Del farsi prendere per il culo ed altre catarsi salutari

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Da bambino andavo al Madison con la federa di un cuscino bianco su cui mia zia aveva applicato due stringhe nere per formare una V. C’ero, quando Richardson alzò la prima Coppa delle Coppe. C’ero, quando lo arrestarono a Tel Aviv per vecchie pendenze fiscali. C’ero a Barcellona a insultare i giornalisti greci che urlavano mentre dovevo scrivere della prima Coppa dei Campioni. C’ero quando Danilovic, che una volta mi portai dormiente in auto da Milano a Bologna dopo un All Star Game, sferrava il tiro da 4. Però c’ero anche quando la Fossa dipinse la V rosa. Quando Carlton Myers salì su un aereo bulgaro verso Berlino che nessuno voleva prendere perché temeva precipitasse. C’ero quando il compianto Maurizio Albertini, ex Mangiaebevi, mi raccontava con che robaccia finisse nei succhi tedeschi. C’ero a mangiare da Danio con Stefano Pillastrini quando l’allora Aprimatic non aveva neanche gli occhi per piangere. C’ero quando Basket City esisteva ancora. E quindi, adesso, dico agli amici virtussini: ma di cosa vi arrabbiate? Ma perché ve la prendete per gli sfottò dei cugini? Non vi sembra di aver preso la macchina del tempo? Non paghereste per rivedere le magliette di Pellacani, Rivers che si palleggia sul piede, il parrucchino di Balboni da una panchina all’altra? Non vi sentite più giovani? E allora abbozzate, incassate, portate a casa. E, piuttosto, organizzate un pellegrinaggio alla Madonna di Tacopina perché trovi qualche Paperone per riaccendere la stella. Perché significa che sei vivo, quando ti prendono per il culo. E anche che, forse, quel culo è il momento di cominciare ad alzarlo.

Uscito sul Corriere di Bologna

Grillo, Boschi, mafia: lo scontro tra Titanic

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Ogni volta (ogni volta) che Grillo va in Sicilia, dice qualcosa a favore della mafia.

Meglio: non proprio a favore della mafia. Dice un’apparente ovvietà demagogica che favorisce la cultura mafiosa.

A suo tempo, in campagna elettorale, spiegò che era meglio della politica perché almeno non strangolava la vittime. Stavolta ha sostenuto che non c’è più, s’è spostata al Nord*.

Lo fa perché è mafioso? Ovviamente no.

Lo fa per chiedere voti alla mafia? No, anche se sicuramente certa diminutio agli uomini d’onore non dispiacerà.

Lo fa per chiedere voti in generale? Sì.

A chi? A tutti quelli che non vogliono sentirsi responsabili per la merda in cui versa la Sicilia, perfetta metafora della merda in cui versa questo Paese.

C’è un bel monologo di George Carlin, che condivido solo in parte, nel quale si spiega con efficacia teatrale ciò che sostengo da sempre: gli eletti non sono meglio degli elettori. Chi ha votato candidati mafiosi, o camorristi, chi ha scelto la clientela invece della dignità, è perfettamente uguale a chi lo rappresenta.

Siamo un Paese corrotto, becero, volgare, che esprime una politica corrotta, becera, volgare.

Ma votiamo per chi ci dice che la colpa è degli altri, dei politici.

Fatta la tara alla buonafede dei grillini primigeni, l’onestà (onestà-onestà) in Italia non ti porta al 25% dei voti. Per arrivarci, devi imbarcare chi in questi anni è stato totalmente corresponsabile della deriva da fescennino tragico in cui viviamo, ma premia chi gli cancella la memoria.

È un populismo efficace, sostanzialmente di destra – per usare categorie Novecentesche – non a caso subito sposato da neofascisti di ottima educazione come Pietrangelo Buttafuoco. Un altro che ha letto addirittura più libri di quanti ne abbia scritti, ma poi ricade nello stereotipo per cui il problema della Sicilia è l’antimafia (oltre al traffico, ovviamente) e che per preservare il buon nome dell’Isola è meglio citare la pasta con le sarde e non l’illegalità stratificata che la strangola. Certo che la strangola.

E ci strangola. Certo che ci strangola. Con un cappio che ci siamo comprati da soli.

Che poi tutto questo, per esempio ieri sera a Otto e mezzo, venga preso dal ministro Boschi come pretesto per oscurare il patto Pd-Camorra in Campania, attiene non già a uno scontro tra due entità diverse, ma alla partita di uno che per prendere voti nega l’esistenza della mafia, e un governo che per non perdere voti non pronuncia mai quella parola se non per sbatterla in faccia a un altro che la nega.

Che al mercato mio padre comprò.

Invece, la mafia è e resta una montagna di merda.

Peccato solo sia anche una montagna di voti.

 

(Ha anche sostenuto che Casaleggio l’hanno ammazzato i giornalisti che parlavano male di lui. Cioè li ha intimiditi a cazzo per l’ennesima volta, salvo poi lamentarsi della mancanza di libertà di stampa. Se valesse il principio che le critiche – e le minacce – ammazzano, i cronisti che parlano di Grillo sarebbero tutti morti. Dovrei abituarmi, ma ‘sta roba di lucrare sull’odio chiamandosene fuori ancora mi fa incazzare. Colpa mia. Chiedo scusa).

Riforma della Giustizia: se non ora, dopo

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voi siete quiDa Craxi in poi – Prodi escluso – tutti i governi dagli anni ’80 a oggi hanno reagito al drammatico deficit di legalità in cui versiamo cercando di fermare i giudici.

E’ come voler debellare l’Aids chiudendo gli ospedali. O impedendo ai medici di cercare la cura.

Rimanendo in metafora: certo, ci sono ospedali che fanno schifo. Inefficienti. Corrotti. Abitati da personale sfaccendato o in malafede.

Ma dite la verità: ne affidereste la riforma a uno che sta in società con Poggiolini?

Perché siamo a questo: a voler rimettere la Magistratura al proprio posto sono un partito sfigurato dalle inchieste e un governo sostenuto da un tizio rinviato a giudizio per sei volte in due anni. Che, quindi, non hanno la credibilità per farlo. Non per ragioni giudiziarie, ma per un motivo che l’italiano medio – cioè un politico che, ahilui, non è stato ancora eletto – ha velocemente perso per strada proprio da Craxi in poi: il senso di opportunità.

Qualche amico mi ha fatto notare che sono argomenti grillini. Non lo sono, per un solo motivo: i grillini – Livorno insegna – hanno scoperto il distinguo sugli avvisi di garanzia appena hanno toccato loro. Di Maio diceva che per chi sta in politica la presunzione d’innocenza non esiste: se ne deve andare appena indagato. Ora no. Ora si valuta caso per caso.

Non a caso l’onestà fa rima con Rodotà: va bene e ne scandiamo il nome finché non ne chiedono conto a noi. Poi però… Poi però la gente somiglia ai politici. E viceversa. E serve un rivolgimento molto più profondo che delegare la propria voglia di rivoluzione ai testimoni di Ge(n)ova del vaffanculo. Servono un cambio culturale e una classe dirigente decente.

In sintesi: esistono magistrati ladri, giudici incapaci, toghe velleitarie. Ma per riformarle, e ce n’è bisogno, chi sta al governo dovrebbe farsi carico della legalità (se possibile con qualche provvedimento concreto per esempio sull’evasione fiscale) e usare il consenso per dare al Paese l’unico messaggio rivoluzionario possibile: me ne batto i coglioni se anche i ladri vanno alle urne, io voglio i voti degli onesti. E di chi si è adeguato all’andazzo per comodità, come ci adeguammo al fascismo per pigrizia. E dunque potrebbe essere recuperato facilmente. Dimostrandogli che essere perbene conviene anche a lui.

Certo: è che vero i magistrati fanno politica. Davigo, che ai tempi di Mani Pulite passava per l’ala conservatrice del pool, oggi ha detto una cosa politicissima: “Cacciateli voi i ladri, fatelo prima che arrivino i giudici. Pagheranno degli ex, la classe politica ne trarrà giovamento”.

Il problema è che la politica rappresenta il Paese. E anche la magistratura giacobina e inefficiente, quando c’è, rappresenta il Paese. Quindi forse è il Paese che si dovrebbe cambiare. Intanto però il patrimonio di voti viene sfruttato, da tutti, persino da Grillo quando va in Sicilia a dire che la mafia è meglio dello Stato, per dare al popolo la sensazione, diretta o surrettizia, che l’Italia sia irriformabile, che prima o poi una fetta di anarchia dell’illegalità arriverà anche a loro.

Intanto, però, votateci.

Perché alla fine l’unica tutela trasversale, quella per cui si sbattono vecchia e nuova politica, è quella del consenso. La vera malattia dello strano posto in cui viviamo. Insieme all’italianità.

Per la quale nessun ospedale ha ancora trovato il vaccino.

Il caso l’Unità-Raggi: in morte del giornalismo

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(ANSA – MAD) La Virginia Raggi vera è a destra. Ovviamente

Il direttore de l’Unità, Erasmo D’Angelis, pubblica sul sito del giornale un video in cui insinua che la candidata grillina a Roma, Virginia Raggi, avrebbe fatto la corista nella celeberrima hit “Meno male che Silvio c’è”.

Non è vero.

Beccato, si giustifica parlando di “giornalismo 2.0” che – il sunto – lascia al lettore la responsabilità di capire se ciò che gira in rete è falso o no.

Poniamo che il giornalismo 2.0 funzioni davvero così (funziona davvero così: ne parlo tra poche righe) perché cazzo dovrei comprare un giornale, leggere un sito, cercare credibilità nel mediatore della fonte?

Allora hanno ragione i Cinque Stelle (ma anche Renzi: e non è un caso) che predicano la disintermediazione dell’informazione. Ognuno si arrangia da sé e i D’Angelis farebbero meglio ad aprirsi una mesticheria.

Spacciare una notizia falsa e poi, una volta beccati, rivendicarla, è roba quantomeno da esposto all’Ordine, se l’Ordine esistesse ancora. Posto che la Raggi faceva pratica nello studio Previti quando Previti si sapeva perfettamente chi era. Ma su questo che è un dato di sostanza, la battaglia l’Unità non la fa. Perché se stai al governo con Verdini, qualche problema ad accusare altri di incoerenza te lo dovresti porre.

Però.

Però per censurare D’Angelis bisogna avere i titoli. Invece Peppe, non pago di sponsorizzare ogni giorno quel pastiche di sensazionalismo e clickbaiting estremo che risponde al nome di Tze-Tze, ieri ha per l’ennesima volta ritwittato la tesi secondo cui l’Unità è così perché prende i finanziamenti pubblici.

E non è vero.

L’Unità è un giornale che, avendoci lavorato, mi fa prudere le mani ogni giorno. Ha un rapporto con la realtà discutibile e fa da manganello sulle minoranze interne.

Ma non prende soldi pubblici.

L’ho scritto, e sono arrivate alcune sentinelle del vaffanculo a contestare: chi postava i fondi ricevuti dalla vecchia e fallita Unità, chi ricordava i soldi spesi per ripagarne i debiti, chi diceva che nel 2014… Sì: ma siamo nel 2016. L’Unità ha un altro editore, un direttore che spaccia fesserie sulla Raggi, ma di quel giornale non è erede se non per la testata. Il resto, compresa la linea politica (soprattutto) non c’entra nulla.

Qualcuno ha anche ricordato che l’Unità è editata dal Pd (non è vero: il Pd ha una piccola quota) e quindi prende i fondi del Pd. Che sono pubblici. Ma giocando a questo gioco si potrebbe obiettare che (al netto dei 3500 euro su 15000 che i pentastellati versano nel fondo di Stato per le Pmi) i gruppi parlamentari a Cinque Stelle prendono tutti i denari pubblici necessari a tirare avanti la carretta. Perché le fotocopie costano, la politica gratis è una palla, specie quella sul territorio (che è campagna elettorale) e alle balle del MoVimento autosufficiente non crede manco Casaleggio junior.

Ma Peppe l’ha sparata, tanto che gli frega. Se siamo al centottomillesimo posto delle famose classifiche sulla stampa non è mica colpa di chi intimidisce i giornalisti, dei politici che vogliono trombettieri, di chi si erge a paladino della libertà e poi spara melma nel ventilatore della comunicazione come un D’Angelis qualunque.

E i suoi gli hanno creduto, generando l’ennesima ondatina di indignazione contro chi faceva notare che no, è una bugia. Perché lui e il direttore de l’Unità fanno lo stesso mestiere: propaganda. Ed è per quello che, nel mio piccinissimo, li tratto e li tratterò esattamente allo stesso modo.

Perché uno (Peppe) vale uno (Erasmo).

Gira la ruota.

Perché è proprio vero: il terrorismo non si sconfigge con l’ideologia

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Ma se ti trovi la pistola puntata di un terrorista islamico, che fai, ti metti a dialogare?

Certo che no. Anche perché verosimilmente quella pistola spara un attimo dopo, e da morto avrei ben pochi argomenti.

Però. Però francamente avete rotto i coglioni con queste accuse di buonismo solo perché noi ci si interroga su come fermare la mattanza senza dare a chi ci uccide pretesti per farlo.

In questi giorni nessuno o quasi ha voglia di dirlo, perché in Italia, a tutti i livelli, se non segui il senso comune sei un povero idiota. Quindi finisce che lo alimenti, e diventiamo sempre peggio. Ma la domanda andrà pur fatta: perché delle decine di morti in Turchia ci siamo interessati poco o niente?

E perché ci sembra naturale che a Baghdad, ad Aleppo, o in qualunque area desolata in cui “si ammazzano tra loro” la gente salti per aria proprio come a Bruxelles?

Perché chi muore scappando da quella guerra ci tocca il tempo di un hashtag, e solo se giace composto sulla battigia con una maglietta rossa che lo fa somigliare ai nostri figli?

Probabilmente perché le riteniamo guerre che non ci riguardano. Ecco: sapessimo coniugare i verbi, adesso servirebbe l’imperfetto. Non ci riguardavano. Ora ci siamo dentro.

E siamo dentro a un impasto convulso nel quale la fede fa da detonatore a un coacervo di risentimenti che metà del mondo cova nei confronti dell’altra. Non importa quanto giusti o sbagliati, l’importante è che poi esplodono.

I kamikaze di Bruxelles avevano un passato di delinquenti comuni. Sbandati, li definirebbe uno come Sallusti. Facili da reclutare e infarcire di odio anche piuttosto grossolano. Il testamento di uno dei portatori di morte è indicativo: livello espressivo di un post su Facebook, motivazioni non molto diverse da quelle per cui si banna qualcuno o si mette un like.

Se si parla di integrazione, il riflesso condizionato – anche il mio, mica sono San Francesco – riguarda sempre “loro”. Quando vedo un uomo vestito come Michael Jordan accanto a una donna col Niqab, m’incazzo. Però in fondo è un processo che conosciamo bene: il più forte dei due, in questo caso l’uomo, accede agli stilemi occidentali quasi a pieno titolo, ostentandoli. Lei gli sta accanto coperta e senza diritti.

Ora traslate quell’immagine: Michael Jordan siamo noi, la ragazza che somiglia una cabina è l’immigrato.

Che effetto fa?

Oggi il Manifesto racconta di come l’Isis sia diventato popolare, nelle periferie occidentali, nelle Molembeek di mezzo mondo. Non diversamente dai luoghi infestati dalla mafia in cui tra guardie e ladri il popolo sceglie i secondi. E Bill Emmott, su La Stampa, in un pezzo nel quale esorta tra l’altro l’Italia a darsi da fare per davvero, in Libia, ché tanto – aggiungo io – siamo già nella lista e tanto vale agire, menziona una parola a mio parere decisiva: credibilità.

Possono i singoli governi essere credibili nella lotta al terrore quando anche l’ultimo dei picciotti jihadisti sa che scendono a patti tutti i giorni, per mere ragioni economiche? Può il nostro modello democratico ostentare una superiorità culturale, salvo accordarsi col regime turco, dieci secondi dopo, per toglierci dalle palle gli straccioni che scappano da morte e persecuzione?

Attenzione: certo che c’è un problema militare. Certo che va affrontato. Certo che una radice importante dell’Islam (come diceva la Fallaci con l’Ak47 in mano, come scrive molto meglio il poeta siriano Adonis) è saldamente piantata nel terreno dell’intolleranza verso i cosiddetti infedeli.

Ma è, quello, un collante ideale che è diventato prassi solo dopo aver incubato l’Isis, con la nostra fattiva collaborazione. E per sconfiggerlo temo occorra una prassi uguale e contraria che prevede sì molti controlli in più (che non basteranno: davvero pensiamo sia colpa solo dello sgangherato Belgio?) ma anche una rivoluzione radicale che comincia da gesti di compassione concreti nei confronti di chi dell’Isis è vittima, ma viene rimandato a casa a calci in culo quando cerca di sfuggirne.

Macinando altro risentimento che si mischierà a esplosivo, vetri, chiodi.

Non armare le menti di nuovi terroristi, al di là di ogni presunto buonismo, mi pare un atto parecchio concreto. E, sul lungo periodo, prima del quale certamente pagheremo altri prezzi, decisivo.

Perché mi piacerebbe fosse chiaro una volta per tutte: quelli ideologici siete voi.