Hotel Garbatella

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Roma, taxi.

L’auto è una Chevrolet Captiva.

Io non la comprerei mai, una Captiva. Ha un nome del menga ed è troppo aggressiva. Ma così, per il puro gusto della conversazione, comincio a informarmi su come funziona chiacchierando col tassista.

Ne parla bene. Per mostrarmi quanto sia efficiente, me ne magnifica l’impianto stereo. Lo pompa al massimo, proponendomi in sequenza alcuni brani dal suo tablet: “Il mare d’inverno” di Ruggeri, versione Bertè. Poi quella roba di George Michael ed Elton John (“Don’t let the sun eccetera”) e infine “Hotel California” degli Eagles in quella che definisce con un certo orgoglio una versione reggae, scaricata dal web.

Non è reggae. E’ solo live. Acustica.

E l’impianto fa schifo. Gracchia.

Transit.

A un certo punto suona un telefono. Non è il mio. Non è il suo. Chiede se è il mio. No. Poi estrae un iPhone (5, direi) dal cruscotto. Sul display campeggia un numero col +1 davanti. E’ americano. Il taxista non fa una piega. Poi, non richiesto, si giustifica: l’hanno lasciato quelli di prima, che aveva portato a Fiumicino.

Gli dico: se vuol rispondere… magari glielo riporta e gli pagano la corsa. Abbozza qualcosa. Ma non risponde.

Dopo qualche minuto (nel frattempo siamo quasi a Termini: ha comunque allungato la corsa parecchio: spenderò 25 euro per un tragitto che di solito pago 16/17) il telefono torna a squillare. Stavolta prende la chiamata. Dall’altra parte parlano inglese. Lui risponde “Go back in airport. No, no possible. Go back in airport”. Non è in grado di capire cosa gli dicono, né di accordarsi per la riconsegna.

Sta recitando, per me.

Mi offro per tradurre nel mio inglese stentato. Dice che non importa. Che ora va. Che quei due però, uno al terminal 1 e l’altro al terminal 3… che “se hai fretta – testuale – il taxi non lo devi prendere”. E ‘sti due fresconi, eccetera. E me tocca pure de parla’ inglese. E via così.

Arrivati.

L’americano non rivedrà mai più il suo telefono e un signore molto fiero del suo stereo del cazzo, con della musica opinabile, che però si crede normale, che crede normale essere un po’ ladri, perché in fondo noi siamo così, dolcemente complicati, avrà chiuso la giornata derubando un tizio che si era affidato a lui.

Non so a voi ma a me, più che Hotel California, sembriamo un Paese Desperado.

Matrimoni gay: Ivan, magna pure tranquillo

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Conosco Ivan Scalfarotto da anni. Superficialmente, ma abbastanza per stimarne il nitore personale e la passione politica.

A suo tempo gli feci pure endorsement per le primarie Pd.

Però.

Però, quando ho letto che è in sciopero della fame per ottenere il riconoscimento delle unioni civili ho assistito al curioso fenomeno fisico del mio apparato riproduttivo che precipitava verso il centro della Terra.

Questo perché, credo di non sbagliarmi, Ivan Scalfarotto è al Governo. Quindi, invece di – o oltre a, veda lui – rinunciare ad alimentarsi, basterebbe che prendesse la parola durante il Consiglio dei Ministri e dicesse: “Raga, ma ‘sta roba incivile quando la mettiamo a posto?”.

In alternativa – o inoltre, veda lui – potrebbe prendere la parola in parlamento e cercare una maggioranza sui matrimoni (questo devono essere: matrimoni) per dimostrare che in Italia non solo la legge, ma nemmeno le parole, possono essere rivendicate da una sola religione.

Potrebbe tentare di stanare quelli che “uno vale uno” su una modesta proposta di civiltà. Gli regalo anche lo slogan: “Due valgono due”.

Invece (per ora) ha smesso di mangiare.

Coraggiosamente,

Per motivi nobili, incontestabili, condivisibili.

Però quello potrei farlo pure  io, e forse mi farebbe bene. Solo che sono meno coraggioso di Ivan. Ma ho anche meno possibilità di cambiare le cose. Perché a differenza sua non sono al Governo.

Anche se, come lui, nessuno mi ha votato per esserci.

O, perlomeno, nessuno ha votato per mandarmi al Governo con quelli che una legge sui matrimoni gay non la voteranno mai.

Visitate la Tunisia – Visitez la Tunisie – Visit Tunisia – Besuchen Sie Tunesien

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bambina-tunisinaNon sono mai stato in Tunisia.

Mi piacerebbe andarci ora.

Avere il piccolo coraggio necessario.

Mi piacerebbe – di più – che una campagna d’opinione internazionale riempisse la Tunisia di turisti.

Mi piacerebbe che insieme, con un gesto concreto, rispedissimo al mittente la strategia rozza ma chiarissima dell’Is: uccidiamo la normalità per imporre la dittatura fondamentalista.

Al momento, è molto probabile che ci riescano.

L’ovvia reazione delle ambasciate, dei Ministeri dell’Interno, dei tour operator, è stata quella di avvisarci (ora: bravi) che quel luogo del mondo è pericoloso. Dunque è giusto stare a casa.

Ma così facendo abbandoneremo il bambino che barcolla sulla via della democrazia compiuta. E lo lasceremo in balia di chi i bambini li fa esplodere, li disprezza, come le donne, cui nega l’identità, come gli uomini di buona volontà, di tolleranza, chiunque preferisca la luce dell’imprevisto alle tenebre della certezza teocratica.

Andiamo in vacanza in Tunisia.

Andiamoci adesso. Compiamo un gesto non violento eppure fortissimo per contrastare chi spara agli indifesi.

Andiamo in Tunisia.

Cerchiamo le tracce dei berberi, dei romani, degli arabi, dei fenici, prima che qualcuno arrivi a ripulirle. Andiamo a inseguirle su una spiaggia, nel parco nazionale di Ickeul, tra le rovine di Cartagine, dentro un piatto che somiglia ai nostri e neppure siamo perché.

Andiamo in Tunisia. Magari da non soli. Magari in modo visibile, in tanti.

Visitiamola.

Prima che la Tunisia sia costretta a fuggire di casa.

E visiti noi.

Matteo Renzi e i migranti: un discorso coraggioso

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Dallo spin doctor di Matteo Renzi riceviamo e volentieri pubblichiamo il discorso che pare voglia tenere di qui a poco al parlamento europeo. Sembra roba un filo velleitaria, ma interessante.

di Matteo Renzi

Buongiorno a tutti.

Prendendo la parola in questo consesso europeo sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me. Ma spero che questo mio breve intervento, forse tardivo, renda giustizia alla grandezza del Paese che rappresento e all’intelligenza di chi mi ascolta.

Durante il Semestre Italiano di presidenza europea abbiamo sottovalutato il problema dei migranti. Noi per primi. Non abbiamo cercato una soluzione condivisa per motivi che ritenevamo strategici, e invece erano puramente tattici. Speravamo di ricondurre il problema ad accordi negoziali tra le nazioni dell’Unione, o alla revisione di quelli esistenti.

Gli sbarchi quotidiani sulle coste italiane, i cammini delle speranza di chi parte dall’Africa subsahariana e tenta di passare per l’Ungheria, i tentativi di passaggio dal Marocco alla Spagna, e dalla Francia al Regno Unito, richiedono una risposta immediata, ampia e, userò un aggettivo che in parte spaventa anche me, generosa.

Nel mio Paese, e da quel che leggo anche nei vostri, coloro che si oppongono alla tensione razzista, e a chi si ne fa scudo per lucrare consensi, si sentono rispondere con scherno: “E allora accogliamoli tutti”.

Allora, oggi, questo sento il dovere di comunicare agli illustri colleghi del parlamento europeo: noi faremo proprio così. Li accoglieremo tutti.

Li accoglieremo e forniremo loro un permesso di soggiorno temporaneo che li regolarizzerà su tutto il territorio europeo.

Ciò risponde a un’esigenza tattica, ma anche strategica.

Tatticamente, diciamo con forza all’Europa che le nostre frontiere sono le vostre frontiere. Condividiamo ciò che adesso è un problema, e non possiamo che risolverlo insieme: ne va dell’Unione.

Strategicamente, ci diciamo tutti insieme che la rivoluzione da compiere è molto più profonda, che i nostri strumenti sull’asilo politico sono inadeguati al presente, che bisogna prendere atto di come sia impossibile separare chi fugge dalla miseria da quelli che scappano anche dal terrore e dalle persecuzione perché le tre condizioni – miseria, terrore, persecuzione – sono frutto delle politiche che anche noi, Europa, abbiamo applicato negli ultimi duecento anni.

La consapevolezza montante delle nostre responsabilità è inoltre benzina per gli estremismi tutti, copertura ideologica per gli Stati Islamici più o meno autoproclamati e, dunque, un pericolo molto più reale che la gestione collettiva e consapevole di un flusso migratorio che nasce da evidenti esigenze di sopravvivenza.

E’ una posizione complessa, per molti versi impopolare, che certamente comporterà prezzi da pagare. Al mio governo, in termini di voti. Al mio Paese, in termini di rapporti bilaterali con Paesi amici, gli stessi Paesi che hanno già abolito Schengen senza dircelo e considerano l’Italia niente di più che una battigia lanciata in mezzo al Mediterraneo. Anche la Gran Bretagna, che ha come capitale la città più multiculturale del Mondo.

Ma appunto non è più il momento di tattiche. Un grande italiano, Alcide De Gasperi, citando un teologo americano, diceva che i politici guardano alle prossime elezioni, gli statisti alle prossime generazioni. Noi abbiamo meno tempo. Quando tornerà a farsi sentire l’odore disgustoso dell’esplosivo, nelle nostre strade pulite, laddove crediamo scioccamente di essere al sicuro, dovremo aver quantomeno avviato un percorso culturale che costruisca una nuova e duratura stagione di pace. Dovremo opporre la ragione all’isteria. La coscienza alle viscere.

Dovremmo vincere, senza combatterla, la Terza Guerra Mondiale.

Per questo chiedo, oggi, un rivolgimento epocale delle politiche europee sull’immigrazione. Chiedo di non anteporre gli interessi commerciali alla dignità delle vite umane. Di rivedere la politica economica verso l’Africa con una rivoluzione di sistema che rimuova lo sfruttamento e crei, al contempo, nuove opportunità di guadagno, reciprocamente sostenibili. Richiamo l’Europa a quei valori cristiani che avremmo voluto inserire tra le radici della nostra Costituzione. Valori che contemplano la solidarietà al primo posto. Il bene che chiama il bene. Che tenta di convertire un guaio in una risorsa.

Adesso.

Chiedo di compiere, qui e ora, un atto di coraggio collettivo per il quale i nostri figli ci ringrazieranno.

Accogliamoli tutti.

Grazie per avermi ascoltato.

English version on Quartz

Di anni di piombo che non finiscono mai, trasmissioni tv e altre vicende piuttosto pesanti

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Anni fa mi capitò di lavorare ai prodromi di un programma che poi non feci: Hotel Patria, condotto da Mario Calabresi.

Partecipai non ricordo se a una o due riunioni preliminari, poi fui risucchiato da altre produzioni e ne rimasi fuori. Con dispiacere. Ne nacque una trasmissione aggraziata, di quelle che una volta si definivano di “servizio pubblico”. Forse perché non c’ero io.

In quelle due riunioni, Calabresi mi parve un raccontatore formidabile. L’entusiasmo con cui parlava delle sue scuole elementari, a Milano, e di come quei banchi fossero oggi occupati da giovani italiani provenienti dal tutto il mondo, e la volontà di spiegare in tv la normalità dell’immigrazione, la sua ineluttabilità, la sovrapponibilità con gli esodi dal sud Italia degli anni ’60, mi colpirono molto. Idem per la passione che mise descrivendo di un suo blitz alla Ferrero, ai primordi della professione, quando l’ormai defunto capostipite gli aveva disvelato storie inedite di ovetti e Nutella, a patto che non ne facesse parola all’esterno. Appena finito il giro – spiegava – corse fuori e scrisse tutto sul taccuino, ripromettendosi di usare il materiale solo a intervistato defunto. Per non tradire il patto. Per raccontarne la grandezza. Non l’ha poi fatto: forse il patto gli sembra ancora valido.

Non lavorai a quel programma, e mi dispiacque, perché avevo un’idea che mi è tornata in mente oggi, dopo la polemica sulla nomina (subito rientrata) di Adriano Sofri a consulente per la riforma carceraria. L’idea era quella di un atto simbolico tra persone intelligenti. Era un’idea naïf, apparentemente paracula, ma non era stata pensata per esserlo. Io avrei voluto che Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi, incontrasse davanti alle telecamere Luca Sofri, figlio di Adriano. Avrei voluto, gliel’avrei proposto, non feci in tempo, che due menti laiche e generose, unite loro malgrado da quella cappa insopportabile che ancora innerva la parodia della politica di questo Paese, si raccontassero a vicenda quel che era stato. Avrei voluto una cerimonia. Non so se conclusiva. Certamente, nelle intenzioni, catartica. Un rito di laicità.

Quei due cognomi, quelle due persone, erano gli unici titolati ad affrontare l’argomento. Così come oggi sono stati legittimi, quasi dovuti, il tweet del direttore de La Stampa contro la nomina di Adriano Sofri e il passo indietro che questi ha subito compiuto. Però, ecco, anche se quel programma non si farà più e nel frattempo io mi occuperò forse più utilmente di facezie mattutine, continuo a pensare che sarebbe bello e quasi necessario un passo avanti. Per lasciare sullo sfondo i vari sindacati di polizia fascistoidi e i nostalgici (e gli eredi) della violenza politica, che oggi ci hanno intasato le timeline.

E’ molto possibile che sia tutto ancora troppo fresco perché il mio desiderio abbia un senso, ed è praticamente certo che io non abbia alcun titolo per renderlo pubblico. Però ormai l’ho fatto. Qui siamo. Ma a volte, non so voi, io sento un importante bisogno di altrove.