Da bambino andavo al Madison con la federa di un cuscino bianco su cui mia zia aveva applicato due stringhe nere per formare una V. C’ero, quando Richardson alzò la prima Coppa delle Coppe. C’ero, quando lo arrestarono a Tel Aviv per vecchie pendenze fiscali. C’ero a Barcellona a insultare i giornalisti greci che urlavano mentre dovevo scrivere della prima Coppa dei Campioni. C’ero quando Danilovic, che una volta mi portai dormiente in auto da Milano a Bologna dopo un All Star Game, sferrava il tiro da 4. Però c’ero anche quando la Fossa dipinse la V rosa. Quando Carlton Myers salì su un aereo bulgaro verso Berlino che nessuno voleva prendere perché temeva precipitasse. C’ero quando il compianto Maurizio Albertini, ex Mangiaebevi, mi raccontava con che robaccia finisse nei succhi tedeschi. C’ero a mangiare da Danio con Stefano Pillastrini quando l’allora Aprimatic non aveva neanche gli occhi per piangere. C’ero quando Basket City esisteva ancora. E quindi, adesso, dico agli amici virtussini: ma di cosa vi arrabbiate? Ma perché ve la prendete per gli sfottò dei cugini? Non vi sembra di aver preso la macchina del tempo? Non paghereste per rivedere le magliette di Pellacani, Rivers che si palleggia sul piede, il parrucchino di Balboni da una panchina all’altra? Non vi sentite più giovani? E allora abbozzate, incassate, portate a casa. E, piuttosto, organizzate un pellegrinaggio alla Madonna di Tacopina perché trovi qualche Paperone per riaccendere la stella. Perché significa che sei vivo, quando ti prendono per il culo. E anche che, forse, quel culo è il momento di cominciare ad alzarlo.
Uscito sul Corriere di Bologna