Addaveni’ Capone: qualcosina che ho imparato in tre giorni di shitstorm

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Due uomini e una lettera | DoppiozeroIo non ho nulla contro il Foglio.

Quelli cattivi dicono che fare i liberisti coi soldi di Stato, beh, siam capaci tutti. Ma io i giornali li finanzierei tutti, figurarsi. E poi c’è gente apprezzabile che ci scrive su. Solo che io sono un ragazzo di periferia: il 99 per cento dei pezzi, sul Foglio, sono frammenti di un inner circle del quale non faccio parte. Diciamo che non li capisco. E quando non capisco, di norma penso siano più intelligenti gli altri. Persino quando usano le loro colonne principalmente per mandare messaggi. Tipo Dagospia, ma con meno tette al vento. Diciamo che il Foglio sta a D’Agostino come la prima pagina del Postal Market stava a Le Ore. Io poi preferivo e preferisco Le Ore, ma sono gusti.

Dicevo: non capisco, ma quando capisco sono laico. Talvolta dissento, talvolta no. Ad esempio, avendo colto da subito la follia suicida dei Cinque Stelle, mi è capitato di essere condiviso nientemeno che da Giuliano Ferrara. Mentre più recentemente solevo ritwittare Luciano Capone. Che non conosco, naturalmente. Ma mi pare una mente brillante e libera, come spesso ci sembra quando siamo d’accordo con qualcuno, che condivideva con me, tra le altre cose, il compatimento per i fulminati da Conte. E da Grillo, ça va sans dire.

Poi, ormai tre di giorni fa, ho scritto una cosetta sull’Espresso in cui dicevo che forse Draghi di poveri, non di povertà, magari conosce il giusto. Che un bancomat e un conto corrente ce l’hanno pure gli operai. Che a loro i 150 euro non facevano schifo. E che, per sovrammercato, il vituperato cashback aveva fatto spuntare Pos in luoghi impensabili. E siccome i due cancri di questo Paese sono mafia ed evasione (peraltro la seconda sostiene la prima, creando un brodo di coltura/cultura vicendevole) persino qualche spiccio sottratto al nero poteva essere una mano santa. Una manina. Un dito. Un’unghia. Ma pur sempre santa.

Nulla di protervo, in fondo: due cose sui valori in cui credo e che propagando da sempre.

Da lì è partita una shitstorm che ancora dura, sostenuta da account farlocchi, che però portano con loro anche una pletora di persone in buonafede, secondo cui non dovevo permettermi di insegnare teoria economica a Draghi. La stessa identica frase, copincollata a raffica, tanto da mandare il mio cognome in tendenza. Roba da matti.

Il fatto stesso che qualcuno mi ritenga capace di una scempiaggine del genere, fa di me – in questa narrazione un filo abominevole – un totale coglione. E passi finché è opera dei soliti sospetti, quelli del centrismo muscolare, anabolizzato da una concezione dei social dedita al bullismo. Il fine è noto.

Ma appunto ci si è messo pure Capone. Il quale, mentre il suo giornale mi dedicava addirittura un piccolo editoriale (eccheccazzo: sono solo un tizio su Twitter) mi ha additato ai follower rimpolpando il flusso di letame dall’alto di una posizione credibile.

Al che ho commesso un fallo di reazione: ho scritto che a certe terrazze milanesi puoi toccare tutto ma non l’evasione. Greve e forse infondato, ne convengo. Però Capone (certo che mi riferivo a lui e ai suoi) ha smesso di seguirmi, così non posso mandargli le due righe che gli avrei scritto. Queste.

Caro Luciano, io sono un tizio che si confronta volentieri. Se mi avessi risposto alla pari (come, faccio un nome a caso, Guido Crosetto) ti avrei con piacere detto la mia, consapevole che possa essere giusta o sbagliata, ma certamente molto diversa da come l’hai recepita o hai preteso di recepirla.

Mettendomi un bersaglio addosso, con esiti importanti in termini di insulti e derisione coordinata e continuativa (vanno ancora avanti), hai mostrato un atteggiamento che potrei asseverare a tre possibili macro-categorie.

  • Hai deciso che ti sto sui coglioni (e posso capirlo, capita spesso anche a me);
  • Hai deciso che si dovesse dare plastica dimostrazione di mancata intelligenza col “nemico”, data la mia impopolarità in certi contesti;
  • Non sai una minchia flambé di come funzionano i social.

Ritengo l’ipotesi due improbabile, la uno e la tre combinabili, così come mi pare plausibile ce ne possano essere altre.

Al di là di questo, la nostra insignificante vicenda mi conferma che questa ansia di mettere giacchette, di attribuire parti, di respingere con sdegno ideologico le opinioni altrui, oltre al mancato sforzo di scendere ogni tanto dal terrazzo e annusare un minimo di vita vera, o di commenti anche solo vagamente differenti, sia uno dei temi che, il giorno in cui vorremo ricostruire un minimo di laicità intellettuale e di confronto tra diversi, dovremo affrontare.

Questo avrei scritto, se avessi deciso di dare ulteriore importanza a una banale vicenda di troll ed ego ridondanti. Compreso il mio.

Invece credo che sarò più breve: sticazzi, Luciano.

Però con quest’aria da fenomeni avete un po’ rotto i coglioni.

Un saluto cordiale.

 

La Grande Notte di Paolo Beldì sarà sempre piena di luci

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Lutto nella TV italiana, morto il regista Paolo BeldìQuando qualcuno se ne va, anche qualcuno cui si voleva bene, si finisce sempre, per celebrarlo, di parlare molto di sé stessi. Dunque mi scuso se comincio questo ricordo di Paolo Beldì dicendo che, semplicemente, è stato il regista del programma che più mi sono divertito a fare e dal quale, grazie a un gruppo di lavoro imponente, ho imparato moltissimo di quel poco che conosco a proposito di tv.

Quel programma si chiamava la Grande Notte. Era una specie di gala degli Oscar satirico, disegnato da Gene Gnocchi e Francesco Freyrie, al quale si aggiunsero il magistero autorale di Fabio Di Iorio, l’animo punk di Dario Tajetta, i pennarelli di Andrea Pistacchi, persino il mio modesto apporto. E la regia di Paolo. Decisiva a bypassare i limiti costitutivi e ad esaltare, sgangherandolo come amava fare, il rituale (allora) catodico.

La Grande Notte - Programma (2006) - Foto Gene Gnocchi, Afef | iVID.it - Galleria Fotografica dei film, dei personaggi, delle serie TVPunto primo: le debolezze. Un comico, salvo rare eccezioni, non può condurre un programma. Specie se fa satira. Perché deve creare il presupposto e schiacciarlo, tenere per mano il filo rosso e sfilacciarlo a scopo risata. Così, Gene stava sul palco ma a condurre era una partner. Prima Simona Ventura, poi Amanda Lear, miracolosa, che arrivava un’ora prima della registrazione e non ne sbagliava mai una, leggiadra ed efferata com’era e com’è.

Infine Afef Jnifen, cui ogni volta mi avvicinavo dicendo: “Afef, almeno questa facciamola bene”. Rideva. Rideva anche Paolo. Anche della meteora, Luisa Corna di cui, e di come durò una sola puntata, preferisco non parlare. Mi limiterò a ricordare che all’epoca si accompagnava ad Alex Britti e aveva imposto, anzi: fatto imporre, di non parlarne neanche per sbaglio.

Gene la bersagliò, in onda, tutto il tempo. Mai più sentita.

La partner governava una piccola Academy (una “c” sola, ma in tutti i copioni e le scalette ne aveva due) che nella finzione attribuiva i Wolfango Awards e doveva rappresentare una matassa di ruoli in commedia da srotolare alla bisogna.

Stavano seduti di fronte a Gene in semicerchio per dire la loro. Formalmente. In pratica, per essere martirizzati. Ospiti del calibro di Alessia Merz e Klaus Davi che, ma non lo sapeva, assolveva al ruolo dell’antipatico. Del punching-ball. Proprio come i “premiati”. Essendo il giovane di bottega, li chiamavo io per convincerli: “Da noi gli ospiti si dividono in due grandi categorie – dicevo – complici e vittime. La vittima è inconsapevole, il complice è uno di noi. Autoironico, intelligente. Tu ovviamente sei complice”. Venivano quasi tutti. Lilli Gruber non ci cascò.Cadeo, l'uomo gentile della tv - PressReader

Dietro di loro, in quello che amava definire un 360° completo, ossia uno studio in cui operare ad angolo giro, e vi assicuro che certe prodezza riescono solo ai migliori, Paolo aveva chiesto a Cappellini e Licheri, gli scenografi, di allestire una scalinata. Da lì scendevano i vincitori, tra due ali di folla festante, parodiando la tv dell’enfasi. Ma facendola, anche. Giocandoci. Tutto molto americano o wannabe tale. Ma dichiarato, come wannabe. Raffinata cialtronaggine esibita fino a renderla sberluccicante. Come la luce accecante che accompagnava i bersagli fino al palco, dove avrebbero incassato le bordate di Gene.

In un angolo dello studio, Maurizio Crozza faceva i suoi personaggi. In un altro, la leggiadra Carla Signoris prima e quella meraviglia di Cesare Cadeo poi, fingevano di svernare nel foyer. Il loro ruolo era di spiegare perché i vincitori delle varie categorie (Leonardo Di Caprio, I Pooh, Gorbaciov) non erano venuti e perché alla fine ritirassero il premio, come da voce debordante di Piero Ubaldi, gente tipo Larussa o Giorgio Mastrota. Una volta venne Emilio Fede, che all’epoca partecipava insieme ad altri direttori alla cosiddetta “Cena dei cretini”. Gene gli chiese: “Quando non ci sei tu, come si chiama?”.

Di quell’orologino placcato rame, Paolo era il garante supremo. Nella costruzione e nella prassi. Non credo che sia mai esistito un regista che prendesse le risate con gli stacchi. Lui sì. Prima della puntata (di quella, di “Quelli che”, dei primi Sanremo di Fabio Fazio) identificava secondo una sua logica chi del pubblico avrebbe mandato in onda a spiovere, secondo la sincope della comicità. A contrasto. Si parlava di Saddam? Appariva un figurante dotato di baffoni. Inezie, ma decisive. Come le sue inquadrature dei piedi, o di altri dettagli, che già ai tempi di Diritto di Replica ne avevano fatto un innovatore assoluto.

Potete leggere biografie molto complete altrove. A me piace ricordare l’amico che si faceva sentire quasi tutte le settimane, ricambiato, scherzando sulla Fiorentina e sul mondo della tv che gli aveva voltato le spalle per i suoi 66 anni, perché (forse) costava troppo e soprattutto perché aveva un carattere. Paolo ce l’aveva, un carattere. Una volta, piccino com’era, gli vidi mettere la mani addosso a un dirigente Rai con cui non si era sintonizzato. Ma persino in quella lotta fisica del tutto impari – il dirigente avrebbe potuto tranquillamente governarlo, invece se ne fuggì sbigottito per i corridoi di Corso Sempione – c’era l’ansia e il piacere di raccontare una propria visione del mondo, più che della tv. Quella che avrebbe finito con lo spaventare, a torto, anche fior di talenti e committenti. Convinti forse che il rapporto qualità-prezzo (più che in soldoni, in termini di confronto: perché con Paolo ci dovevi parlare, e cercare una sintesi richiede impegno) non valesse più la candela.RaiDue - La Grande Notte - YouTube

A breve presenterò il mio libro a Novara. L’avrei voluto come relatore, o come compagno di chiacchiere, per farmi raccontare una volta ancora di quando (ipse dixit) “faceva il coglione nelle radio locali”. E di come in fondo non avesse mai smesso, con quel rigore cazzaro che solo i grandi possiedono. Col nitore e talvolta le asperità di un bambino. Felice di giocare con le camere come un pargolo a Disneyland ma anche, cristosanto, di piazzarle da dio sapendo alle perfezione quando mandarle in onda.

È morto uno bravo bravo. Non è un errore: bravo due volte. E se fossi un regista di oggi, spesso costretto a comprimere il proprio mestiere e la propria sapienza a fronte di committenti vessatori e stelle che non saprebbero distinguere un mezzofucile da un carrarmato, beh, mi appenderei il ritratto vicino al mixer. Come dicevano a Boris, “un’altra televisione è possibile”.La Grande Notte - Programma (2002) - Foto LOGO | iVID.it - Galleria Fotografica dei film, dei personaggi, delle serie TV

O forse no. Ma quando lo è stata, facile che fosse firmata da Paolo Beldì.

Buon viaggio Paolo. Stavolta il campo l’hai scavalcato tu, ma prima o poi ti si raggiunge. E sarà, stai sicuro, una lunga e Grande Notte.

L’apparato di vostra sorella: un’analisi soave

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1.2. BIOGRAFIA UFFICIALE DI BREZNEV

(TASS – BOLOGNINA) Una mia recente immagine subito prima di addentare un bambino bollito

Mi presento: sono l’apparato.

Detta così sembra una metonimia, nel senso che a volte, se non spesso, ragiono con l’apparato. Quello riproduttivo. Forse per questo sono di sinistra.

I giornali però non parlano di quello, anche perché sarebbe un racconto breve.

Parlano di me, di quelli come me, raccontandoci alla stregua di un grigio addentellato di un partito ancor più grigio. Il Pd. Noi, l’apparato, saremmo il segreto del “successino” alle Primarie. Ci avrebbero cammellati a votare per questo o contro quell’altra, ed ecco che al’improvviso il rugoso faccione democratico ne avrebbe assorbito una sorta di Botox dei consensi.

Tutto falso, tutti di apparato.

Era di apparato anche Matteo Lepore, a Bologna, anche se bisogna capire quale. Il partitone, che così “one” non è più? O il partitino, che ha lasciato una parte di sé nel corpaccione democratico a far flanella? La cosiddetta Area riformista è Italia viva dentro al Pd e ha come obiettivo quello di distruggere quel che non è riuscito a Renzi. Come si possa parlare di coalizione ha dell’incredibile. Infatti, quelli non di “apparato”, passano il tempo sui social a significare compatti che “piuttosto la Destra”. Ma dai?

Isabella Conti, tra l’altro, mica è il diavolo. Ha dietro una strategia che l’ha usata per scopi poco commendevoli, di bassa politica a livello nazionale. Un errore strategico mica da ridere, soprattutto a Bologna. Perché se davvero fosse stata “isabelliana”, se si fosse presentata secondo il classico mantra che porta al potere nel Pd, Letta a parte (sunteggio: fanculo tutti, mo’ arriviamo noi) avrebbe raccolto persino di più. E sicuramente non scompare qui.

E a Roma era naturalmente di apparato Gualtieri, che difficilmente vincerà. Mentre il nuovo era il pur rispettabile Calenda (da me, lui sui social rispetta un po’ meno) grazie al quale andranno verosimilmente al ballottaggio la Raggi e quell’altro tizio così a proprio agio con l’orbace.

Morale: siamo tutti di apparato con gli apparati degli altri. Ma io continuo a pensare ciò che dicevo sommessamente anche ad Agorà, stamattina. Che la cosa migliore del Pd sia chi lo vota. Che no, non è apparato. È gente che ha subito due scissioni ed è ancora lì, determinata, coi due euro in pugno. Che va ai gazebo a scazzarsi sulla politica, perché ha un tremendo bisogno di rappresentazione. Che ha resistito alla mano di poker renziana e che sa di essere impopolare, chiedo scusa se mi autocito, eppure di essere popolo. Cioè il migliore antidoto ai populisti.

Per questo, e sia concesso il latinismo, apparato ci sarete voi e vostra sorella.

Metti un po’ di musica sociale perché ho voglia di Breznev…

La nostra bandiera, la Liberazione

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Quando ero bambino, il 25 aprile aveva una liturgia precisa: verso le 9 del mattino suonava il compagno o la compagna della diffusione e consegnava, insieme a una copia de l’Unità, una bandiera italiana di carta, da appendere alla finestra, con la scritta “W la Liberazione”.

Nessun riferimento di partito, nessuna connotazione politica: verde, bianco, rosso e la scritta al centro. Forse per quello la esponevano tutti e il vecchio condominio dei ferrovieri, un centinaio di appartamenti, sei palazzoni che guardavano una piccola corte su cui mi sarei sbucciato fior di ginocchia inseguendo palloni invano, risultava una specie di apoteosi patriottica. Di quella patria che i nostri padri e i nostri nonni avevano contribuito a riscattare dal nazifascismo.

Ieri, sulla strada da Bologna verso Ferrara, ho intravvisto da lontano un bar completamente circondato di tricolori. Ultimamente, da quando la bandiera di tutti è stata rapita da una parte, tendo a diffidare di chi ne fa un uso estensivo e speculativo. Ma, trattandosi del 24 aprile, ho preferito sperare. Quando sono arrivato davanti al locale, ho potuto leggere un enorme striscione che incastonava il tricolore: “Da lunedì tutti al bar!”. Festeggiava un’altra liberazione, peraltro mutilata (inspiegabilmente, visto il “liberi tutti”, manco è previsto il servizio al banco).

Però sono giunto a un’età in cui cerco a tutti i costi il buono anche nel materiale organico. A costo di sporcarmi l’umore. Così ho pensato, e penso anche oggi, che il barista autonominatosi ribelle, alla fine, con le sue motivazioni pedestri, aveva appeso la stessa bandiera che i Partigiani issavano sulle terre riconquistate. Quella sotto la quale Togliatti amnistiò i fascisti, ricercando la pacificazione. Che le sezioni del Pci dovevano esporre ogni volta insieme al vessillo rosso, da statuto. Che stava nel loro simbolo disegnato da Guttuso. Quella dei partigiani bianchi. Degli azionisti. Della brigata ebraica.

Chi disprezza l’Europa ama dire che la bandiera dell’Ue è solo uno straccio. Ma tutte le bandiere, in fondo, sono uno straccio. Dipende quale valore dai loro. Era tricolore (al contrario) anche quella repubblichina. Oggi, il tricolore è diventato un brand utilizzato per subornare gli ultimi contro gli ultimissimi, o per vendere merendine italiane, cuscus italiano, latte italiano… Come se quello svizzero facesse cagare, tra l’altro. Ma mi piace pensare che per un giorno, quella bandiera sia di tutti. Che per un giorno, a vederla esposta, si possa per un attimo sperare di poterne essere degni. Essere degni della sua storia di riscatto che ci tolse la livrea da camerieri di Hitler. Mi piace pensare che chi la espone contro qualcuno, sia incindentalmente a favore di chi crede di odiare. Ché senza la guerra di Liberazione, probabilmente saremmo schiavi di un altrove a scelta. Difficilmente gratificante.

Per questo, il 25 aprile è così importante. Perché per un giorno quello che era nostro torna ad esserlo. Non preoccupatevi, non vogliamo riprendercelo. Lo lasciamo a tutti. Solo dovreste smettere di sporcarlo. Ma per quello, per fortuna, c’è la democrazia. C’è l’impegno singolo nel tramutare anche il singolo gesto personale in azione politica. C’è la volontà di assomigliare almeno un po’ a chi si adoperò nella pulizia del nostro tricolore dal sangue degli innocenti. Non sarà breve, non sarà facile, non sarà indolore.

Eppure verrà il giorno in cui, davvero, la nostra bandiera sarà un simbolo di unione. Lo dobbiamo alle partigiane e ai partigiani che combatterono per tutti. Per tutti noi.

Viva la Liberazione dal Nazifascismo, il 25 aprile, la Resistenza.

Viva l’Italia.

 

 

 

 

Chi soffia sul coprifuoco

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Coprifuoco: perchè diciamo così e da dove deriva - Velocità MediaDevo dire che a me del coprifuoco frega il giusto.

Non le ha il Governo, le cifre per dire che un’ora in più o in meno faccia la differenza, figurarsi.

A spanne, noto che i “riaperturisti” procedono su basi ideologiche e infatti saldano opposizione populista (Fratelli d’Italia, Estrema Destra) e maggioranza populista (Lega/Italia Viva) mentre i partiti di centro e i cespugli di sinistra sono favorevoli a quel Draghi cui avevano giurato leale collaborazione insieme a Salvini e compagnia. Tanto che Draghi stesso, a leggere i giornali di riferimento, si sarebbe (mi scuso per il francesismo) rotto i coglioni.

Non mi interessa del coprifuoco, dell’ora di differenza, che a occhio non mi pare possa salvare gli esercizi stremati dal virus, non dalle chiusure, che ne sono una tragica conseguenza. Anche se mi pare che il cliente peggiore sia il cliente defunto.

Intravvedo però la lana caprina del contendere: la Lega perde voti a favore della Meloni, Italia Viva gira a vuoto cercando un’identità, orfana del proprio leader in altre faccende affaccendato, entrambi appoggiano la necessità di consenso su una posizione speculativa. Sul fronte opposto, escludo che Draghi cerchi consenso. Né che Speranza possa acquisirne.

Per questo, solo per questo, la battagliuccia di chi soffia sulla comprensibile esasperazione di molti per trarne linfa elettorale mi pare ipocrita, nociva, altro veleno inoculato nelle vene di un Paese che ha sorprendentemente retto “di popolo” a un anno e rotti di cattività.

Per questo, i 360 i morti di oggi probabilmente sarebbero quantomeno perplessi dall’avanspettacolo politico che si balle sulle loro tombe.

Per questo, per quanto mi riguarda, bandierini, mattonisti, sovranisti, nani e ballerine di complemento che attaccano chi osi dissentire dalla loro narrazione tardo-populista, mi trovano in disaccordo. E lo faccio sommessamente presente.

Sticazzi, vero?

Vabbé, ormai è andata.

Alla prossima.