Perché a Roma il problema non è “il milioncino” della Muraro

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(ANSA – DESIGN) Un cestino Ama vuoto. L’opera è esposta al MoMa di New York

Rispetto alla questione dei rifiuti, a Roma, il Pd dovrebbe scavare una buca molto profonda, facciamo una cinquantina di metri, lasciare lo spazio necessario per Alemanno e gli altri stupratori neri della città, ritirarvisi in blocco, chiedere cortesemente, magari all’Ama, di ricoprirla, e uscirne diciamo tra una ventina d’anni, anche venticinque. Solo allora dovrebbe riprendere la parola. Per chiedere scusa.

Altro che lanciare hashtag. Altro che mutuare tristemente linguaggio e temi altrui (i soldi, cristo, sempre l’ossessione per i soldi) chiedendo di spiegare “il milioncino” della Muraro.

Premesso questo.

Non essendo romano, so di Ignazio Marino solo quel che ho letto e ciò che mi hanno raccontato gli amici che colà risiedono. Il giudizio è abbastanza unanime e non brilla per positività. Non capendone niente, da lontano, mi sembrava davvero il marziano che diceva di essere, spesso incompetente, certamente alieno a determinate tradizioni. Prima tra le quali, proprio quella sui rifiuti. Per la gestione dei quali (ripeto: posso sbagliare) aveva operato importanti soluzioni di discontinuità, respinto al mittente vecchi caporioni privati, scelto persone nuove.

Si era fatto, Marino, parecchi nemici: il suo partito, che l’ha fatto cadere dandogli dello psicopatico. E i suoi successori in Campidoglio, che gli davano del disonesto.

La nuova gestione dei rifiuti è affidata a una persona che da oltre un decennio faceva parte del sistema, con l’onere di controllarlo. Le prime mail in cui muove rilievi risalgono all’inizio di quest’anno, e sono con ogni evidenza le mail di una persona sull’orlo di una nomina in Campidoglio. La stessa persona era consulente di aziende, cui prestava il proprio ingegno perché potessero vincere gli appalti presso il Comune di Roma per il quale lavorava. Ha guadagnato cifre molto importanti dal pubblico e dal privato, nello stesso periodo, nello stesso ambito. La persona che ne ha fatto esplodere gli emolumenti era Gianni Alemanno. Il suo sponsor in Ama era Franco Panzironi, coinvolto in mafia capitale, che aveva intestato una società alla segretaria la cui presidente era Virginia Raggi. Cerroni, il ras novantenne dell’immondizia, finito in galera per la discarica di Malagrotta, la adora, la elogia pubblicamente, e ne sostiene la decisione di riaprire il tritovagliatore di Rocca Cencia perché probabilmente con tre tovaglie si magna-magna-magna.

Ribadito che una buona alternativa alla inumazione del Pd romano sarebbe la sua spedizione su Giove, evitando di lasciare il carburante per il ritorno, la domanda è: se questo popò di intreccio riguardasse una qualsiasi sponda opposta, avremmo la gente in Campidoglio a gridare Onestà come stesse in curva sud?

La risposta è: certo che sì.

L’altra domanda è: perché non succede?

Le risposte sono due:
1) Il beneficio del dubbio che si concede a chi è in carica da un mese (ma per nominare assessore una che cerca vendette in Ama, perdippiù in diretta streaming, bastano pochi secondi).
2) Il M5S è pulito per definizione.

Ergo: i comportamenti che si rinfacciano giustamente agli altri diventano normali se a compierli è qualcuno dei tuoi.

È il punto d’arrivo del lavacro di coscienza che ha portato i romani (e gli italiani) a scegliere quasi sempre i ladri e i corrotti girando la testa dall’altra per quieto vivere o sperando di ottenerne l’indulgenza. Salvo poi lamentarsene, abbattendoli in cabina elettorale, sempre fuori tempo massimo.

Inflessibili. Diversi. Alieni a ogni compromesso. Finché non c’è qualche contratto da firmare. E permalosissimi quando il fango tocca la squadra di cui hai appena indossato la casacca. Uguali all’Italia di sempre. Quella del “Non sono Stato io”.

Che si specchia, purtroppo, in quelli che chiedono conto del “milioncino”. Comparse bercianti in questa curiosa tragicommedia di popolo.

Grillo, Boschi, mafia: lo scontro tra Titanic

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Ogni volta (ogni volta) che Grillo va in Sicilia, dice qualcosa a favore della mafia.

Meglio: non proprio a favore della mafia. Dice un’apparente ovvietà demagogica che favorisce la cultura mafiosa.

A suo tempo, in campagna elettorale, spiegò che era meglio della politica perché almeno non strangolava la vittime. Stavolta ha sostenuto che non c’è più, s’è spostata al Nord*.

Lo fa perché è mafioso? Ovviamente no.

Lo fa per chiedere voti alla mafia? No, anche se sicuramente certa diminutio agli uomini d’onore non dispiacerà.

Lo fa per chiedere voti in generale? Sì.

A chi? A tutti quelli che non vogliono sentirsi responsabili per la merda in cui versa la Sicilia, perfetta metafora della merda in cui versa questo Paese.

C’è un bel monologo di George Carlin, che condivido solo in parte, nel quale si spiega con efficacia teatrale ciò che sostengo da sempre: gli eletti non sono meglio degli elettori. Chi ha votato candidati mafiosi, o camorristi, chi ha scelto la clientela invece della dignità, è perfettamente uguale a chi lo rappresenta.

Siamo un Paese corrotto, becero, volgare, che esprime una politica corrotta, becera, volgare.

Ma votiamo per chi ci dice che la colpa è degli altri, dei politici.

Fatta la tara alla buonafede dei grillini primigeni, l’onestà (onestà-onestà) in Italia non ti porta al 25% dei voti. Per arrivarci, devi imbarcare chi in questi anni è stato totalmente corresponsabile della deriva da fescennino tragico in cui viviamo, ma premia chi gli cancella la memoria.

È un populismo efficace, sostanzialmente di destra – per usare categorie Novecentesche – non a caso subito sposato da neofascisti di ottima educazione come Pietrangelo Buttafuoco. Un altro che ha letto addirittura più libri di quanti ne abbia scritti, ma poi ricade nello stereotipo per cui il problema della Sicilia è l’antimafia (oltre al traffico, ovviamente) e che per preservare il buon nome dell’Isola è meglio citare la pasta con le sarde e non l’illegalità stratificata che la strangola. Certo che la strangola.

E ci strangola. Certo che ci strangola. Con un cappio che ci siamo comprati da soli.

Che poi tutto questo, per esempio ieri sera a Otto e mezzo, venga preso dal ministro Boschi come pretesto per oscurare il patto Pd-Camorra in Campania, attiene non già a uno scontro tra due entità diverse, ma alla partita di uno che per prendere voti nega l’esistenza della mafia, e un governo che per non perdere voti non pronuncia mai quella parola se non per sbatterla in faccia a un altro che la nega.

Che al mercato mio padre comprò.

Invece, la mafia è e resta una montagna di merda.

Peccato solo sia anche una montagna di voti.

 

(Ha anche sostenuto che Casaleggio l’hanno ammazzato i giornalisti che parlavano male di lui. Cioè li ha intimiditi a cazzo per l’ennesima volta, salvo poi lamentarsi della mancanza di libertà di stampa. Se valesse il principio che le critiche – e le minacce – ammazzano, i cronisti che parlano di Grillo sarebbero tutti morti. Dovrei abituarmi, ma ‘sta roba di lucrare sull’odio chiamandosene fuori ancora mi fa incazzare. Colpa mia. Chiedo scusa).

Il caso l’Unità-Raggi: in morte del giornalismo

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(ANSA – MAD) La Virginia Raggi vera è a destra. Ovviamente

Il direttore de l’Unità, Erasmo D’Angelis, pubblica sul sito del giornale un video in cui insinua che la candidata grillina a Roma, Virginia Raggi, avrebbe fatto la corista nella celeberrima hit “Meno male che Silvio c’è”.

Non è vero.

Beccato, si giustifica parlando di “giornalismo 2.0” che – il sunto – lascia al lettore la responsabilità di capire se ciò che gira in rete è falso o no.

Poniamo che il giornalismo 2.0 funzioni davvero così (funziona davvero così: ne parlo tra poche righe) perché cazzo dovrei comprare un giornale, leggere un sito, cercare credibilità nel mediatore della fonte?

Allora hanno ragione i Cinque Stelle (ma anche Renzi: e non è un caso) che predicano la disintermediazione dell’informazione. Ognuno si arrangia da sé e i D’Angelis farebbero meglio ad aprirsi una mesticheria.

Spacciare una notizia falsa e poi, una volta beccati, rivendicarla, è roba quantomeno da esposto all’Ordine, se l’Ordine esistesse ancora. Posto che la Raggi faceva pratica nello studio Previti quando Previti si sapeva perfettamente chi era. Ma su questo che è un dato di sostanza, la battaglia l’Unità non la fa. Perché se stai al governo con Verdini, qualche problema ad accusare altri di incoerenza te lo dovresti porre.

Però.

Però per censurare D’Angelis bisogna avere i titoli. Invece Peppe, non pago di sponsorizzare ogni giorno quel pastiche di sensazionalismo e clickbaiting estremo che risponde al nome di Tze-Tze, ieri ha per l’ennesima volta ritwittato la tesi secondo cui l’Unità è così perché prende i finanziamenti pubblici.

E non è vero.

L’Unità è un giornale che, avendoci lavorato, mi fa prudere le mani ogni giorno. Ha un rapporto con la realtà discutibile e fa da manganello sulle minoranze interne.

Ma non prende soldi pubblici.

L’ho scritto, e sono arrivate alcune sentinelle del vaffanculo a contestare: chi postava i fondi ricevuti dalla vecchia e fallita Unità, chi ricordava i soldi spesi per ripagarne i debiti, chi diceva che nel 2014… Sì: ma siamo nel 2016. L’Unità ha un altro editore, un direttore che spaccia fesserie sulla Raggi, ma di quel giornale non è erede se non per la testata. Il resto, compresa la linea politica (soprattutto) non c’entra nulla.

Qualcuno ha anche ricordato che l’Unità è editata dal Pd (non è vero: il Pd ha una piccola quota) e quindi prende i fondi del Pd. Che sono pubblici. Ma giocando a questo gioco si potrebbe obiettare che (al netto dei 3500 euro su 15000 che i pentastellati versano nel fondo di Stato per le Pmi) i gruppi parlamentari a Cinque Stelle prendono tutti i denari pubblici necessari a tirare avanti la carretta. Perché le fotocopie costano, la politica gratis è una palla, specie quella sul territorio (che è campagna elettorale) e alle balle del MoVimento autosufficiente non crede manco Casaleggio junior.

Ma Peppe l’ha sparata, tanto che gli frega. Se siamo al centottomillesimo posto delle famose classifiche sulla stampa non è mica colpa di chi intimidisce i giornalisti, dei politici che vogliono trombettieri, di chi si erge a paladino della libertà e poi spara melma nel ventilatore della comunicazione come un D’Angelis qualunque.

E i suoi gli hanno creduto, generando l’ennesima ondatina di indignazione contro chi faceva notare che no, è una bugia. Perché lui e il direttore de l’Unità fanno lo stesso mestiere: propaganda. Ed è per quello che, nel mio piccinissimo, li tratto e li tratterò esattamente allo stesso modo.

Perché uno (Peppe) vale uno (Erasmo).

Gira la ruota.

M5S a Bologna: i risultati ufficiali delle Buganarie

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L’ho fatto.

Ho indetto le Buganarie.

Perché spero in cuor mio che Massimo Bugani diventi il primo sindaco pentastellato di Bologna.

Con due ottime ragioni. Almeno.

Intanto perché altri cinque anni di Merola equivarrebbero alla morte civile della satira. Bugani invece, con i suoi video buffi, le interrogazioni in retromarcia, le gag scippate alla Lega sugli immigrati, le lettere di raccomandazione per i videomaker amici suoi, la cancellazione sistematica di chiunque lo critichi anche velatamente sui social, sarebbe grasso che cola. Il suo. Che da quando fa il ragazzo immagine di Peppe è diventato un figurino. A differenza mia. Che ormai peso come il Nettuno. Ma sono meno mobile.

Poi perché io amo Grillo e tutti i suoi adepti. Come gesto punk, potrei persino votarli*. E dunque mi sembrava spiacevole che dopo secoli di “Uno vale uno”, di importanza della rete, di democrazia diretta, di flamenco sugli zebedei a suon di consultazioni anche sul colore del cavallo bianco di Napoleone, ci ritrovassimo a palazzo d’Accursio uno che arriva al soglio perché per Di Maio è “il candidato naturale”.

Roba che neanche Cirino Pomicino. Con tutto che Cirino Pomicino, rispetto a Di Maio, era Cavour.

Per la precisione, ho indetto le Buganarie su Twitter. In 24 ore hanno votato in 96. Ciòè 58 in più di quelli che indicarono Bugani per il consiglio comunale. E per essere sicuro che nulla andasse storto, mi sono fatto dare le opzioni direttamente da Casaleggio.

I risultati:

Massimo Bugani 13%

Bugani Massimo 6%

Il cocco di Di Maio 31%

Il fan di Nik il Nero 50%.

L’esito mi sembra definitivo e invito i pochi pidioti che non volessero prenderne atto, peraltro travestiti da iscritti al M5S, cioè quelli che infestano il web con l’hashtag #buganirispondi, a smetterla di frapporsi tra Massimo e il posto che gli spetta.

Analogo suggerimento mi tocca rivolgere a chi ha votato al sondaggio su Facebook. In quel caso, purtroppo, non mi è stato possibile inserire le quattro opzioni obbligate di cui sopra. E dunque ognuno s’è espresso liberamente sul possibile sindaco grillino.

Hanno ottenuto voti:

Beppe Maniglia, Franco Sport, Luca Bottura, Massimo Bottura, ‘stoc(censura), Ciccio di Nonna Papera, Melania del Pratello, il mio compagno delle superiori Saverio Germinara, Gianni Morandi, Joe Tacopina, Luca Carboni, Danilo Masotti**, gli umarells di Danilo Masotti, Cesare Cremonini, Vito, Roberto Donadoni, Virginio Merola, padre Gabriele Digani, Giuseppe Giacobazzi, Gianfranco Civolani, Angelo Rizzi (“Sono messo male”), il gommista di Andrea Aloi, Donald Trump, Altero, Maximiliano Ulivieri**, l’ispettore Coliandro.

La dispersione del voto è il chiaro segnale che, come dice Massimo, il Pd trema al solo immaginare una figura retta, capace e competente alla guida del Comune. Ma trema anche se ci andasse Bugani.

Dunque anche questa è fatta, il sindaco del MoVimento è stato sdoganato dalla rete, in alto i cuori. Adesso torniamo a occuparci dei fittoni sotto le Due Torri. Evviva.

*scherzo

**Scusate Max e Danilo, sul cartaceo vi avevo perso

 

Uscito sul Corriere di Bologna