Non penso che Renzi sia realmente vicino a questa brodaglia autoritaria in cui ci stiamo lentamente calando. Più facilmente non sa come recuperare consenso. Per questo dovrebbe sapere che il suo target chiede una merce che in campagna elettorale vale più del tartufo d’Alba: la verità.

Chi, oggi, con una base culturalmente coesa alle spalle, uscisse dal coro e dicesse che l’invasione non c’è, che se giustifichiamo i pistoleri come quello di Macerata conteremo i morti per terra, italiani e stranieri, che senza la badante di vostro nonno, gli operai delle fabbriche in cui sono fatte le vostre piastrelle, i medici extracomunitari che si accasano alle Asl con stipendi da fame, saremmo un Paese nella merda, otterrebbe un botto di voti.

E aiuterebbe questo sfortunata repubblichetta di Weimar.

Forse è tardi, ma fossi in lui proverei.

 

Vedi Napoli e poi ti girano a elicottero

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Devo dire – e sticazzi – che se il Napoli vincesse lo scudetto mi farebbe piacere. Non in funzione anti-Juve (io non sono anti-Juve, non sono anti-niente, in genere mi girano i coglioni quando i grandi fanno i prepotenti coi piccoli) ma perché qualche barlume di novità renderebbe il piattume prevedibile della Serie A un argomento leggermente più interessante. In generale, i napoletani generano in me sentimenti contrastanti. Come una città estrema non può non cagionare. In parte li adoro, ne vado pazzo, ricordo ancora quel signore che inseguì la mia compagna per restituirle il portafoglio: “Signuri’ non ve lo dovete perdere il portafoglio a Napoli”. Altre volte bestemmio per come un posto così meraviglioso, una capitale, viene maltrattata anche da alcuni di quelli che ci abitano. Un po’ come l’Italia intera. E faccio mia la pugnacità dei napoletani perbene, ovviamente la clamorosa maggioranza, che sono capaci di raffinatezze dell’animo e dell’intelletto che altrove credo non esistano. Lo dico perché oggi, durante quella specie di live-tweet che ho fatto sulle sciocchezze a raffica dell’arbitro del match col Bologna, qualcuno ha tirato fuori mandolino, pizza e altre cazzate. Ecco: lascerei stare ‘sto vittimismo luogocomunista. Ma vorrei approfittarne, amici partenopei, per spiegarvi una cosa che mi è capitato di far rilevare anche agli juventini (e in generale ai tifosi delle grandi): se il Napoli, con la squadra che ha, gioca col Bologna, ne vince 19 su 20. Ecco, ieri poteva essere la ventesima. Perché abbiamo disputato, da inferiori, una grande partita. Abbiamo tirato in porta pericolosamente 7 volte (contro 4) e siamo finiti cornuti e mazziati. Segnalo in primis due dati inequivocabili: il rigore di Koulibaly che stoppa a braccio largo un pallone che sta andando in porta. Niente. Il rigore inesistente di Callejon (il contatto comincia fuori, e comunque quella dopo è una plateale simulazione). Ma se devo scegliere due episodi che raccontano quel che è successo, forse sono persino più indicativi il mancato giallo a Koulibaly che a momenti azzoppa Palacio, dietro al quale correva a lingua penzoloni, a centrocampo. E soprattutto la punizione di Mertens dal limite all’inizio del secondo tempo, ottenuta nonostante il più vicino del Bologna fosse a un metro. Roba per cui persino Gentile di Sky (che è ossequiente con tutte le grandi, non solo con la Juve: sveglia) prevedeva un’ammonizione in fase di cronaca diretta. Ora mettetevi nei miei panni (stareste larghi) e di chiunque con le squadre più forti sa bene a cosa va incontro, ma poi manco può giocarsela. E ora che siete vestiti di rossoblù, pensate a quanto ti ruotano le balle quando nelle sintesi il “mani” napoletano manco lo montano. E comunque in telecronaca era già stato derubricato a nulla cosmico. Se per caso fossimo andati 2-1… se per caso aveste continuato a fare la fatica boia che stavate affrontando per tirare in porta, se mia nonna avesse le ruote… Voglio dire: ma certo che poi Mertens fa la terza pera. Ce l’ha il Napoli, mica il Bologna. Forse non c’è un ruolo singolo in cui il Napoli sia inferiore a noi. Però manco giocarsela è fastidioso. E fare la morale a chi elegge Mazzoleni uomo partita Sky, come il sottoscritto, per cercare di esorcizzare i maroni a elicottero, rischia di essere non dico poco elegante, ma poco sintonico da parte di chi a remare in direzione ostinata e contraria è abituato. E anche piuttosto orgogliosamente. Sennò, come mi pare dicessero a Innsbruck, diventa un “chiagni e fotti”. Cé verimm’.