Chiedo scusa se, anziché abolirla, parlo di provincia. La mia, intanto.
L’altra settimana s’è svolta a Bologna la celebrazione del compleanno di Freak Antoni, recentemente scomparso. Su un palco gli Skiantos, con un po’ di amici, complici, qualche estraneo. Su un altro, l’ultima compagna di Freak. In mezzo, una teoria di dispettucci che, a futura memoria, ci hanno fatto scoprire una sorta di bitolseide al ragù. E una Yoko Ono, Alessandra Mostacci, che – parere personale – aveva fatto cose molto belle con Freak. Come quella “Però quasi” che fu loro respinta a Sanremo un paio d’anni fa. Ed è una canzone dolente e bellissima. Dove “bellissima” sta proprio per “bellissima”.
Beghe di periferia, appunto. Di una città che ancora tiene in un angoletto vergognoso Dino Sarti, chansonnier metafrancese, che cantava di operai imbrillantinati, compitava deliziose versioni in vernacolo di New York, New York (Neviork, Neviork), riempiva la piazza della città ad agosto. Poi compose l’inno del Bologna, in tempi in cui il presidente della società comprava – secondo la leggenda metropolitana – più partite che giocatori. E ogni anno la squadra si salvava boccheggiando. Dissero che Sarti portava sfiga. Morto. Prima di morire davvero, anni dopo. Così, di quella piccola/grande carriera spesa anche all’Olympia di Parigi, addirittura a Las Vegas, non si ricorda più nulla nessuno. Nonostante avesse sconfitto un nemico subdolo e terribile, oltre a quello della maldicenza: cantare in vernacolo districandosi con l’italiano, quasi a mo’ di traduzione, nello stesso pezzo.
Ci provarono successivamente i Modena City Ramblers, dei quali si ricorda con piacere “The great song of indifference” riletta coi profumi del lardo e dei chiodi di garofano. Mica male. Poi decisero (i fan pigri, più che loro) che per il tour successivo, bastavano Bella Ciao, Contessa, e passa la paura. E si riempiono le piazze.
Ci prova ancora Davide Van De Sfroos.
Van De Sfroos è simpatico, ironico, paraculo quanto serve (“Leghista? Mai”, poi però a cena con Formigoni ci vai, alle Feste della Lega pure, e siccome quelli, come intelettuale di riferimento, hanno il prof che dava le ripetizioni a Salvini, finisci pure a prender le briglie dell’Expo: e comunque mica è un reato) ma gli riesce meglio, gli è riuscito, il salto della quaglia che non quello di qualità.
Ascoltare per credere Goga e Magoga, l’ultimo album. E soprattutto il brano che dà il titolo al lavoro. Una specie di suite di quasi 7’ il cui titolo significa “Senza capo né coda”. C’è qualcosa di psichedelico, ci sono echi di Genesis, c’è un eco dei Delirium. C’è tanta eco. Di tradizione, di contemporaneità, di italiano, di laghée… la smettete con tutti quegli echi ché non si sente niente?
Che poi te lo ascolti e gli vuoi bene, al Bernasconi. Quando canta El Calderon de la Stria, con quegli archi senza un vero perché, che impastano e circondano citazioni buffe, tra Alice che non guarda più i gatti ma nel mirino del fucile, Pierino Gros, un ginecologo perso tra gnocca e poesia… e lo senti passare tra italiano e dialetto, dici che quasi quasi… E lo stesso vale per De Me, una ballad con chitarra accogliente, che sembra “Talkin about la luganega” di Tracy Chapman. E per “Volevo essere Neil Young”, cioè Ki. O “Volevo essere i Jethro Tull”, cioè Mad Max. E per Crusta de platen (un po’ la sua versione di Certe notti, anzi “certe nücc”) e certe notti la radio che passa Enzo Jannacci sembra avere capito chi sei ma…
Ma.