Grazie, graziella e grazie al vescovo di Ferrara che pare abbia augurato a Francesco di fare la fine di Papa Luciani

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(ANSA – BERTONE) Don Negri mette sul tavolo tutta la sua fede

 

Volevo ringraziare don Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara.

Volevo ringraziarlo per non aver capito che Dio pare sia in cielo, in Terra e in ogni luogo, ma anche i collaboratori del Fatto Quotidiano possono essere quantomeno seduti al tuo fianco sul Frecciarossa.

Volevo ringraziarlo per aver telefonato a un anonimo interlocutore, che secondo il Fatto quotidiano era Renato Farina de Il Giornale, adepto di Comunione e Liberazione come Negri, di osservanza andreottiana, che però ha smentito, ha querelato tutti, ha ribadito che lui è un grande fan di Francesco e dei suoi vescovi, e francamente non vedo perché dubitare di Farina.

Volevo ringraziare don Negri per aver detto, tra le altre cose, che si augura per il Papa un intervento della Madonna per farlo finire come quell’altro, Papa Luciani, che come sappiamo raggiunse i cieli dopo un mesetto appena al soglio di Pietro.

Volevo ringraziarlo per aver tuonato contro i vescovi di strada nomimati da Papa Bergoglio in luogo, per dire, a Bologna, del cardinal Caffarra, ratzingeriano di osservanza strettissima.

Volevo ringraziarlo per aver detto che don Dossetti e il cardinal Lercaro, due figure di dialogo, tolleranza, intelligenza, inclusività, che hanno fatto grande questa città e in generale la religione che hanno propalato in Terra, avevano rovinato la Chiesa.

Volevo ringraziarlo per aver promesso di non farne passare una, di far vedere i sorci verdi al cardinal Zuppi, vescovo di Bologna, che “parla dei poveri ma lui che ne sa”.

Volevo ringraziarlo perché non so se ne sappia, di poveri, don Zuppi, ma intanto la notte dorme nel pensionato per preti invece che nel salone delle feste come il cardinal Bertone, cui immagino il vescovo Negri sia un filo più famiglio.

Volevo ringraziarlo per aver tuonato contro il vescovo antimafia che Francesco ha insediato a Palermo.

Volevo ringraziarlo.

Perché sono ateo, ma fino a diciotto anni ho frequentato la parrocchia, ho fatto il catechismo, sono battezzato.

Ed è grazie a cardinali come don Negri se quando trapasserò, nel caso improbabile che incontrassi un tizio con la barba, le chiavi in una mano e il caffè Lavazza nell’altra, potrò dire che, dopo aver letto cosa pensano certe gerarchie in tonaca di persone specchiate come il nostro vescovo, di gente che vuol ripulire la chiesa, di sacerdoti che “non hanno capito” e non vogliono capire cosa sia diventato il ministero di Dio e lo sprezzo per gli ultimi, che ho sentito il desiderio irrefrenabile, quasi inevitabile, di tornare a messa domenica prossima.

Grazie, don Negri. E così sia.

Uscito sul Corriere di Bologna

 

Di “bastardi islamici”, social network e altre futilità

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Ho elaborato un concetto di alta sociologia: se stai in un posto di merda, più facilmente diventi un terrorista.

E non parlo di Raqqa. O dell’Afghanistan piagato dai nostri scarponi. O di Aleppo, che era un luogo bellissimo, un crocevia di convivenze, prima che lo radessero al suolo mentre noi (pure io) ordinavamo tranquilli l’ennesimo Pastis.

Parlo del Belgio.

Che per molti versi è un luogo davvero tremendo. E non pensate a Moolenbeck, il ghetto di Bruxelles che ha fatto da innesco per le volontà omicide di 500 foreign fighters. Pensate a Liegi e alle sue periferie terrificanti. Al combinato disposto tra i centri di potere e chi quella vetrina la guarda dalla finestra. All’integrazione fallita in un Paese che sembra l’Italia in miniatura: conflitti etnici con motivazioni ridicole, corruzione, economia basata sull’assistenzialismo, un tempo persino gli anni di piombo della Brabante Vallone, cui si ispirarono quei loschi figuri della Uno bianca.

Se stai in un posto di merda, diventi facilmente violento. Soprattutto se al contempo hai un altro posto in cui combinare le tue identità. Cioè i social. Le pagine Facebook dei tizi che sparavano alla schiena delle ragazze al Bataclan le abbiamo viste tutti: figa, auto, calcio e jihad. L’identikit del capobastone è quello di un paranoico sfottuto al college che ha trovato il modo di farcela vedere, a tutti noi, in questo non dissimile da un qualunque coglione americano che fa strage nella sua scuola. In questo, anche, perfettamente aderente alla presunta civiltà antitetica che sostiene di voler combattere. Mentendo in primis a se stesso.

I social ci hanno abituato a una concezione binaria della vita. Non è colpa loro, ma del nostro profondo che cerca sempre nuove approssimazioni con cui raccontarsi il bisogno belluino di aggredire il prossimo. Ma se quella selezione tribale, ancestrale, grossolana viene affrontata da uno psicopatico col kalashnikov a tracolla, ecco cosa succede.

Un flame. Nel senso concreto del termine.

Perché il mondo non è binario. E un tizio che posta la sua preoccupazione per la campagna acquisti del Paris Saint Germain, può essere lo stesso che salta per aria nel quartiere Saint Denis poche settimane dopo.

Attenzione: non è colpa di Facebook. Ogni guerra si pasce delle tecnologie e del retroterra culturale di cui dispone. C’erano le trincee, nel ’14-‘18. C’erano gli aerei e l’atomica, nel ’40-’45, oggi ci sono i Tweet e i video jihadisti montati come in un film di Francis Ford Coppola. O in un gioco “spara spara” Non è colpa dei social, no, che certificano una malattia endemica. E ne hanno solo modernizzato la propaganda, e gli esiti.

Quando ero bambino, vicino a casa mia abitava una signora zoppa e gentile. Claudicava per via di una pallottola nazista che le era finita in una gamba mentre si fingeva morta, a Marzabotto, sotto un mucchio di cadaveri. Proprio come l’altro giorno in un camerino di Parigi, o in un ascensore maliano. Uomini e donne inconsapevoli. Innocenti. Terrorizzati. Col sangue altrui come cuscino. Dalla parte sbagliata di una guerra che non avevano dichiarato. Senza alcuna responsabilità se non quella del tutto incidentale, inevitabile, di non essersi accorti per tempo della tirannia e averla debellata, con uno di quegli atti di coraggio che chiediamo facilmente agli altri (gli islamici “moderati”) e non sappiamo compiere noi, quando si tratta di mettere in campo piccoli gesti politici di onestà e di contrasto quotidiano alla mentalità mafiosa che tutti ci permea.

E permea tutta l’ipocrisia cosiddetta occidentale.

In questi giorni abbiamo scritto, in molti, che la miglior risposta al terrorismo è continuare la vita di tutti i giorni. Ristoranti, sesso, divertimento, cinema. Ora: a parte il fatto che pagherei, per vivere davvero così, ma temo non basti. Temo che oltre alla normalità ci sia bisogno di un altro sostantivo: la consapevolezza. Che passa attraverso la conoscenza. Nessuno di noi, io per primo, sa esattamente come e perché i sunniti combattono gli sciiti, chi arma chi, quali connivenze internazionali hanno favorito l’Isis. Molti credono di saperlo perché leggono i giuliettochiesa o altri complottisti acrobatici che ripetono loro una sola verità: è colpa di altri poteri, tu non c’entri.

Tu nei sei fuori.

Ognuno di noi che non sappia, che non provi curiosità di conoscere, che rimuova più o meno scientemente la parte del mondo che incuba odio, e ne semina i germi in questa landa del pianeta, quella cui abbiamo dato il tasto “condividi” senza condividere un cazzo d’altro, chi ci attacca perché ci somiglia troppo, e lo sa, e appiccica ideologia e religione a uno scontro tribale che – tra l’altro, ma non è tutto lì – favorisce interessi economici, chi, insomma, riduca tutto al derby tra “bastardi islamici” e resto del mondo, probabilmente si crederà assolto.

Ma resta per sempre coinvolto.