Certe mattine, sempre di più, mi sembra di stare negli anni ’70.
Per la guazza melmosa, il rancore sordo che invade ogni ganglio del Paese, il travaso di Cile che sembra prender corpo in piazza e assimila qualche giusta ragione a prepotenze assortite. I libri bruciati, per dirne una.
Allora mi metto su un caffè ed entro, a forza, in modalità positiva. Recupero qualche vhs di Anima mia, i Topolini che ho regalato a mio figlio con la pubblicità delle piste Politoys, quelle di Paola Pitagora, un vecchio numero di Playboy con Barbara D’Urso in copertina. Meglio allora.
Rimuovo, insomma, quel che non mi piacque e non mi piace. Faccio spazio ai ricordi lieti. Relativizzo. Persino in quegli anni poveri, come questi, funesti, come questi, anarcoidi e confusi, come questi, la vita fluiva. Le menti producevano. Quel che ci sembrava orribile (certi brutti film, per dire, tipo i poliziotteschi) ci sarebbe diventato lieto poi. Quindi, forse, mi dico, un giorno rivaluterò pure la Fiat Freemont.
L’altro trucco, lo svelai a suo tempo, è quello di abbinare una musica, una colonna sonora privata, allo scorrere degli eventi. Quelli privati, intimi, ma anche e soprattutto il fluire spesso stolido dei social, delle reti all news. Mentre scrivevo queste righe, ad esempio, mi toccava di seguire una non stop sul Governo Letta, le sue strette intese, e intanto mi apprestavo a raccontarti, amico lettore, il nuovo album dei Calibro 35, la band veteromilanese che, quando si dice il caso, arriva dritta dai Seventies.
Li ho sovrapposti. Perfetti.
Perfetta per il nuovo premier, così aggressivo, per la sua fiducia richiesta in modi così tonitruanti, quella “Stainless Steel” che ne evoca i recenti e autocertificati attributi d’acciaio. D’improvviso, con quelle note sotto, il Letta 2.0 pareva trasfigurato, sembrava Matteo Renzi senza la parlata da Cascine. Meglio: sembrava Maurizio Merli senza la tinta. E i baffi. E gli occhi azzurri. E il carisma (ad libitum).
Poi è apparsa Paola Taverna, la pentastellata che abbina la passione politica di Giovanna D’Arco alla raffinatezza espressiva della Sora Lella. Ho vagato nell’album, che si chiama – piacerebbe a Brunetta – “Traditori di tutti”, e ho pescato, confesso: non a caso, “Annoyng repetitions”. Impagabile. Accompagnato da un’armonia modello filodiffusione, o supermercato Pam coi cartoni del latte ancora piramidali, il boato prodotto dall’intervento della Taverna retrocedeva a lite per la coda alle casse, o al check in. Si relativizzava pure lui.
Parlava la Carfagna? E allora dentro il sensualotto “The Butcher’s Bride”, sulle note del quale Michele Guardì, ai tempi, avrebbe potuto innestare coreografie miracolose. Poi Mara cambiò strada. Interveniva Epifani? A parte che Epifani è anni ’70 di per se stesso, cammina seppiato, ma mettendo in sottofondo “One Hundred Guest”, sorta di funky gotico, improvvisamente si materializzava un altro gotico, quello staliniano, e la rabbia democratica di Epifani diventava la foga di un pensionando che sta per ritirare la medaglietta aziendale.
Poi sono ricominciati i collegamenti con le varie forconerie. Allora ho messo in loop “Giulia Mon Amour”, ho dato un giro alla palletta con gli specchi appesa al cielo, e ho tolto il volume alla tv.
Quando finiscono gli anni ’70, fatemi un fischio.
Uscito su Sette