Faccio satira. A volte bella, altre scarsa. Quindi sono di parte. Cerco di non essere mai della stessa parte. Oppure di essere sempre dalla mia, anche quando penso cose che non condividevo un minuto prima.
Sono incoerente, ondivago. Spesso sbaglio. M’innamoro di tizia o tizio, mi passa in fretta, e comunque se mi esce una battuta la scrivo lo stesso. Non cerco golfi protetti, prebende. Sto lì nella mia nicchia a prendermi tutta la libertà che posso. Cerco il limite per parlare a un po’ di gente senza che si accorgano troppo di me. Così posso continuare.
Sono spesso ingeneroso. Piallo concetti, taglio curve. Condivido i miei pensieri cercando di stemperarli col sorriso. Mi schermo di cazzate, per affermare quel che voglio. E riesco abitualmente a dirlo, senza troppe rotture di coglioni.
Perché. Sostanzialmente. Non. Conto. Un. Cazzo.
Attenzione: non conto e non vorrei contare. Non sono un potere, ho scelto altre strade. Laterali. Ho fatto battute su tutto. Sulla morte. Sui costumi sessuali. Sui difetti fisici (spero non troppe). Ho diviso il mondo in buoni e cattivi, tutti i giorni, più volte al giorno. Ho esagerato. Ma appunto non cambio il destino di nessuno. E meno male.
Però m’incazzo quando mi scippano il mestiere. Quelli che il potere ce l’hanno, intendo.
M’incazzo quando un tizio che ha 9 milioni di voti gioca con la mafia, a Palermo, facendo acrobazie sulla corda del consenso.
Quando, tra le tante accuse che potrebbe muovere a un avversario politico, ne sottolinea l’omosessualità.
M’incazzo quando un altro tizio indica al popolo plaudente, un popolo da 11 milioni di voti, un popolo da accantonare perché vecchio. Ma proprio vecchio anagraficamente.
Quando li deride coi gettoni da mettere nell’iPhone, quando derubrica i sindacati a “sinistra radicale”, apponendo loro una stella gialla con cui scaraventarli un po’ più in là.
Quando governa col sorriso, col lazzo, con la battuta, ma intanto inietta loro paura del diverso. Indicando sempre nuovi nemici, anche i più prossimi a lui.
M’incazzo con loro due come m’incazzavo col tizio delle battute sui bunga bunga, sui froci – sempre quello avete in testa – o sull’evasione fiscale. Persino sulla mafia (avete notato come non ne parlino, o come ne parlano le rare volte che lo fanno?).
Quello che spargeva barzellette per coprire i suoi reati.
E l’ha avuta vinta lui, perché adesso le battute le fa ai vecchietti invece che altri detenuti. E gli italiani scelgono i suoi cloni. Urlanti o cazzari che siano.
M’incazzo perché quei tre hanno tutti nella testa una parola che si fa persino fatica a pronunciare: disintermediare.
Nel mondo meraviglioso di Matteo, Peppe, Silvio, c’è il rapporto diretto col popolo che li ama. Fanculo i giornalisti, tutti venduti. Fanculo i magistrati, tutti prevenuti. Fanculo ogni dissenso, postilla, persino battuta che non venga da loro.
Nel nome della gente. Che si illude di abolire le camere di compressione per se stessa, rompere lacci, acquisire libertà, e invece si sta svendendo (a volte regalando) a chi cita House of cards e intanto parla e agisce come in Amici miei.
Il popolo, che li ha eletti.
Convinto da sempre che i diritti degli altri siano privilegi da abbattere. Quando l’unico diritto rimasto, tra poco, sarà quello di scegliere chi gettare dal ballatoio del condominio rissoso in cui ci hanno messi a vivere.
Tra una battuta e l’altra.
Le loro, le mie.
Ah, #beppevaidaluca.