Di “bastardi islamici”, social network e altre futilità

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Ho elaborato un concetto di alta sociologia: se stai in un posto di merda, più facilmente diventi un terrorista.

E non parlo di Raqqa. O dell’Afghanistan piagato dai nostri scarponi. O di Aleppo, che era un luogo bellissimo, un crocevia di convivenze, prima che lo radessero al suolo mentre noi (pure io) ordinavamo tranquilli l’ennesimo Pastis.

Parlo del Belgio.

Che per molti versi è un luogo davvero tremendo. E non pensate a Moolenbeck, il ghetto di Bruxelles che ha fatto da innesco per le volontà omicide di 500 foreign fighters. Pensate a Liegi e alle sue periferie terrificanti. Al combinato disposto tra i centri di potere e chi quella vetrina la guarda dalla finestra. All’integrazione fallita in un Paese che sembra l’Italia in miniatura: conflitti etnici con motivazioni ridicole, corruzione, economia basata sull’assistenzialismo, un tempo persino gli anni di piombo della Brabante Vallone, cui si ispirarono quei loschi figuri della Uno bianca.

Se stai in un posto di merda, diventi facilmente violento. Soprattutto se al contempo hai un altro posto in cui combinare le tue identità. Cioè i social. Le pagine Facebook dei tizi che sparavano alla schiena delle ragazze al Bataclan le abbiamo viste tutti: figa, auto, calcio e jihad. L’identikit del capobastone è quello di un paranoico sfottuto al college che ha trovato il modo di farcela vedere, a tutti noi, in questo non dissimile da un qualunque coglione americano che fa strage nella sua scuola. In questo, anche, perfettamente aderente alla presunta civiltà antitetica che sostiene di voler combattere. Mentendo in primis a se stesso.

I social ci hanno abituato a una concezione binaria della vita. Non è colpa loro, ma del nostro profondo che cerca sempre nuove approssimazioni con cui raccontarsi il bisogno belluino di aggredire il prossimo. Ma se quella selezione tribale, ancestrale, grossolana viene affrontata da uno psicopatico col kalashnikov a tracolla, ecco cosa succede.

Un flame. Nel senso concreto del termine.

Perché il mondo non è binario. E un tizio che posta la sua preoccupazione per la campagna acquisti del Paris Saint Germain, può essere lo stesso che salta per aria nel quartiere Saint Denis poche settimane dopo.

Attenzione: non è colpa di Facebook. Ogni guerra si pasce delle tecnologie e del retroterra culturale di cui dispone. C’erano le trincee, nel ’14-‘18. C’erano gli aerei e l’atomica, nel ’40-’45, oggi ci sono i Tweet e i video jihadisti montati come in un film di Francis Ford Coppola. O in un gioco “spara spara” Non è colpa dei social, no, che certificano una malattia endemica. E ne hanno solo modernizzato la propaganda, e gli esiti.

Quando ero bambino, vicino a casa mia abitava una signora zoppa e gentile. Claudicava per via di una pallottola nazista che le era finita in una gamba mentre si fingeva morta, a Marzabotto, sotto un mucchio di cadaveri. Proprio come l’altro giorno in un camerino di Parigi, o in un ascensore maliano. Uomini e donne inconsapevoli. Innocenti. Terrorizzati. Col sangue altrui come cuscino. Dalla parte sbagliata di una guerra che non avevano dichiarato. Senza alcuna responsabilità se non quella del tutto incidentale, inevitabile, di non essersi accorti per tempo della tirannia e averla debellata, con uno di quegli atti di coraggio che chiediamo facilmente agli altri (gli islamici “moderati”) e non sappiamo compiere noi, quando si tratta di mettere in campo piccoli gesti politici di onestà e di contrasto quotidiano alla mentalità mafiosa che tutti ci permea.

E permea tutta l’ipocrisia cosiddetta occidentale.

In questi giorni abbiamo scritto, in molti, che la miglior risposta al terrorismo è continuare la vita di tutti i giorni. Ristoranti, sesso, divertimento, cinema. Ora: a parte il fatto che pagherei, per vivere davvero così, ma temo non basti. Temo che oltre alla normalità ci sia bisogno di un altro sostantivo: la consapevolezza. Che passa attraverso la conoscenza. Nessuno di noi, io per primo, sa esattamente come e perché i sunniti combattono gli sciiti, chi arma chi, quali connivenze internazionali hanno favorito l’Isis. Molti credono di saperlo perché leggono i giuliettochiesa o altri complottisti acrobatici che ripetono loro una sola verità: è colpa di altri poteri, tu non c’entri.

Tu nei sei fuori.

Ognuno di noi che non sappia, che non provi curiosità di conoscere, che rimuova più o meno scientemente la parte del mondo che incuba odio, e ne semina i germi in questa landa del pianeta, quella cui abbiamo dato il tasto “condividi” senza condividere un cazzo d’altro, chi ci attacca perché ci somiglia troppo, e lo sa, e appiccica ideologia e religione a uno scontro tribale che – tra l’altro, ma non è tutto lì – favorisce interessi economici, chi, insomma, riduca tutto al derby tra “bastardi islamici” e resto del mondo, probabilmente si crederà assolto.

Ma resta per sempre coinvolto.

“Il mondo di Joey”. Una recensione

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Da ieri è sul web la saga a puntate dei Saputo, l’uomo che partì da una mozzarella e arrivò a quella scamorza di Mbaye. Alla scoperta di una docufiction che cambierà la rete. In attesa di segnarne qualcuna.

In attesa di Netflix, che presto rivoluzionerà le nostre abitudini televisive, “Il mondo di Joey” sulla vita di Joey Saputo è forse la serie più rivoluzionaria dai tempi di “Mork & Mindy”.

Il documentario a puntate, di cui la casa madre ha rilasciato ieri sul web il primo episodio (si direbbe pubblicato, non rilasciato, ma ormai l’italiano è una lingua morta), rappresenta un’eccellenza assoluta non già e non solo per la scoppiettante simpatia del presidente, non soltanto per il tema di struggente attualità, o per il valore pedagogico d’insieme, quanto e soprattutto per l’avvincente impatto narrativo che trascende il normale linguaggio giornalistico e sfocia nell’arte applicata alla divulgazione.

Il primo episodio è una straordinaria miscela di generi.

La base musicale ricorda Fargo, dei fratelli Cohen. I rimandi all’infanzia siciliana sfiorano il coté (ma non la storia) di Lilyhammer, il capolavoro a puntate di Steve Van Zandt. Il montaggio a sincope, i panorami metropolitani a pioggia, la raffinata alternanza di architettura avveniristica e meeting di lavoro, delineano una versione parzialmente scremata di The Wolf Of Wall Street. Senza i wolf, senza Wall Street, e soprattutto con un’unica sostanza bianca: il latte.

“Il mondo di Joey”, lungi dall’essere una risposta piccata al mondo di Joe, il cui storytelling para-renziano è appena sbarcato in Laguna, ha il pregio raro della verità. C’è un di che zavattiniano, nel lungo racconto autobiografico del protagonista. Da quella vasca di casa nella quale galleggiavano paperelle e mozzarelle prive di certificazione dell’Asl, emerge un pezzo d’Italia migrante e vincente che con appena 500 dollari d’investimento iniziale si compra un’azienda molto più grande nel giro di un anno.

C’è De Sica, nella bici con la quale Saputo senior consegnava i formaggi per la pizza proprio quando la pizza sbocciò nella terra degli aceri. C’è Luigi Zampa e il suo “Bello, onesto…” nel nonno che sbarca in Canada per prendere la rincorsa verso gli Usa. C’è Mal dei Primitives, nell’accento con cui Joey descrive la sua poderosa scalata al successo. Se ieri sera avete trovato Internet più lenta del solito, è perché la folla si accalcava a scaricare “Il mondo di Joey” per condividerlo con gli amici. In attesa della seconda puntata, giovedì prossimo, cui si spera faccia da teaser un film di fantascienza domenica a Torino: il Bologna che esce vivo dallo Stadium.

Giudizio critico: due palline.

Uscito sul Corriere di Bologna

E il buon samaritano disse: “Documenti, prego”

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Durante il pontificato di Benedetto XVI la Chiesa non era esattamente popolarissima. I testimoni di Geova, quando un cattolico gli suonava il campanello la domenica mattina, fingevano di non essere in casa.

L’ascesa di Papa Bergoglio ha sparigliato i santini, e oggi il successore di Pietro è un fenomenale pastore di anime e l’icona pop del nuovo millennio. Un comunicatore inimitabile che, senza intaccare i dogmi, ha riscritto la percezione di ciò che prima appariva un pachiderma addormentato slegato dalla società.

In questa ottica, la nota del cardinal Caffarra sui profughi, quella sulla necessità di assistere solo chi già si conosce, non può essere che manovra di riallineamento. Il tentativo di quello che i pubblicitari chiamano downgrade. La sassata in piccionaia per riequilibrare la luna di miele tra fedeli (ma anche no) e paramenti, e ricordare che non di solo Twitter vive l’uomo.

Certo: le cronache recenti raccontano di una frangia apertamente ostile a Francesco, cui non sarebbe estraneo anche il presule bolognese che ha vergato la piccola enciclica dell’accoglienza, sorta di “De rerum antiquarum”.

Ma da mangiapreti (e pure mangiabambini) mi rifiuto di crederlo. Preferisco pensare al perfetto accordo. Al gioco di squadra. Allo schema di cui sopra. Però.

Però, se c’è una cosa che persino gli anticlericali hanno sempre riconosciuto alla Chiesa è la diuturna assistenza a chi soffre. La Caritas dà gambe alla solidarietà ed è rispettata perché, tra l’altro, purtroppo, sgrava la coscienza di chi esprime vicinanza a parole ma poi non le abbina fatti concreti. Laico o religioso che sia.

Derubricarla a centro di accoglienza minore che identifica burocraticamente chi può essere aiutato (e chi no) rischia di rappresentare, oltre che un’aperta sfida alle parole universali del Papa, una vigorosa disillusione per chi immaginava un un entusiasmo morale condiviso tra laici e cattolici.

Un tizio importante (forse Fromm, forse Marcel Marceau) sperava in un mondo nel quale i cattolici vivessero come se Dio non esistesse e gli atei si comportassero come se ci fosse un Dio. Meglio se misericordioso.

Quindi, se quello di Sua Eminenza era marketing condiviso, rischia di essere controproducente.

A meno di non emendare quel bel libro che imparai a conoscere al catechismo. Forse ricordo male, ma non mi pare che le prime parole del buon samaritano fossero: “Documenti, prego”.

Uscito sul Corriere di Bologna

Buonisti un cazzo. E viva l’Italia

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Un mese fa, o poco più, l’emergenza migranti è stata gestita dai cittadini milanesi con entusiasmo ed efficienza. La stazione era piena di persone comuni che distribuivano viveri, vestiti, informazioni. Attorno a loro lavoravano alacremente le forze dell’ordine.

Ogni giorno navi della nostra Marina militare salvano vite umane nel Canale di Sicilia. Lo fanno pure ora che la missione Mare Nostrum è diventata Triton, anche sulla spinta di Merkel e C., e teoricamente avrebbe valenza ben poco umanitaria.

Associazioni religiose, laiche, semplici cittadini si incaricano quotidianamente, in una sorta di Resistenza civile, di equilibrare l’Italia orrenda e diffusa che sfrutta i clandestini. Un’Italia trasversale che parte dai campi di pomodori del sud e arriva fino alle Langhe, dove i raccoglitori d’uva sono schiavi ucraini e moldavi.

Siamo un Paese molto migliore di quel che crediamo di essere.

Ma ce ne vergogniamo.

Chiunque dica o anche faccia cose concrete per i più sfortunati viene deriso, tacciato di secondi fini, assimilato ai Buzzi, definito col più rotondo e sgraziato degli aggettivi: buonista.

Beh, buonisti un cazzo.

Buoni, semmai. Non perfetti, non santi, non intangibili. Ma buoni. O, se preferite, migliori. Migliori di chi gorgoglia razzismo più o meno mascherato e cerca sempre un nuovo pusher di palle – giornali, politici, buffoni vari che lucrano sull’intolleranza – con cui giustificare la propria coscienza livorosa.

Gente che magari ciancia di patriottismo, di difesa della bandiera, di identità nazionale. Gente che deve sapere una cosa: proprio quella vergogna ha appena tenuto l’Italia fuori dai libri di Storia.

Perché la Germania avrà certo operato – anche – un calcolo, aprendo ai profughi siriani. Avrà anche spalancato le frontiere perché con un’economia così solida l’impatto può essere retto più facilmente. Avrà anche deciso di ribaltare l’inerzia della propria percezione all’estero dopo essere stata vissuta in giro per il Mondo come la carnefice della Grecia e la punta di diamante della Troika o di chi volete voi.

Fatto sta che ha reagito alla prima vera emergenza nazionale come umilmente mi ero permesso di suggerire al nostro amato Premier  “Accogliamoli tutti”.

E che quella solidità, quell’economia intonsa, quell’orgoglio di popolo, vengono da un Paese che non evade 300 miliardi di tasse l’anno, che distribuisce diritti ai propri cittadini perché sa chiedere i doveri, in cui c’è qualcuno che prende una decisione impopolare sul fronte interno, a forte rischio terrorismo, semplicemente perché la considera inevitabile.

Noi no. Noi titilliamo i ladri, soprattutto quelli della porta accanto, e accettiamo che un Paese largamente corrotto sia ineluttabile. Chiediamo loro il voto anche da sinistra, dando de facto dei babbei a chi si comporta decentemente. Nonostante tutto.

Li deridiamo se siamo di destra. Dicendo che non ci sono i soldi. Quelli dell’Iva che ci teniamo in tasca.

Per questo, su quei libri, ci sarà un poliziotto di Monaco e non un marinaio di Lampedusa. Per questo potevamo fare la Storia, e ancora una volta l’avremo subita. Per colpa di una minoranza vincente che applaudirebbe i migranti solo se sfilassero dentro a una cassa di legno.

Viva l’Italia.

Qui non c’è una foto choccante

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fotoAnni fa Vittorio Sgarbi posò nudo per la copertina di Panorama.

Chissenefrega, dirà il lettore.

Un attimo.

Anni fa Vittorio Sgarbi posò nudo per la copertina di Panorama e su Cuore, settimanale satirico piuttosto noto nei roaring Nineties, pensammo di perculare lo scandalo che ne derivò pubblicando il nudo di un lavoratore metalmeccanico che, a differenza di Sgarbi, mostrava fieramente anche il proprio importante basso ventre.

Tradotto per Salvini: faceva vedere pure l’uccello.

Il titolo recitava: “Nudo operaio: è più scandaloso quello che ha tra le gambe o quel che non ha in tasca?”.

L’iniziativa ebbe successo.

Allora pensammo di alzare il tiro. Di alzarlo molto. Si era nel periodo, se non ricordo male, dell’annuale lamentazione sterile sull’abbattimento del Dc9 di Ustica, la cui icona – per chi abbia la mia età – è una sola: la foto di un passeggero seminudo il cui corpo galleggiava sulle onde del mare.

Volevamo titolare così: “Nudo di Stato”.

Chiamai personalmente Daria Bonfietti, che presiedeva l’associazione familiari vittime di Ustica, per chiedere una sorta di consenso. Mi industriai a raccontare il motivo della scelta, la nostra buonafede, la possibile valenza liberatoria e accusatoria.

Non volle.

E noi non pubblicammo la copertina.

Ciononostante, o forse perché quell’idea estrema era anche mia, sono fieramente d’accordo con la scelta del manifesto che ha deciso di mostrare ai propri lettori l’immagine del piccolo migrante arrivato senza vita sulle spiagge della Turchia.

Sono d’accordo con quel titolo, “Niente asilo”. Condivido forma e sostanza del combinato disposto con l’immagine. Credo rappresenti la naturale mediazione giornalistica di una testata che ha sempre battagliato sui diritti dei popoli meno felici e oggi può a ottima ragione scalciare la pancia di chi si adonta, di chi grida allo scandalo, di chi maltollera la cruda verità che ogni giorno qualcuno rimuove, qualcuno rivendica.

Sono d’accordo perché il mezzo è il messaggio. E perché nei giorni scorsi, quando le prime immagini del disastro umanitario cominciavano ad affollare le bacheche, mi ero chiesto se non potesse essere giusto riversarle sulla bacheca, dico un nome a caso, di Matteo Salvini. Qualcosa del tipo “Bambini per Salvini”.

E mi ero risposto di no. Perché si rischiava di insegnargli un linguaggio. Ero certo avrebbe risposto, fatta decantare la provocazione e assorbiti gli stilemi del caso, postando immagini a caso di italiani con le pezze al culo, italiane molestate da stranieri, varie ed eventuali a stampo razzista.

Questo è il motivo per cui pensavo fosse sbagliato diventare mediatori in proprio di quella disperazione, perché il protagonista sarei diventato io, il mio ego, la mia rivendicazione di stare dalla parte del bene, il mio lavacro della coscienza – che resta niente affatto candida, perché sul tema sono un leoncino da tastiera come quasi tutti -.

Se poi voi l’avete fatto, avrete certamente avuto i vostri ottimi motivi.

Ciao.