La Grande Notte di Paolo Beldì sarà sempre piena di luci

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Lutto nella TV italiana, morto il regista Paolo BeldìQuando qualcuno se ne va, anche qualcuno cui si voleva bene, si finisce sempre, per celebrarlo, di parlare molto di sé stessi. Dunque mi scuso se comincio questo ricordo di Paolo Beldì dicendo che, semplicemente, è stato il regista del programma che più mi sono divertito a fare e dal quale, grazie a un gruppo di lavoro imponente, ho imparato moltissimo di quel poco che conosco a proposito di tv.

Quel programma si chiamava la Grande Notte. Era una specie di gala degli Oscar satirico, disegnato da Gene Gnocchi e Francesco Freyrie, al quale si aggiunsero il magistero autorale di Fabio Di Iorio, l’animo punk di Dario Tajetta, i pennarelli di Andrea Pistacchi, persino il mio modesto apporto. E la regia di Paolo. Decisiva a bypassare i limiti costitutivi e ad esaltare, sgangherandolo come amava fare, il rituale (allora) catodico.

La Grande Notte - Programma (2006) - Foto Gene Gnocchi, Afef | iVID.it - Galleria Fotografica dei film, dei personaggi, delle serie TVPunto primo: le debolezze. Un comico, salvo rare eccezioni, non può condurre un programma. Specie se fa satira. Perché deve creare il presupposto e schiacciarlo, tenere per mano il filo rosso e sfilacciarlo a scopo risata. Così, Gene stava sul palco ma a condurre era una partner. Prima Simona Ventura, poi Amanda Lear, miracolosa, che arrivava un’ora prima della registrazione e non ne sbagliava mai una, leggiadra ed efferata com’era e com’è.

Infine Afef Jnifen, cui ogni volta mi avvicinavo dicendo: “Afef, almeno questa facciamola bene”. Rideva. Rideva anche Paolo. Anche della meteora, Luisa Corna di cui, e di come durò una sola puntata, preferisco non parlare. Mi limiterò a ricordare che all’epoca si accompagnava ad Alex Britti e aveva imposto, anzi: fatto imporre, di non parlarne neanche per sbaglio.

Gene la bersagliò, in onda, tutto il tempo. Mai più sentita.

La partner governava una piccola Academy (una “c” sola, ma in tutti i copioni e le scalette ne aveva due) che nella finzione attribuiva i Wolfango Awards e doveva rappresentare una matassa di ruoli in commedia da srotolare alla bisogna.

Stavano seduti di fronte a Gene in semicerchio per dire la loro. Formalmente. In pratica, per essere martirizzati. Ospiti del calibro di Alessia Merz e Klaus Davi che, ma non lo sapeva, assolveva al ruolo dell’antipatico. Del punching-ball. Proprio come i “premiati”. Essendo il giovane di bottega, li chiamavo io per convincerli: “Da noi gli ospiti si dividono in due grandi categorie – dicevo – complici e vittime. La vittima è inconsapevole, il complice è uno di noi. Autoironico, intelligente. Tu ovviamente sei complice”. Venivano quasi tutti. Lilli Gruber non ci cascò.Cadeo, l'uomo gentile della tv - PressReader

Dietro di loro, in quello che amava definire un 360° completo, ossia uno studio in cui operare ad angolo giro, e vi assicuro che certe prodezza riescono solo ai migliori, Paolo aveva chiesto a Cappellini e Licheri, gli scenografi, di allestire una scalinata. Da lì scendevano i vincitori, tra due ali di folla festante, parodiando la tv dell’enfasi. Ma facendola, anche. Giocandoci. Tutto molto americano o wannabe tale. Ma dichiarato, come wannabe. Raffinata cialtronaggine esibita fino a renderla sberluccicante. Come la luce accecante che accompagnava i bersagli fino al palco, dove avrebbero incassato le bordate di Gene.

In un angolo dello studio, Maurizio Crozza faceva i suoi personaggi. In un altro, la leggiadra Carla Signoris prima e quella meraviglia di Cesare Cadeo poi, fingevano di svernare nel foyer. Il loro ruolo era di spiegare perché i vincitori delle varie categorie (Leonardo Di Caprio, I Pooh, Gorbaciov) non erano venuti e perché alla fine ritirassero il premio, come da voce debordante di Piero Ubaldi, gente tipo Larussa o Giorgio Mastrota. Una volta venne Emilio Fede, che all’epoca partecipava insieme ad altri direttori alla cosiddetta “Cena dei cretini”. Gene gli chiese: “Quando non ci sei tu, come si chiama?”.

Di quell’orologino placcato rame, Paolo era il garante supremo. Nella costruzione e nella prassi. Non credo che sia mai esistito un regista che prendesse le risate con gli stacchi. Lui sì. Prima della puntata (di quella, di “Quelli che”, dei primi Sanremo di Fabio Fazio) identificava secondo una sua logica chi del pubblico avrebbe mandato in onda a spiovere, secondo la sincope della comicità. A contrasto. Si parlava di Saddam? Appariva un figurante dotato di baffoni. Inezie, ma decisive. Come le sue inquadrature dei piedi, o di altri dettagli, che già ai tempi di Diritto di Replica ne avevano fatto un innovatore assoluto.

Potete leggere biografie molto complete altrove. A me piace ricordare l’amico che si faceva sentire quasi tutte le settimane, ricambiato, scherzando sulla Fiorentina e sul mondo della tv che gli aveva voltato le spalle per i suoi 66 anni, perché (forse) costava troppo e soprattutto perché aveva un carattere. Paolo ce l’aveva, un carattere. Una volta, piccino com’era, gli vidi mettere la mani addosso a un dirigente Rai con cui non si era sintonizzato. Ma persino in quella lotta fisica del tutto impari – il dirigente avrebbe potuto tranquillamente governarlo, invece se ne fuggì sbigottito per i corridoi di Corso Sempione – c’era l’ansia e il piacere di raccontare una propria visione del mondo, più che della tv. Quella che avrebbe finito con lo spaventare, a torto, anche fior di talenti e committenti. Convinti forse che il rapporto qualità-prezzo (più che in soldoni, in termini di confronto: perché con Paolo ci dovevi parlare, e cercare una sintesi richiede impegno) non valesse più la candela.RaiDue - La Grande Notte - YouTube

A breve presenterò il mio libro a Novara. L’avrei voluto come relatore, o come compagno di chiacchiere, per farmi raccontare una volta ancora di quando (ipse dixit) “faceva il coglione nelle radio locali”. E di come in fondo non avesse mai smesso, con quel rigore cazzaro che solo i grandi possiedono. Col nitore e talvolta le asperità di un bambino. Felice di giocare con le camere come un pargolo a Disneyland ma anche, cristosanto, di piazzarle da dio sapendo alle perfezione quando mandarle in onda.

È morto uno bravo bravo. Non è un errore: bravo due volte. E se fossi un regista di oggi, spesso costretto a comprimere il proprio mestiere e la propria sapienza a fronte di committenti vessatori e stelle che non saprebbero distinguere un mezzofucile da un carrarmato, beh, mi appenderei il ritratto vicino al mixer. Come dicevano a Boris, “un’altra televisione è possibile”.La Grande Notte - Programma (2002) - Foto LOGO | iVID.it - Galleria Fotografica dei film, dei personaggi, delle serie TV

O forse no. Ma quando lo è stata, facile che fosse firmata da Paolo Beldì.

Buon viaggio Paolo. Stavolta il campo l’hai scavalcato tu, ma prima o poi ti si raggiunge. E sarà, stai sicuro, una lunga e Grande Notte.

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