La prospettiva politica del MoVimento Cinque Stelle: saggio brevissimo

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(ANSA - DUE FIGURE) L'esilarante testo in cui Di Battista si lamenta ché la Pinotti non risponde alla stampa

(ANSA – DUE FIGURE) L’esilarante testo in cui Di Battista si lamenta ché la Pinotti non risponde alla stampa

A un mese dalla prima alluvione e nel bel mezzo della seconda, Matteo Renzi:

  • Non ha ancora firmato lo stato di calamità, congelando i rimborsi per chi aveva subito i primi danni.
  • Non trova di meglio che convogliare le responsabilità sulla “politica del territorio che le Regioni hanno attuato negli ultimi 20 anni”, manlevando in questo modo le scelte di cementificazione dei Berlusconi, dei Matteoli, dei Verdini con cui sta riscrivendo la Costituzione.
  • Non è sul posto, non c’è mai andato, e la macchina dei soccorsi sferraglia parecchio.

Sono tre falle importanti, su cui si potrebbe imbastire una campagna politica concreta senza neppure essere tacciati di sciacallaggio.

In tutto questo, inchiodati all’impatto nullo che stanno avendo sulla politica nazionale, i soldati di Peppe passano il tempo nei tribunali presentando denunce velleitarie che andrebbero bene al massimo come provocazione satirica in una puntata delle Iene.

Vostro onore, non ho altre domande.

 

 

Una cosa noiosa su governo, sindacati, minacce e terrorismo

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(ANSA – THYSSEN) Un iscritto Fiom sperimenta la flessibilità in entrata

Il professor Filippo Taddei, giuslavorista che collabora col Governo Renzi, è stato sottoposto a un regime di tutela per le minacce ricevute.

Mettete in fila le parole: giuslavorista, governo, minacce.

A me vengono subito in mente Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi. E ho paura.

Ho paura per Taddei, che non conosco. Ma so essere persona davvero dabbene.

E ho molta paura, anche, per la salute democratica di questo Paese.

Quando Marco Biagi fu trucidato dalle Brigate Rosse, era in corso uno scontro importante sulla riforma del Lavoro. Conosciamo i colpevoli: i terroristi, e chi, nelle istituzioni, trattò Biagi come un mitomane.

Nonostante queste responsabilità chiarissime, l’attenzione post-attentato si concentrò principalmente su Sergio Cofferati. E sulla Cgil, che sarebbe scesa in piazza (tre milioni o uno, non importa) col lutto nel cuore e l’infamante accusa di esserne la causa.

Non era vero allora. Non è vero adesso.

Criticare le riforme del Governo Renzi, quindi anche il lavoro del professor Taddei, è un esercizio tipico della democrazia. Scioperare pure. Fa parte della dialettica tra classi sociali – sì: ci sono ancora le classi sociali – di un Paese civile. Alzare il livello dello scontro è altro.

Lo sa perfettamente chi vuole sovrapporre la violenza verbale (vagheggiando quella fisica) alla protesta legittima, con lo scopo tra gli altri di mettere i sindacati in un angolo. Tutto già visto.

Intanto però la tentazione di lucrare su queste vicende titilla il Palazzo. Sarebbe facile usare strumentalmente la deriva eversiva come fece, ai tempi, Roberto Maroni, mettendo il cappello (Legge Biagi, invece che Legge 30) su una riforma che snaturava le idee del professore ucciso, mantenendo l’impianto liberista senza attivare le tutele sociali più profonde che Biagi aveva saggiamente previsto.

Sarebbe invece bello e utile se al Governo capissero da subito che una controparte democratica è una garanzia per tutti e che andrebbe legittimata, invece di smontarla a suon di hashtag e battute sui Ponti. In modo da combattere, insieme, i nemici veri.

I nemici di Taddei, della dialettica democratica, di chi ancora interpreta l’informazione come esercizio critico del potere. Perché a furia di disintermediare, l’impalcatura della libertà vien giù.

E ci finiamo sotto tutti.

Scusate il pippone.

Dove volano le mosche

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(ANSA - SCHIENA DRITTA) La foto segnaletica di Lorenzo Consoli su TzeTze

(ANSA – SCHIENA DRITTA) La foto segnaletica di Lorenzo Consoli su TzeTze

Avevo scritto una cosa anche lunga su Grillo a Bruxelles. Sul fatto che era Belgio ma sembrava Bulgaria. Avevo ragionato sulla credibilità di uno che attacca il giornalismo altrui ed è l’editore, per interposta persona, di ‘sta roba qui, al cui confronto Libero è la pagina della cultura del Times. Avevo aggiunto questo link. E questo. E questo. Avevo stigmatizzato il solito linguaggio autoritario di Peppe (“Chiuderete”), quello classista (“Si trovi un lavoro”) e concluso che Grillo considera i suoi elettori/lettori pure peggio dei politici tradizionali, se li pesca all’amo con il click baiting del NON CI CREDERAI MAI: CLICCA QUI, FATE GIRARE PRIMA CHE LO CENSURINO e poi quando clicchi, sostanzialmente, non c’è mai un cazzo da leggere. Avevo anche scritto paragrafi appassionati sui new media che sono pure peggio dei vecchi, se incassano la pubblicità di Unipol, Telecom, Mediolanum, dei petrolieri e poi dicono che non è colpa loro, che sceglie Google (e allora? Se vuoi preservare la purezza puoi rinunciare quando vuoi). Poi sono andato a vedere quanti follower ha Tze-Tze su Twitter: 19500. L’Unità, che è morta, ne ha 132000. Se davvero i media che vanno male devono chiudere per meritocrazia, fossi Casaleggio senior o junior comincerei a spedire in giro i curriculum.

‘na robba su Chet Baker che ho scritto per Sette

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Metto i gettoni nell’iPhone.

Ho smesso di intrudere rullini nelle fotocamere digitali solo dopo averne distrutte tre.

In camera ho un ritratto di Landini della Fiom, Olio Fiat su tela.

Quando sento la parola startup metto mano alla pistola.

Persino l’ultimo di Neil Young, per dire, mi sembra un filo troppo sperimentale.

E dei nuovi Pink Floyd, al di là di tutto, m’interessa principalmente che si siano ricordati la maglia di lana. Non vorrei che Gilmour ricadesse nel tunnel del Vicks Medinait.

Così, stavolta, amico lettore/amica lettrice, vorrei consigliarti il cofanetto di un vecchio amico.

Già l’oggetto, il cofanetto appunto, è desueto. Attiene al mondo dei cd, un apostrofo marrone tra il vinile e l’impalpabile, poco connotato. Fosse un politico, il cd sarebbe Angelino Alfano: teoricamente svolge funzioni conosciute ma è desueto e tra un po’ non ci saranno gli strumenti per leggerlo.

Per sovrammercato, ho scelto un cofanetto che arriva dritto dagli anni Cinquanta. Quando il giovane Chet Baker, tra le altre cose, albergava spesso e volentieri nella mia città. Gli dedicarono persino un locale, col suo nome. Gli eredi fecero causa. L’insegna fu cambiata in Chez Baker, alla francese. Ed è rimasta tale fino a poco tempo fa, senza che la progenie di Josephine adisse a sua volte le vie legali.

Chet Baker è Chet Baker. E’ (fu) un curioso intruglio di talento, alcol, sperimentazione, grazia, eroina, follia, curiosità, meretricio, dolcezza. Fu nostro, nel senso bolognese della geografia, ma anche molto italiano. Scrisse e suonò colonne sonore per i soliti ignoti di Nanni Loy (il sequel), passò da Dizzy Gillespie a Fausto Papetti, quello del sax con le donne nude. Si esibì col grande chitarrista Franco Cerri, quello che faceva anche l’uomo in ammollo per la pubblicità del Bio Presto, perché di jazz è sempre stato difficile campare. In Italia.

Ricamò e sporcò il ricamo.

E cantò. Caspita se cantò. My Funny Valentine la ricordano un po’ tutti, nella playlist per studenti fuorisede è il classico pezzo che indirizza la serata. Il resto, anche. E quel resto sta appunto in quel cofanetto: un trittico (“Chet Baker Sings”) che copre gli anni dal ’52 al ’63. Ed è perfetto per gli attimi immediatamente successivi alla conquista di cui sopra. O anche da ascoltare da soli, lungo l’autostrada, alle prime luci del mattino, se proprio non vi va di spegnere la radio e serve aiuto per sostenere l’illogica allegria.

Sono tutte – TUTTE – bellissime. Amo molto, pro domo chissenefregae, l’esecuzione timida di “That Old Feeling”. Ovviamente, “But Not For Me” che sembra restituita alla penna di Gershwin, deprivata com’è da tutta la grancassa quasi dixie di altre interpretazioni. E mi piace molto “I Fall In Love Too Easily” così arrendevole, complice, quasi femminea e per questo struggente, coinvolgente. E “Forgetful”, chitarra, voce, classe, anima, una fonte cui si sono abbeverati, magari senza saperlo, mille cantanti da acchiappo contemporanei come – ne dico solo uno – Fink.

Anche se, per citare un gigante del pensiero (Bruno Pizzul) è davvero “tutto molto bello”.

Persino per un ignorante di jazz come me.

Fate girare.

Governare con le battute

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voi siete quiFaccio satira. A volte bella, altre scarsa. Quindi sono di parte. Cerco di non essere mai della stessa parte. Oppure di essere sempre dalla mia, anche quando penso cose che non condividevo un minuto prima.

Sono incoerente, ondivago. Spesso sbaglio. M’innamoro di tizia o tizio, mi passa in fretta, e comunque se mi esce una battuta la scrivo lo stesso. Non cerco golfi protetti, prebende. Sto lì nella mia nicchia a prendermi tutta la libertà che posso. Cerco il limite per parlare a un po’ di gente senza che si accorgano troppo di me. Così posso continuare.

Sono spesso ingeneroso. Piallo concetti, taglio curve. Condivido i miei pensieri cercando di stemperarli col sorriso. Mi schermo di cazzate, per affermare quel che voglio. E riesco abitualmente a dirlo, senza troppe rotture di coglioni.

Perché. Sostanzialmente. Non. Conto. Un. Cazzo.

Attenzione: non conto e non vorrei contare. Non sono un potere, ho scelto altre strade. Laterali. Ho fatto battute su tutto. Sulla morte. Sui costumi sessuali. Sui difetti fisici (spero non troppe). Ho diviso il mondo in buoni e cattivi, tutti i giorni, più volte al giorno. Ho esagerato. Ma appunto non cambio il destino di nessuno. E meno male.

Però m’incazzo quando mi scippano il mestiere. Quelli che il potere ce l’hanno, intendo.

M’incazzo quando un tizio che ha 9 milioni di voti gioca con la mafia, a Palermo, facendo acrobazie sulla corda del consenso.

Quando, tra le tante accuse che potrebbe muovere a un avversario politico, ne sottolinea l’omosessualità.

M’incazzo quando un altro tizio indica al popolo plaudente, un popolo da 11 milioni di voti, un popolo da accantonare perché vecchio. Ma proprio vecchio anagraficamente.

Quando li deride coi gettoni da mettere nell’iPhone, quando derubrica i sindacati a “sinistra radicale”, apponendo loro una stella gialla con cui scaraventarli un po’ più in là.

Quando governa col sorriso, col lazzo, con la battuta, ma intanto inietta loro paura del diverso. Indicando sempre nuovi nemici, anche i più prossimi a lui.

M’incazzo con loro due come m’incazzavo col tizio delle battute sui bunga bunga, sui froci – sempre quello avete in testa – o sull’evasione fiscale. Persino sulla mafia (avete notato come non ne parlino, o come ne parlano le rare volte che lo fanno?).

Quello che spargeva barzellette per coprire i suoi reati.

E l’ha avuta vinta lui, perché adesso le battute le fa ai vecchietti invece che altri detenuti. E gli italiani scelgono i suoi cloni. Urlanti o cazzari che siano.

M’incazzo perché quei tre hanno tutti nella testa una parola che si fa persino fatica a pronunciare: disintermediare.

Nel mondo meraviglioso di Matteo, Peppe, Silvio, c’è il rapporto diretto col popolo che li ama. Fanculo i giornalisti, tutti venduti. Fanculo i magistrati, tutti prevenuti. Fanculo ogni dissenso, postilla, persino battuta che non venga da loro.

Nel nome della gente. Che si illude di abolire le camere di compressione per se stessa, rompere lacci, acquisire libertà, e invece si sta svendendo (a volte regalando) a chi cita House of cards e intanto parla e agisce come in Amici miei.

Il popolo, che li ha eletti.

Convinto da sempre che i diritti degli altri siano privilegi da abbattere. Quando l’unico diritto rimasto, tra poco, sarà quello di scegliere chi gettare dal ballatoio del condominio rissoso in cui ci hanno messi a vivere.

Tra una battuta e l’altra.

Le loro, le mie.

Ah, #beppevaidaluca.