L’intervista doppia di Renzi su Repubblica (pagina 3, come il suo consenso elettorale) e di Di Maio (pagina 7, come il voto che in vita sua non ha mai preso neanche per sbaglio) ci dice molte cose sul futuro del Governo. Alcune le sapevamo già, e attengono sia al trecartismo del leader di Italia Viva, sia all’insipienza pericolosa di un Ministro degli Esteri che non sa di esserlo e non fa nulla per nasconderlo. Altre risultano meno evidenti, ma portano tutte in un’unica direzione: il Pd non esiste e si sta facendo invischiare in una lotta muscolare per cui non possiede i muscoli.
Spiego: le ultime elezioni hanno conferito al Partito Democratico post renziano il 18 per cento dei voti. Al ramo politico della Casaleggio Associati, il 33. Sembra incredibile anche a me, ma è andata così. Che fossero ere geologiche fa è rilevante ma non dirimente: in Parlamento, benché stiano esplodendo, i grillini contano ancora una rappresentanza molto più folta dei loro alleati di Governo ed è per questo che hanno espresso il presidente del Consiglio. Figura di rara modestia ma legittimata a stare lì, tra l’altro in opposizione al richiamo della giungla che Tarzan Di Battista sta lanciando all’ala (se possibile) più sgangherata del MoVimento.
Conte è una figura piuttosto casuale di cui la nostra Storia abbonda. Un trasformista che si definiva populista e firmava senza batter ciglio le peggiori salvinate, un facente funzioni che, da questa parte del mondo, ha un solo merito: due anni fa l’allora Ministro dell’Interno lanciava manifestazioni di piazza contro i migranti. Affollatissime. Oggi no. E se anche lo facesse, sarebbero di opposizione. Con un impatto di torsione democratica infinitamente inferiore.
La parte migliore del presidente del consiglio (non premier: non siamo a Downing Street) è ciò che gli sta alle spalle. Ossia la moral suasion, molto moral, che il presidente Mattarella esercita con provvida determinazione. Nessuno ha mai definito quello attuale un Governo del presidente, anche perché sarebbe offensivo per il Colle. Ma certamente non sono mancati i consigli.
Conte lo sa, di essere Ranocchia al cospetto di Zico. Quindi ascolta.
Quel che sostengo, dunque, è questo: il Partito Democratico ha ottime ragioni per considerarsi insoddisfatto di un Governo nel quale la viceministra dell’Economia è una che non aveva passato l’esame da commercialista. Però, come diceva Schopenhauer, tra il dire e il fare c’è di mezzo “e il”. E tra il Pd e una sorte magnifica e progressiva ci sono i voti che non ha e verosimilmente non avrà, costituendo al momento nient’altro che un bene rifugio, senz’altro indispensabile ma poco appetibile per chi si tura il naso dal 2007 a oggi.
Nel frattempo, non c’è traccia alcuna della rivoluzione culturale che, sola, potrebbe portare la sinistra riformista a vincere. Non c’è traccia di un’analisi a specchio coi propri sostenitori residui, non c’è traccia di una progettualità che vada oltre giochetti di Palazzo il cui joystick, insieme a molti deputati e capigruppo, e in mani esterne al partito.
Pensare di cambiare un Paese seduto, e una base elettorale prostrata, giocando al gioco dei 9 su Zoom con D’Alema è limitato, subalterno, scoraggiante per chi ha visto quell’area politica occupata, sventrata, abbandonata. E perdente. Perché se il Pd continua a delegare battaglie poltronistiche ad altri, finirà con lo scordarsi per cosa combatteva e per cosa dovrebbe combattere.
Per citare un “rieccolo”: un Paese normale. In cui i riformisti non vadano a rimorchio di un centro che non esiste e di un movimento populista su cui bisognerebbe innestare un patrimonio culturale, anziché contendergli poltrone da intestare a qualche caporione esterno.
Oppure: date ‘sta Farnesina a Renzi, così prendiamo due piccioni con una fava e ricominciamo a parlare di politica.
Grazie.