Quel giorno in cui mio figlio non diventò tifoso del Bologna

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Questo articolo è uscito sul blog del Corriere di Bologna un annetto orsono. Oggi l’ho letto in radio per raccontare come mai non torno più allo stadio da tempo. Mi è stato richiesto. Eccolo.

 

Qualche mese fa mi è capitato un diverbio con alcuni ultrà del Bologna (che, per inciso, è la mia unica religione). Mi amareggiò molto. Scrissi un pezzetto liberatorio che però decisi di tenere nel cassetto perché mi sembrava troppo retorico. Forse lo è. Ma siccome una battuta su certi striscioni apparsi al Dall’Ara, quelli sulla Juve e sui suoi morti, ha rinfocolato le considerazioni di chi, anche amici, anche molto urbanamente, mi rimprovera di non capire le logiche della curva – e sì, limite mio, forse alcune proprio non le capisco – ho deciso di postarlo adesso. Siate clementi.

Domenica scorsa ho portato mia madre alla trattoria del Meloncello: passatelli, friggione, quella roba lì. Avevo lasciato la macchina in Certosa per andare a trovare mio padre, e nel passeggiare per riprenderla siamo passati davanti allo stadio.

Non ci vado da anni, allo stadio. Un po’ perché la domenica devo vedere la tv per scriverne, un po’ perché scroccare la tribuna stampa senza dover (più) lavorare mi incupirebbe.

L’ultima volta che ho assistito a una partita dal vivo era in Scozia, quest’estate. Volevo mostrare a mio figlio la magia del prato, da vicino. Magari per contagiarlo con la passione che mi pervade da sempre e che sembra non sfiorarlo. Ne ha altre, e tutte straordinarie. Ma il Bologna no.

Stavano (stavamo) per giocare contro il Pescara. E l’esterno dello stadio mi è sembrato bellissimo. C’erano molti bambini con la maglia rossoblù, tra l’altro. E io a un bimbo che tifa Bologna nel 2012, invece che Milan, Inter o Juve, non regalerei un ingresso ogni tanto. Gli darei l’abbonamento gratis. La divisa sociale. La foto garantita insieme ai suoi eroi. Una pergamena d’oro zecchino. E mentre tornavo verso l’auto attraversando il cimitero, e incontravo gli altri tifosi che passavano tra le tombe chiacchierando in dialetto di quanto sia forte Diamanti e un po’ meno forte Agliardi, lui, il piccolo, ha pigolato una frase meravigliosa: “Babbo, quando mi porti allo stadio?”.

Domenica prossima, gli ho detto. E anche se sapevo che forse lo faceva per me, perché credeva mi gratificasse, sono andato a casa rinfrancato. Magari stavolta si divertirà, pensavo. E pazienza se dovrò tappargli le orecchie perché il sottofondo delle partite è spesso odioso, gravido di ostilità, lontano millanta miglia da quel che un bambino dovrebbe percepire del calcio.

Verso le sei, già avevo esultato per Gilardino e sacramentato per Quintero, ho visto in rete una foto della curva Andrea Costa. In mezzo alla quale campeggiava uno striscione in caratteri squadrati che parlava di difesa dell’onore e altri concetti piuttosto vacui e piuttosto nostalgici. Allora ho fatto una cosa imprudente: l’ho postata su Facebook aggiungendo che ci meritiamo tutto.

In pochi minuti è partita una lunga sarabanda di gente che mi spiegava la topica che avevo preso, che con l’estrema destra quei caratteri non c’entrano nulla, che li usano tutti gli ultrà, che sì però le foibe, che sono un coglione, che loro sono apolitici. Gente che sulla propria bacheca faceva il saluto romano, “ma come gag”, o mostrava immagini dello sbarco di D’Annunzio a Fiume. Altri mi hanno spiegato che sono un imbecille perché non capisco la mentalità della curva, che noi “giornalai” – fresca, questa – dobbiamo smetterla e “magari ne parliamo di persona”, che se lo striscione non mi piace devo andare a strapparlo “in balaustra” e comunque se non sto attento faccio la fine di un cronista che fu menato. La discussione si è poi trasferita nei forum appositi, con toni anche più accesi.

Ora, l’occasione mi è grata per ribadire ciò che ho spiegato ai miei critici online: è ora che facciate pace con voi stessi. Gli striscioni neri, i caratteri runici, il cranio rasato, non sono estetica da swingin’ London: sono paccottiglia mussoliniana. Siccome c’è gente che è morta perché potessero essere espresse anche idee del menga, e anche perché la polizia tende a tollerare certa roba in curva perché non le capisce/non se la sente di intervenire, nessuno vi impedisce di esporli. Però assumetevene la responsabilità senza tendere il braccio e nascondere la mano.

Questo perché nel 2012 giocare a fare i fascisti si può, e non comporta alcun rischio. Anzi, spesso è un hobby borghese: altro che onore, antagonismo, retorica dei cani sciolti. Ma è proprio per quello, perché si può, che c’è gente come me ancora e profondamente antifascista. Perché, parafrasando la Buonanima, “certi nemici, molto onore”.

Mi spiace solo che il prezzo della vostra paraculaggine (siam tutti neri con lo striscione degli altri) l’ha pagato il mio bimbo. Perché oggi sono rimasto a casetta, e lui con me. Certi gentiluomini già avevano minacciato un cronista di questo giornale sui muri di fronte al Dall’Ara, senza che nessuno si sia mai preso la briga di cancellare quelle scritte, e questa patente intimidazione è passata in cavalleria nel silenzio di troppi. Avrei faticato a spiegare a mio figlio eventuali prodezze ai miei danni del gruppo vacanze Salò.

Magari, se vorrà, gli dirò tutto tra qualche anno. Gli farò leggere questo pezzo. E gli racconterò quella domenica di fine settembre del 2012 in cui battemmo 4-0 il Catania ma lui non diventò un tifoso del Bologna.

4 pensieri su “Quel giorno in cui mio figlio non diventò tifoso del Bologna

    • Luca Bottura

      forse non hai letto attentamente: sui muri davanti allo stadio già c’erano minacce. ci fossero state dentro, probabilmente non gli sarebbe piaciuto.

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