Anni fa, alla presentazione dei palinsesti de La7, Geppi Cucciari introdusse così, ai giornalisti presenti, Enrico Mentana: “E ora un uomo che è un vostro collega ma crede di essere un MIO collega”. Era un omaggio irriverente alla nota passione dell’uomo per la battuta, che frequenta da sempre in ogni luogo e in ogni lago. Siccome però gli anni passano, le mamme imbiancano, le maratone consumano, stamane a Forrest, con LaLaura, la stessa identica persona si è prodotta in un elogio della riflessione che ha appena sostanziato con un podcast e con l’approdo del suo quotidiano, Open, su Twitch.
Ora, lasciamo perdere che io Twitch manco so cosa sia, tanto che ne ho fatto appunto battuta (“Studio Aperto sta per sbarcare su Tinder”) ma mi ha colpito, nella riflessione mentaniana sulla parola ragionata, un dato oggettivo: Twitter è vecchio e, più in generale, i social basati sul “qui e ora” stanno invecchiando molto precocemente. Mentre la cara e vecchia tradizione orale – pensate, né io né Mentana abbiamo ceduto al doppio senso – rimane necessaria. Come se avessimo bisogno di un racconto. Per capirci: Twitch, ma anche Clubhouse, altro non sono che costole della radio. Che è da sempre il mezzo più moderno. Perché a differenza della tv, è orizzontale. Assomma e non divide. Racconta, non spezzetta. Vive di curve e non di picchi.
Ogni tanto lo dico, al mattino, di quanto mi senta privilegiato ad aver conservato un angolo (e che angolo, e in che piacevole compagnia) di libera e quotidiana espressione. Ma fino ad ora avevo colpevolmente sottovalutato quanto sia decisivo e pervasivo il mezzo. Quello che in fondo amo di più. La radio, tra l’altro, ha un pregio enorme: contestualizza. Crea una sorta di immunità di gregge del pensiero, ove la si frequenti col dovuto rispetto, che salda un patto tra chi la fa e chi la ascolta. Non succederebbe mai, per fare un esempio di oggi, che qualcuno vada ad estrapolare un tuo vecchio tweet sul doping di Alex Schwazer (del quale oggi, tutti, festeggiamo la resurrezione) per anabolizzare il confronto, metterti al centro, additarti da eretico, esibirti all’insulto. Qualcosa che era vero anni fa non smette di esserlo ora che la catarsi è compiuta, che il diritto al riscatto di chi sbagliò è sopravvissuto al complotto di chi non voleva accettarne la redenzione.
Si può aver usato sostanze illecite, si può (si deve) aver diritto all’assoluzione quando qualcuno, in un caso diverso, ha costruito prove contro di te.
Ma c’è un altro dato, forse più cogente. Io, quel tweet, non lo rifarei. Era probabilmente, un po’ come molti cinguettii, figlio di un altro doping. Quello del consenso. Tra i molti difetti mi riconosco una certa onestà intellettuale, al limite del masochismo da perdita del posto. Ma, come tutti, mi capita di scrivere qualcosa pensando di intercettare lo spirito del tempo. E, dunque, qualche consenso. Mi muovo anche io, come molti di noi, secondo regole che valgono solo per la rete e che mai adopereremmo in pubblico. Ché quando parli passano tutte le sfumature. Ma quando scrivi, è un attimo a salire in cattedra. Giudicare. Esagerare.
Dovrei essere amareggiato, per gli insulti che mi sono piovuti sul groppone per un vecchio tweet (nel quale peraltro me la prendevo pure con Paolo Rossi, citato come eroe negativo causa scommesse, uno che post mortem è risultato essere molto più che un bravo cristo). Invece alla fine sono quasi contento. Perché chiudono il cerchio iniziato la mattina ospitndo un altro “battutista” non dico pentito, ma riflessivo.
Dirò ugualmente le mie cazzate, le mie sciocchezze, scriverò ugualmente le mie battute (riuscite e no) armate solo dalla buonafede. Cercherò di capire cosa accidenti sia Twitch. Ma spero di continuare a crescere, migliorare, trovando alla fine un suono che mi somigli ancora di più. Anche per iscritto. Ché davanti a un microfono non mi spaventa quasi nulla. Anzi: davanti a un microfono, specie adesso che ho lasciato spintaneamente il giornalismo quotidiano, sono profondamente felice.