Del perché Asia Argento avrebbe fatto bene a non denunciare, ma non per il motivo che pensate voi

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Lo sciabordio di letame che ha avvolto Asia Argento dopo le sue dichiarazioni su Harvey Weinstein ha scatenato un dibattito sul confine della molestia: fino a quanto si può aspettare per denunciare? Acconsentire significa complicità? È incoerenza trarre vantaggio professionale dal proprio corpo e poi lamentarsene?

Al di là del merito, nel quale entro tra poco, segnalo che la discussione sposta su un piano intangibile le stesse chiacchiere da bar che buona parte del Paese, non solo quello munito di prostata, attiva automaticamente in caso di stupro: quanto deve essere lunga la gonna per non configurare provocazione? È ammissibile tirarsi indietro dopo aver incoraggiato il maschio di turno? Ritrovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato manleva in qualche modo l’aggressore?

Il prestigioso contributo del compagno Betulla

Stupro e molestia sono situazioni diverse ma confinanti. Assecondare un aggressore per uscirne senza danni fisici non è troppo diverso da cedere a quello che potremmo chiamare maschilismo ambientale. Il contesto fa la differenza. Ed è un contesto che gli uomini dovrebbero considerare, far proprio, attribuendosi una vergogna di genere che ci aiuterebbe quantomeno a non violentare la ragione.

Posto che quella subita da Asia Argento è stata verosimilmente una violenza vera e propria (qui è spiegato bene) la questione è, anche, un’altra. E attiene al sistema. Se Hollywood (Hollywood: non Cinecittà) è un luogo in cui le parti si assegnano per questioni di letto, possibilmente imposte, perché non dovrebbe accadere nell’ufficio accanto al nostro? O nel nostro, anche?

Harvey Weinstein

Il potere è una bestia bruttissima. Accende un domino di relazioni rispetto alle quali quasi nessuno può dirsi innocente. Ma deprivando l’atto dai protagonisti, forse avremo una visione più chiara. Il punto non sono neanche il produttore erotomane e le molte sue vittime. Il punto è ciò che li genera. Cioè un sistema misogino radicatissimo che porta ad additare chi subisce e giustificare chi impone. Asia aveva paura di denunciare: gli insulti che l’hanno colpita dimostrano che non sbagliava.

Cominciare a smontare quel sistema è un piccolo dovere morale che tutti noi, popolo di “solo braghe” dovremmo portarci appresso. E anche molte donne. E, anche, chi si crede portatore di una cultura progressista (non dico la parola “sinistra” perché porta sfiga) ma poi concede le attenuanti al maiale e conta quanti amanti, tatuaggi o denari abbia avuto chi ne ha subito le avance.

Voi di sinistra, fate finta per un attimo che le donne siano migranti. Personalmente non ho mai schiavizzato nessuno e non ho sfruttato l’Africa. Ma la mia gente sì, ed è per questo che a ogni naufragio mi sento in colpa. E cerco di diffondere un minimo di cultura dell’accoglienza. Per ogni donna offesa, sul divano di un produttore, su una spiaggia, su un giornale, dovremmo cominciare a essere altrettanto sensibili. O almeno provarci.

Perché, non so come dirvelo, non si stuprano o molestano nemmeno quelle che vi stanno antipatiche.

Mi è sembrato di sentire un Furore

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“Furore”, su Raitre, ieri sera, ha fatto poco più del 2 per cento di share.

Oggi facilmente troverete qualcuno che deride il tentativo di portare Steinbeck in prima serata, perdippiù con la mediazione “radical chic” di Baricco. Magari gli stessi che lamentano la caduta libera della qualità in Rai, la deriva verso la tv commerciale più trash, il tradimento del servizio pubblico.

Invece.

Invece per una volta sarebbe cosa buona e giusta riporre le riserve di cinismo e far festa – festicciola, va’ – per i 555.000 individui che ieri sera hanno voluto seguire il ragazzo immagine della Holden in un percorso di lettura e affabulazione.

E mica per questioni romantiche, eh? Men che meno etiche, divulgative, pedagogiche. Quella è roba da preistoria.

“Quando sento la parola cultura, metto mano al telecomando” (autocit.).

Il punto è che, in morte della tv generalista, le ammiraglie superstiti possono e devono puntare anche a quelle che erano nicchie, avendo cura di allargarle il più possibile, proprio come fanno le pay, in un’azione uguale e contraria, quando ingaggiano nomi di pronta presa.

E l’assunto regge soprattutto se quelle nicchie sono composte da categorie abbastanza omogenee. Ad esempio, ieri sera, lettori. Cioè gente che, pazzesco, consuma cultura. Quindi spende. Quindi è appetibile per la pubblicità.

Per questo, quando leggerete di quei coglioni Rai che sono andati al massacro nel prime time, sappiate che è un’accusa sbagliata.

Perché il futuro della televisione, almeno a certe latitudini, è meno Alessandro Greco (con tutto il rispetto, ovviamente) e più Alessandro Baricco*.

 

*Scherzavo. Ho fatto un’analisi alla “Il Foglio” dei poverissimi solo perché, cazzo, ieri sera ero felice come una Pasqua a vedere la Rai che fa la Rai. Che manda in onda qualcosa di cui andare orgogliosi. E fanculo gli ascolti.

Perché non possiamo dirci catalani (e men che meno Rajoy)

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Falta personal, falta personal, personal foul.

Era il 1997 ed ero a Badalona, Catalogna (Spagna, ad oggi).

Raccontavo per l’Unità gli Europei di basket. Quando lo speaker doveva avvisare il pubblico di un fallo personale, scandiva proprio così: falta personal (castigliano), falta personal (uguale, ma in catalano), personal foul (inglese).

Quel giorno mi convinsi che le pretese separatisti dei catalani erano, se posso usare un francesismo, una ridicola cagata. E questo al netto di una storia che conosco piuttosto bene, dell’identità di popolo, della repressione franchista da cui è nata una Costituzione molto più che autonomista. Che la Catalogna ha ampiamente sfruttato per diventare, anche economicamente, quel che è.

Nel ’91, quando il Palau Sant Jordi era ancora un’accozzaglia di lavori da finire in vista delle Olimpiadi (ma la Virtus ci giocò lo stesso, anzi credo addirittura che l’abbia inagurato) i tabelloni pubblicitari di Barcellona erano sporcati con lo spray: “Le vogliamo in catalano”. Mi ricordo che ne ridevamo, come poi avremmo riso del folklore padano.

Poi arriva un momento in cui il folkore smette di essere tale. Quello in cui il grumo nazionalista fa massa acritica – tipo la Brexit, altro harakiri acrobatico – e si arriva ad oggi. Con centinaia di migliaia di persone che, pacificamente, violano la Costituzione. E con un governo centrale che cerca di risolverla coi proiettili di gomma e le manganellate. Da una parte, un’illegalità disarmata. Dall’altra, una ragione violenta.

Non sai con chi non stare.

La mia amica Cathy Latorre spiega qui perché quella pagliacciata è contraria a ogni giurisprudenza, oltre che pericolosa. Le truppe della Guardia Civil che attraversano la Spagna tra ali di folla, in parte nostalgica del Generalissimo, sono sostanzialmente il primo passo di una Guerra Civile.

Che non ha senso.

Avete presente l’Alto Adige? È figlio di un equilibrio postbellico surreale, che ha diviso il Tirolo e provocato decenni di tensioni a volte sanguinose. Ecco: dopo Schengen, la questione è caduta. Perché il Tirolo di fatto esiste di nuovo. E gli altoatesini, cioè gli italiani di lingua tedesca, mai troverebbero in Austria la miriade di agevolazioni che lo Stato italiano, cosciente dei disastri mussoliniani in zona, ha concesso loro.

La Catalogna è un Alto Adige più tignoso.

O un (o una) Euskadi che però, a differenza dei Paesi Baschi, manco si ritrova con un territorio diviso tra due stati sovrani. Potrebbero paragonarsi ai curdi. Hanno fatto la Guerra Civile. Oggi, probabilmente, si sentono cittadini europei e se ne sbattono.

Non sono un politologo e probabilmente ciò che ho scritto contiene errori fattuali. È l’analisi di pancia di un tizio che schifa il nazionalismo, che si sente patriota del mondo, che odia i confini, che agli steccati preferisce l’identità culturale. Se vivi in una democrazia e ti permettono di esprimerla, mi basta e avanza. Sono italiano, bolognese, europeo, occidentale, laico, credo nella pace tra i popoli a parte forse con gli ultras del Cesena (ma no, in fondo vanno bene pure loro).

Però, ecco, proviamo a usare proprio una metafora calcistica, da cui potremmo desumere che tutta questa storia è prima di tutto grottesca (e, certo, anche drammatica). L’altro giorno la Catalogna ha chiesto la mediazione dell’Unione Europea per uscire dalla Spagna. Cioè ha chiesto all’Europa di mediare per potersene andare, pulendosi il culo con la Costituzione, da uno stato che dell’Unione fa parte. Cioè: i catalani vogliono la botte piena, la moglie ubriaca, e possibilmente che la bevuta sia offerta da qualcun altro.

Spostiamoci nel calcio, appunto. Il Barcellona ieri ha giocato a porte chiuse. Se la Catalogna esce dalla Spagna, il campionato con chi lo fa? Un bel derby col Tarragona tutte le domeniche? E i diritti del Clasico Barcellona-Girona, a chi li vendono? Ora: anche la Palestina non è uno stato ma ha un comitato olimpico. Quindi è pure possibile che il Barcellona, come pare sia intenzionato a fare, voglia giocare nella Ligue 1. Forse la Fifa li riconosce, con il giro d’affari che muove.

Ma il dato è un altro. Ed è politico, non economico: senza un contesto, non conti un cazzo. Senza una relazione col mondo, non migliori. A furia di alzare muri, tirerai la palla contro i medesimi. E c’è persino il caso che gli sponsor spariscano, che i guadagni scendano, che una Catalogna calcistica fuori dalla Spagna faccia la fine che le toccherebbe se uscisse dalla Spagna senza entrare nell’Ue.

Posso sbagliare, ma ‘sta roba non giova a nessuno. È l’atto ultimo di un impazzimento collettivo, tutt’altro che limitato a quel pezzetto di Spagna a sud della Francia, che ha ricevuto l’ultimo colpo di gas con la creazione di un’intelligenza collettiva attraverso i social.

Prima, i componenti della maggioranza silenziosa se ne stavano zitti, temendo di dire o fare la cazzata. Mo’ si organizzano. Come in Catalogna. Come in Veneto.

Oggi ci sembrano appunto folklore, come i cartelli in dialetto sparsi per la Bassa trevigiana, come un referendum del quale ridiamo ma che costerà un botto di soldi nostri per cominciare, parola di Zaia, lo stesso percorso catalano.

Ma hanno la stessa ratio di un altrove anabolizzato in cui fuggire per sentirsi più importanti e meno soli. La Serenissima non ha meno storia dei catalani, a vederla tutta. Parlano un’altra lingua – che tra l’altro manco ha dovuto essere riesumata come a Barcellona e dintorni, visto che Franco l’aveva improvvidamente rasa al suolo – e possiedono un sacco di sghei. Zaja è un Pudgemont al momento meno aggressivo.

Al momento.

Senza contare che in fondo l’Andalusia è stata araba per un periodo pare piuttosto lungo. Un bel referendum per la Sharia? E i galiziani sono mezzi portoghesi, vogliamo riunirli? E noi emiliani con i romagnoli ci siamo sempre stati sui coglioni. Perché non staccarci?

Perché sarebbe una cazzata.

Perché sarebbe un solipsismo autistico elevato a diritto che non esiste. Perché sarebbe la celebrazione di un fallimento – quello degli Stati-nazione – aggiungendo altri inutili Stati-Nazione.

Non si mena chi vota. Non si vota contro la legge.

Suerte. Bona sort. Buona fortuna.

Del perché non ce l’ho minimamente con la Juve: un tutorial

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Io non nulla contro gli juventini.

Ho amici juventini, basta che tifino Juve a casa loro.

Non ho l’abitudine di gufare, tranne forse quella volta di Milan-Liverpool. Ma era una vicenda politica, non sportiva.

Ciononostante mi capita di fare battute sulla Juve perché è un genere comico, un luogo comune – quindi con un fondamento di verità – di lungo corso. Lapo Elkann, il Pd, Peppekrillo, la gnocca, la Juve… senza di loro non esisterebbe la satira. Li ringrazio di cuore.

Poi capita che ci si giochi contro, alla Juve, in una partita che, come direbbero all’accademia della crusca, contasega.

E capita che segnino in fuorigioco, che gliene vengano abbonati un paio, che l’arbitro ci fischi fallo a favore mentre andiamo in porta, che ogni decisione dubbia sia loro, che interventi sul pallone vengano sistematicamente tramutati in fallo, che Cuadrado stampi una tacchettata in pancia a uno dei nostri e non venga cacciato, che Lichtsteiner mandi bellamente a cagare il guardalinee a favore di camera e non accada nulla… and counting.

Che poi certo, c’è anche un fallaccio di quel babbeo (spesso) di Destro senza ammonizione, e un Taider che si rialza miracolosamente dopo un calcione e andrebbe ammonito ma insomma, chiunque la veda con un minimo di astrazione legge quel che accade: c’è Cardiff a breve, il Bologna non rompa i coglioni.

Aggiungiamoci che la Juve-società al Bologna ha fatto danni importanti. Noi siamo sostanzialmente le uniche vittime di calciopoli. Non i bianconeri, che si intestano anche scudetti rubati e risalirono dalla B (non dalla C) in un amen, non la Fiorentina che si accordò con Moggi per mandarci in B. Retrocessi, decapitati al vertice (e molti juventini deridono Giuseppe Gazzoni Frascara, che saltò per aria dopo aver creduto che si potesse far calcio onestamente), costretti a giocarsi la promozione con Napoli, Juve e Genoa. Che andarono su senza neanche i playoff.

E poi ci sono il tuffo di Zambrotta, quello di Nedved, Zalayeta che sbatte la palla sulla traversa ma gli assegnano ugualmente il gol… potrei zigare (piangere, per i forestieri) per anni su tutti i calci in culo, concreti, che la sudditanza arbitrale verso la Juve, e tutte le grandi, ci hanno regalato. Anche quest’anno. C’è una classifica emendata dagli errori arbitrali: avremmo avuto 9 (!) punti in più. E con 9 punti in più puoi fare una stagione ambiziosa pure se ti tocca di mandare in campo gente tipo Sadiq.

Ma invece di piangere, mi limiterò a un breve tutorial per gli juventini dabbene. Ecco, voi non sapete com’è. Voi non sapete com’è fare i conti con un budget piccolo, con giocatori spesso scadenti, non avere altri obiettivi che qualche bella vittoria contro le grandi, e rendersi conto che non è possibile. Voi siete così disabituati a vedere il piccolo favore, la protezione sistematica, l’arbitraggio gentile, che vi sembra normale. Vi sembra fisiologico che i piccoli non possano godere quasi mai. La logica del così fan tutti (“E però Facchetti telefonava…”, “E però Galliani…”) vi ha talmente separati da un minimo di senso critico da farvi pensare che sia dovuto e gli altri siano solo stronzi rosiconi.

La Juve è campione d’Italia, e il calcio funziona esattamente come ogni altra cosa in Italia. Anche quest’anno che lo scudetto è meritato. Ma è perché gli altri lo sanno, che funziona così, che mezzo Paese vi rema contro. Qualcuno lo chiama rosicare, appunto. Con quel bel linguaggio che ha tracimato in politica proprio perché il pallone e palazzo Chigi sono ormai la stessa cosa.

Altri, ad esempio io, esasperazione.

Tifare è bellissimo, ma non è che ti manlevi da tutto. Voglio dire: il Bologna per anni ha giocato partite chiacchierate e non gli è successo pressoché nulla. Ci sono alcuni incontri che parevano così platealmente aggiustati da farmi arrabbiare perché nessuno ha indagato. Ma se li avessero presi, non li avrei difesi perché portavano i colori che amo. Li avrei infamati più forte.

Ecco perché io non ce l’ho con la Juve, né con gli juventini. Però chiedo solo una piccola cortesia: a noi perdenti, almeno, lasciateci bofonchiare in pace.

Quella volta che sfiorai il Cara di Isola Capo Rizzuto

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Da “Tutti al mare vent’anni dopo”, Perdisapop, 2006

CROTONE

“Lei ha il permesso del capovillaggio? No? E allora mi dispiace ma non può entrare”. Nel Congo alla ricerca di Livingstone? Al villaggio Valtur di Capo Rizzuto nel 1985? Macché: al villaggio Valtur di Capo Rizzuto nel 2005. Nello stesso posto, cioè, in cui il Serra fu respinto con perdite vent’anni orsono, colpevole di voler attentare alla serenità dei vacanzieri con quattro-domande-quattro sulla loro condizione di prede dei g.a.: i gentile animateur. Quelli che vennero importati dal Club Mediterranée e poi perfezionati in Italia secondo tecniche di colorata coercizione dei turisti che anche al Mossad ormai considerano troppo severe: eventi continui, felicità a momenti, vita intensa. E un mondo difficile.

Stavolta va così. Mi presento all’ingresso del villaggio verso le 14 e subito vengo stoppato dalla guardia giurata, che è vestita come Totò Schillaci al provino per il sequel dei Chips: vistosa semiautomatica nella fondina, maglietta azzurra con scudetto tricolore. Mi dispongo a zerbino, spiego il mio piano, vengo fatto accomodare in un gazebo di legno mentre fuori la vita continua a scorrere veloce. Velocissima, dal momento in cui comincia a piovere e si intuisce il viavai di forzati che risalgono dalla spiaggia al villaggio per sottoporsi a chissà quali torture: il torneo di ping pong? Una gara di barzellette? Il remake del Grande fratello con tanto di nomination e fuga d’amore nella suite?

Mentre fantastico sulla sorte degli ostaggi, vengo messo in contatto telefonico con la reception. Che sta a cento metri, o almeno così intuisco. Mi risponde una voce femminile. Rispiego. Mi parcheggiano in attesa. Per mezz’ora. Intanto, un nastro registrato mi prega di rimanere in linea in dieci lingue diverse, maltrattandole tutte. E il jingle della Valtur,che sembra scritto dal fratello meno dotato di Goran Kuzminac, martella impietoso: “Uouoooo per l’amicizia! Uouoooo e l’amico sei tu! L’emozione di un istanteee! L’emozione divertenteeee! L’emozione della genteeee, dei villaggi Valtuuuur!”.

In realtà no, l’amico non sono io. O almeno così mi spiega la voce femminile che finalmente ha ottenuto la risposta del capovilaggio: no. Perché? “Perché lei potrebbe essere chiunque”. L’affermazione mi spiazza: effettivamente io SONO chiunque. “Però se vuole chiedere a Milano…”.

Perfetto: è andata. Stavolta ce la faccio. Entrerò con tutti i crismi, munito di regolare permesso. All’epoca, il Serra difficilmente avrebbe potuto rimediare un telefono in zona: intorno ci sono solo ginestre e bouganville. Ma la tecnologia nel frattempo ha fatto qualche passetto. Chiamo Milano, dal mio cellulare e a mie spese. La ragazza dell’ufficio relazioni esterne copre il telefono con la mano (non benissimo) e racconta al suo capo che un “giornalista dell’Unità in barca a vela vuole entrare al Valtur di Isola Capo Rizzuto”. Quello forse si chiede cosa ci fa D’Alema a Capo Rizzuto. Poi pensa di chiamare gli infermieri. Infine si fa raccontare nuovamente. E conclude: “Servirebbe l’autorizzazione del direttore prodotto, che è il capo di tutti i capi-villaggio. O del direttore generale”. Ciumbia. “Se vuole lasciarmi il suo numero…”.

Quando si fanno lasciare il numero,di solito non richiamano. E non sarà questa l’eccezione. Inoltre, a differenza del mio predecessore, non dispongo neppure di una vettura 4×4 che mi guidi attraverso i campi di pomodori per tentare uno sbocco via mare. Dunque mi infilo il codone tra le gambone, ben deciso a evitare facili ripicche per il trattamento ricevuto. Non scriverò mai, per esempio, che poco tempo fa da queste parti la ‘ndrangheta ha fatto saltare un pregiudicato con un bazooka, e che dunque la sicurezza anabolizzata del Valtur profuma un po’ di Colombia. O che sembra di stare in un film di Tarantino. Anche perché ho un piano B: perlustrare l’altro villaggio turistico che dà lavoro a decine di crotonesi: il Cpt per immigrati che sta di fronte all’aeroporto. Fa capo alla Misericordia, una Onlus cattolica, e non alla Valtur. E’ più recente, perché finito di costruire un anno e mezzo fa fa. E’ decisamente meno confortevole. E meno capiente: 120 reclusi al massimo. Ma non meno facile da visitare. Ne sa qualcosa il presidente della Regione Loiero, che pochi mesi orsono fu respinto e dovette ripresentarsi il giorno successivo.

Naturalmente non va meglio al cronista, ma almeno mi ritrovo l’opportunità di conoscere Serafino Scalise, poliziotto, segretario del Silp Cgil. Che si batte pubblicamente per rendere decenti le condizioni di chi dentro al centro è trattenuto, e anche di chi ci lavora. Agenti che vengono comandati a rimpatriare i clandestini mentre magari servirebbero sul territorio, visto che gli organici di polizia sono gli stessi di quando l’immigrazione manco si sapeva cos’era. Insomma – abbozzo a Scalise, esprimendomi in tardo democristiano – finisce che per combattere la criminalità mancano uomini e mezzi. Lui mi fulmina amorevolmente: “Uomini e mezzi ci sono – sorride – manca il contesto”. Poi me lo spiega, il contesto: “Qualche giorno fa, una pattuglia impegnata in un inseguimento ha trovato un’auto in doppia fila che faceva da tappo. Quando finalmente sono riusciti a passare, il collega ha abbassato il finestrino e ha richiamato il tizio che non si era spostato: ‘Poi ti mandiamo la contravvenzione a casa’. Quello non ci ha visto più: ammìa? E s’è lanciato all’inseguimento della volante”. Com’è finita? “Gli ha tagliato la strada, li ha fermati. I poliziotti sono scesi e c’è stata una colluttazione. La sera al telegiornale locale c’erano le interviste dell’assalitore: raccontava di aver subito un’aggressione. Un eroe, praticamente”.

Vado a cercare altri lumi sul famoso contesto da un collega di Scalise: solo sindacalista, non poliziotto. Ma a Crotone basta per essere in prima linea. Perché se difendi i diritti di chi lavora, affondi ipso facto le mani nella zona grigia che sta tra l’imprenditoria e l’indicibile.

Alla sede della Cgil  c’è ancora Di Vittorio alle pareti. E sbarre alle finestre. Anche se siamo al primo piano. Il mio uomo si chiama Romano Pesavento, ha una trentina d’anni, una Lacoste verde e un papà del nord che ha studiato con Curcio e Rostagno. In una mezz’ora lucida e appassionata, mi fa il Bignami della Crotone p.M, cioè post Montecatini, il gigante chimico imploso una decina d’anni fa  insieme a tutto l’indotto, trascinando nel nulla 1200 famiglie. E’ questo: ferrovia a un solo binario, una sola strada verso Taranto e Catanzaro “che basta un funerale per bloccarla”, 23 per cento di disoccupazione ufficiale, lavoro nero come istituzione, una sola agenzia interinale in città “ché il posto te lo trovano altre persone”, l’usura della ‘ndrangheta “che non ti strozza ma rileva l’azienda”, l’abusivismo che dilaga e lambisce pure l’area marina protetta di Capo Rizzuto, Antonello Venditti…

So cosa pensate: poveretti, anche Venditti. Ma stavolta, solo stavolta, vi sbagliate. “E’ venuto in concerto a Capo Rizzuto – racconta Romano – e ha avuto la brillante idea di scagliarsi contro l’abusivismo. Che bel mare avete, ha scandito al microfono. Peccato tutto quel cemento. E’ la rovina della Calabria. Improvvisamente la piazza s’è zittita. Allora Venditti ha provato a mediare: se proprio dovete farle abusive, le case, fatele belle. Qui si vedono certe cose… Ma la gente se ne stava già andando”.

Romano mi introduce al suo capo: Pasquale Aprigliano. Ex sindaco di un paesino in provincia di Cosenza, sta qui da dieci anni. Look e disincanto da Marlboro man. “Cosa occorre per fare il sindacalista qui? Peli sullo stomaco e coglioni nel ghiaccio”. Poi esemplifica: “Il contratto d’area, per dire. Poniamo che l’imprenditore intaschi i soldi d’incentivo e poi assuma trenta persone invece delle cinquanta che la legge gli impone. Io devo denunciarlo. Il risultato però è che gli revocano il finanziamento, quello chiude, e anche i trenta assunti restano a casa. Devo scegliere tra una violazione e un disastro sociale però…”. Però? “Però fatti un giro per Crotone. Pellicce, gioielli… non è terzo mondo. I soldi liquidi non mancano. Il rischio è smettere di chiedersi da dove vengano”.

Uscendo, la delusione: nemmeno una pelliccia. Forse il fatto che siamo in agosto un po’ influisce. Ma la ricognizione, grazie a Romano, regala altri momenti significativi: il pellegrinaggio all’enorme gladio in marmo che sovrasta la città dall’alto di Parco Pignera, sorta di simbolo fallico che soprattutto di notte emerge in tutto il suo turgore. E poi piazza De Gasperi, col suo giardinetto a forma di svastica. Il terribile palaMilone con la sua insegna che sembra disegnata da Marinetti in acido. E il lungomare. Che, certo, conta pure un edificio storico dell’Ottocento raso al suolo per costruirci un albergo. Certo, è invaso dalle auto. Certo, è costellato di imperdonabili parabole che offuscano le residue palazzine liberty. Certo, ha qualche fontana sporca che non funziona. Certo, è stato ristrutturato in modo che quando piove si allaghi. Ma è bello. E decorato da giovani belli. Con begli abiti firmati. Che bevono bei drink, in bei pub, su un bel mare.

Finisce così che tu e Romano vi guardate come Totò e Peppino alla stazione di Milano. Perché la ‘ndrangheta in fondo è come la nebbia: quando c’è, non si vede. E si chiama contesto.