di Paolo Giordano
Il pilota che ho amato di meno, oggi è l’uomo per il quale tifo di più. Conosco il buio immobile nel quale galleggia Michael Schumacher in questi giorni, solo, solissimo, anche se tutti gli parlano. Il coma. Lo conosco, quel buio gelato. Ma non lo ricordo perché il trauma cranico, quand’è gravissimo, è persino cortese: si prende anche i ricordi di quando è arrivato e lascia un buco nero, senza latitudine, inesplorabile per tanto, tantissimo tempo, forse per sempre. Insomma anche io mi sono «rotto la testa», come minacciano i nonni per frenare i nipotini spericolati. La mia pietra è stato un Tir. Ho sfondato il parabrezza della mia auto che si era incastrata sotto la sua pancia, ho sbriciolato il bacino, perso dei pezzi e oltre un litro e mezzo di sangue se ne è andato per la propria strada. Coma. Pensavano fossi morto o che stessi per. Quando mi hanno raccolto schiacciato nell’abitacolo, parlavo ancora, proprio come Schumacher. Sono stato anche gentile con il soccorritore, dicono: grazie di avermi salvato, sto così così. Ma poi l’ematoma frontale è cresciuto, vorace com’è. E ho perso i sensi.
La pressione endocranica ha la forza di un titano, assedia il cervello, lo schiaccia, deve essere fermata. Bisogna spurgare, trovare una via di uscita al sangue e far di tutto perché rallenti il suo afflusso. Una parte di te finisce quasi gelata ed è un freddo brutale e salvifico. Sono entrato in una parentesi, quella notte alle tre, e il mio primo ricordo è di oltre dieci giorni dopo, un tubo in sala di rianimazione e il volto di mia mamma al di là del vetro. In quei giorni i medici dicevano più o meno le stesse cose che oggi l’équipe di Grenoble recita nei propri comunicati. Speriamo si salvi. Oggi va male. Oggi va meglio. Ma, se si salva, non si sa come starà. Quali lesioni.
Quante. E quanto lunghe. Non si sa se sarà lucido come prima. O molto meno. O per niente. Ed è una fortuna che lui, come chiunque passi per quel buio, non le possa ascoltare e che non senta il peso dell’attesa oppure lo schiaffo bestiale della paura impotente. Quando ero lì, con il volto tumefatto dai lividi, bluastro e pallido, la mia parentesi era inerte. Senza sensi. Ma ha avuto il senso, semmai ce ne sia uno, proprio di confermarmi quanto siano importanti i sensi. Perché ci sono certe cose che tutti sappiamo ma conosciamo davvero solo quando le abbiamo perse o accantonate. Mentre sei nel limbo, nutrito dalla flebo, intubato e fasciato, gli altri vivono la tua vita ma tu non vivi la tua e neppure te la ricorderai. È il mistero del coma. Quando Dio o la sorte o comunque i medici decidono che è il momento di uscire dal limbo, è come nascere un’altra volta, tornare neonato e piangere e ridere come fanno i neonati. Hai passato un esame, il più difficile, ma ne rimane un altro, il più pericoloso: sei ritornato quello che eri? Quando sono uscito dal buio, i medici hanno fatto entrare mia mamma in sala di rianimazione. E io l’ho riconosciuta, e posso solo immaginare come si sia illuminata, lei così chiusa. Ma non basta: certe lesioni sono perverse, stratificate, non ti tolgono tutto ma solo un pezzo, quello che vogliono, fottendosene di come diventerai. È entrato, in quella sala che non voglio vedere mai più, anche un mio amico di infanzia e ci siamo salutati come facevano da vent’anni. Non me lo ricordo ma ero, in quel preciso momento, lì in quella mattina, uscito dal limbo. Avevo chiuso la parentesi. Perciò oggi, qui a centinaia di chilometri di distanza, immagino lo sforzo vitale di Schumacher e mi sento, per quel poco che serve, anche io nella sua parentesi. Sperando che anche a lui capiti prestissimo di riconoscere un suo vecchio amico e poi di ricordare sorridendo quell’incontro perché, poi, la vita è andata avanti com’era prima.