Datemi retta, non è colpa di Salvini.
Salvini non crede a una parola di quel che dice. Da giovane era comunista. Poi è diventato padano perché tirava l’articolo (quello di Bossi, nello specifico). Adesso picchia sui neri per sfruttare quella bella arietta di fascismo ritornante che tanti voti può, a breve, cagionare. Se domani si scoprisse che è necessario il voto gay, mollerebbe la sua celebre compagna per dichiarare che gli piace il cazzo.
E non ci sarebbe nulla di male.
Salvini è un prodotto, persino lui.
Di quella sottocultura creata ad arte dal tizio che oggi tutti acclamano come possibile travicello delle larghe intese.
Quando non c’erano i social, a fare da collante per le paure (indotte) degli italiani furono Silvio Berlusconi e la sua artiglieria informativa. Fino ad allora, la famosa maggioranza silenziosa cercava quantomeno di capire, prima di berciare. Votava Dc per elaborare il crapone di Predappio senza dover abiurare alcunché.
Poi l’uomo dal sole in tasca capì che le tette e i culi bastavano per alimentare i bilanci di Publitalia. Non per vincere (non ancora) le elezioni. Il Tg4 e le interviste di Medail fecero da apripista all’emergenza permanente che ha titillato l’autoritarismo inconscio e saldato quello palese. E siccome in Italia c’è gente che pagherebbe per vendersi, il tradimento di Vittorio Feltri ai danni di Indro Montanelli diede la stura a una nuova genia di “intellettuali” di complemento. Quella dei Belpietro, dei Mario Giordano, dei Socci, quelli più paraculi alla Porro. Il modello giovanile alla Toti, col suo Studio Aperto che per anni ha portato la Colombia alle porte di casa. Quello anziano di Fede. Naturalmente Del Debbio, che non a caso scrisse il primo programma di Forza Italia e conduce tuttora l’ultimo.
I Ferrara, anche. I cui epigoni oggi ostentano filo-renzismo fuori tempo massimo per preparare il terreno al grande rassemblement che tutto ottunderà. Se prima Salvini non avrà chiuso il contratto coi Cinque Stelle.
Facebook e compagnia hanno fatto il resto mettendo in contatto scemi del villaggio e odiatori ad minchiam, forgiando una nuova genia di persone che rivendicano autonomia intellettuale e pensieri fuori dal coro con lo spartito ben saldo nelle mani. Anche loro, prima si vergognavano. Ora condividono l’unico neurone e innervano la spina dorsale rancorosa che rappresenta una specificità un tempo tutta italiana e oggi popolarissima anche Oltreoceano. Basta sostituire “Dalla vostra parte” o “Mattino Cinque” con Fox News.
Ad armare la mano del tizio di Macerata, con la sua bella runa in fronte, è stato tutto questo. Il vittimismo di popolo che sempre sostiene le svolte autoritarie. Lo sdoganamento del disprezzo razzista, riversato direttamente su obiettivi più deboli, in una parodia delle logiche da stadio che non a caso ne fanno da incubatore. Laddove il fascismo diventa marchio, citazione, orgoglio di qualche giocatore, linguaggio, tratto grafico sulle maglie da gioco, nelle pubblicità, negli striscioni, nell’estetica. L’eterno anarchismo tricolore che considera rivoluzionario un “vaffanculo” in curva o tenere l’Iva per se stessi. Un sovrapporsi di concreto e impalpabile la cui epifania marrone è racchiusa nella parola “buonismo”.
Ieri, al culmine di un’analisi che credo mi avrebbe invidiato anche Umberto Eco, ho scritto che i latori del termine “buonismo” sono al 99,99 per cento sontuose teste di cazzo. Un commento mi ha illuminato: “La usano per autoconvincersi di essere nel giusto, perché secondo me dentro di loro sanno che l’odio è sbagliato”.
Possibile.
Solo che quando disponi di una pistola diventa anche molto pericoloso.