Un inverecondo pippone su cosa vorrei da ciò che resta della Sinistra

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Nella narrazione passivo-aggressiva che delimita il campo espressivo della Destra, Giorgia Meloni ha fatto sapere che, grazie a lei, la parola “patriota” non è più una vergogna. È ovviamente un grossolano falso. Patriota è un aggettivo, o sostantivo ove lo preferiate, che data ai tempi del Risorgimento. Dunque alla nascita dell’Italia unita. Dunque a uno dei due miti fondanti di questo Paese, dacché l’altro – la Resistenza – rappresenta, quello sì, una vergogna per chi al momento timona la nostra democrazia.

Giorgia Meloni in total black alla parata del 2 giugno (Istituto Luce)

Nulla di strano in questa ricostruzione che serve a individuare nemici, tipica di un partito che ha abiurato la svolta di Fiuggi e oggi rappresenta di fatto, rivendicandola, la continuità col Movimento Sociale. Cioè con una traslazione appena più blanda, ma solo perché sconfitta dalla Storia, del Partito Nazionale Fascista. Un po’ come se il Pd rivendicasse l’invasione dell’Ungheria. O Schlein tenesse a casetta, in bella vista, il busto di Stalin. O la massa degli elettori progressisti avesse nostalgia della Cortina di Ferro. Manco Peppone, manco.

Diverso è il discorso di Nazione, una categoria novecentesca che, a proposito di apparenti sofismi lessicali è, banalmente, la madre dei nazionalismi. Ossia di ogni conflitto, compreso quello russo, varato da chi fino a dodici secondi fa rappresentava un punto di riferimento per chi ci governa. Un problema in politica estera – l’Austria che chiude le frontiere con noi dentro, i Paesi di Visegrad che ci rimbalzano sui migranti, l’atlantismo vassallo per accreditarsi a Washington – che basta e avanza come schermo interno per ogni torsioncina autoritaria, per ogni passetto verso la commistione dei poteri, per ogni occupazione rivendicata, per ogni controllo che salta nel nome di un valore impalpabile, di un arroccamento emotivo ma fascinoso: la Nazione, appunto.

In tutto questo, a preoccupare, è principalmente l’opposizione. La debolezza, dell’opposizione. Sulle parole, sui fatti.

Il MoVimento Cinque Stelle è da tempo alla ricerca di un nuovo jolly, un Reddito di Cittadinanza o qualcosa del genere, da calare sul tavolo della propaganda per ridarsi un’identità. Ché, nel trionfo dei partiti personalistici, Giuseppe Conte appare anche a molti sostenitori per quello che è: una figura opportunista che bada principalmente alla propria conservazione, alla competizione interna nel campo della cosiddetta sinistra, rispetto alla quale è peraltro un corpo estraneo per storia personale, obiettivi, formazione politica. 

Giuseppe Conte Uno (Ansa – Crispi)

Il Pd, invece, resta al momento preda del peccato originale che in quarant’anni di Governo Mediaset l’ha spinto ad arroccarsi in una specie di Sagunto culturale: farsi dettare le parole dagli altri, con ciò che ne consegue in termini di marginalità e depressione post votum. Ne è rimasto vittima pure l’eccellente sindaco di Bologna, allorché voleva appunto cancellare la parola “patriota” dalle vie dedicate ai partigiani. Se l’erano presa gli altri – il percorso del ragionamento – tanto valeva lasciargliela e mettere il cappello sui partigiani. Che invece sono di tutti, morirono per tutti.

Ne è vittima, in questi primi passi, Schlein, che affida l’analisi della sconfitta a sette minuti di video, girato con una qualità tra il Super 8 e le rivendicazioni dell’Isis. Un pasticcio che coopta in peggio la disintermediazione prima grillina, poi salviniana, ora meloniana, e comunica, al netto di una retorica da spogliatoio calcistico, un vuoto propositivo. Che tra l’altro, ed è forse ancora più grave, forse nemmeno c’è.

Al netto delle bufale di governo sul predominio culturale e informativo della Sinistra (la Destra ha il controllo dell’immaginario collettivo dacché l’informazione mainstream, Rai in testa, è diventata un’immensa Rete 4), la segretaria del Pd ha ora un imperativo categorico: non ascoltare nessuno. Ovviamente me compreso.

Non la parte del suo partito che minaccia l’uscita a destra: un saldo zero, in termini elettorali. Come minimo. Non chi le intima di abbandonare i temi civili per sostituirli con quelli sociali, dacché si possono, si devono, affiancare. A patto però di trovare parole nette. Ad esempio per dire che il cosiddetto utero in affitto è già reato, dunque non è un problema di cui vale la pena occuparsi. Di specificare con chiarezza che sostenere Kiev coi soldi del Pnrr è un problema non perché si debba armare l’Ucraina, ma perché il Pnrr non sanno manco dove si comincia a scriverlo. Di rivolgersi direttamente a chi sorregge questo Paese con le proprie tasse, dipendenti e autonomi, quando qualcuno parla di “pizzo di Stato”.

La segretaria Pd durante il suo video su OnlySchlein (Ansa – Zuckerberg)

Manifestando per dir loro grazie, per rivendicare il tax pride di chi patriota lo è davvero, in carne e Irpef.

Una battaglia che, ove la si voglia affrontare, si vince creando stilemi e luoghi propri, fossero anche le desuete piazze, o un pullman alla Prodi con cui palesarsi, da qui alle Europee, all’Italia per cui non si esiste più. Specie al Sud.

Pacificazione e buongoverno non sono sexy, sui social. La buonafede non lo è. Nemmeno un Morisi o un Longobardi potrebbero mai rendere appetibili equità sociale e senso dello Stato. Né intrupparsi nei talk show rissaioli può essere la via: in tv ci si va a farsi intervistare, anche dalla stampa nemica, ma da soli. O duellando con gli altri leader.

C’è una parte non minoritaria del Paese che ha bisogno di non sentirsi sola. Va cercata, compattata, con una sorta di veltronismo radicale, uno spietato buonismo, una vocazione maggioritaria che, se proprio deve colpire qualcuno, va indirizzata contro le disuguaglianze. Contro chi se ne frega del riscaldamento globale e taccia di gretinismo chi semplicemente non vuole andare arrosto. Anche perché odia i giovani. Contro chi il pizzo di Stato se lo prende ogni giorno dalle tue tasche, facendoti concorrenza sleale, derubandoti dei servizi che gli regali. Contro chi in trent’anni ha abbassato le retribuzioni e moltiplicato i profitti, facendo molti più danni degli elusori come Google o Amazon. Contro chi dall’Europa vorrebbe solo argent de poche e nessun dovere. Contro la mentalità mafiosa, proattiva o rassegnata che tutto ottunde e tutto blocca. Contro chi spaccia per merito l’essere nati dai lombi giusti: il merito si misura quando si parte da posizioni di partenza simili, se non uguali.

Proponendo un’Italia di uguali, ecco. E non di uguali a Budapest.

In tutti i luoghi, e in tutti i laghi. Avendo cura se possibile di proteggerli, i laghi: ché cementificare il territorio, anche quello, fa parte di una subalternità culturale i cui esiti tutti stiamo pagando e pagheremo, se qualcuno non avrà il coraggio di praticare l’impopolarità finché non diventa popolare.

Da patrioti. Ché, come diceva, Mark Twain citato dal Pojana: “Essere patriota significa sostenere la tua terra sempre, e il tuo governo quando se lo merita”.

Una cosa prolissa sulla SS Lazio, il tifo organizzato, i riflessi condizionati

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Non avendo mai puntato all’unanimità, non mi stupisco di risultare spesso antipatico e irricevibile. Per parafrasare il bunjee jumper di Piazzale Loreto: “Certi nemici, molto onore”. Non mi spaventano, ancorché mi fracassino l’apparato riproduttivo, le shitstorm organizzate. Ne ho ricevute da partiti di quasi tutto l’arco costituzionale, tolto il Pd. Non perché io sia del Pd: è che non capiscono le battute. Però, ecco, ma mi rendo conto che sui social sia molto difficile, vorrei essere responsabile di quello che dico e non di quello che capiscono gli altri. Specie se gli altri si raggrumano come una massa senza volto sulla base di quello che hanno creduto di capire. Una massa in cui c’è ovviamente molta gente in buonafede, alcuni decisamente simpatici, cui riservo questa risposta. Perché a tutti non è umanamente possibile.

Non chiedo scusa, intanto. Non chiedo scusa per aver rilevato, con una blandissima battuta, la curiosa “coincidenza” dello striscione che, nella curva della SS Lazio, ha commemorato la Regina Elisabetta con il tradizionale fascio font. Con tutto che la Regina Elisabetta, o per meglio dire il suo predecessore, contribuì alla fuga verso il confine del coniglio pelato che ci aveva resi camerieri dei nazisti. Quello che mandò mio padre in un campo di concentramento. Diciamo che, al netto di tutto, si poteva scegliere una grafica più consapevole.

Non chiedo scusa perché quello che avete capito voi, o che vi è piaciuto capire, non è quello che dicevo. Cioè: non ho mai detto che tutti i laziali sono fascisti. Ho celiato sulla curiosa coincidenza di una curva infestata, come molte, ma, storicamente, più di molte, da gente che potendo invaderebbe la Polonia. E non escludo che l’abbia già fatto. Facile? Certo. Le battute sono facili. Falso? Dai: non ci credete manco voi.

Che ci siano laziali antifascisti è noto. È un’ovvietà. Essendo nemico dei luoghi comuni, ho più volte dato pubblicità al Club laziale che si definisce tale. E che non è stato trattato coi guanti, mi risulta, in quello spicchio di Olimpico. Ho già aggiunto un dato che suona molto come “ho anche amici gay”. Ma ho almeno tre amici laziali antifascisti. Veri, eh? Non credo siano anche gay, ma non è che si possa essere perfetti.

Non chiedo scusa perché è un tema persino naturale, per un tizio come me, e l’ho sempre trattato per qualunque squadra. Pagandone le conseguenze, peraltro del tutto onorevoli, con insulti e minacce. Minacce reali. Anche quando la squadra era quella, il Bologna Fc 1909, che per me è una ragione di vita. Dacché a me fa abbastanza vomitare, per usare un giro di parole, che gli stadi italiani siano diventati un non luogo di prepotenze nostalgiche assortite. Quando accade, ne scrivo. Sono un cagacazzi anche dal vivo, tra l’altro. E prima o poi magari mi menano: solo negli ultimi due mesi ho rischiato con un tizio che salutava romanamente ad Ascoli e un farmacista filonazista nel Triestino.

Perché a me il fascismo, il nazismo, quella merda lì, chiamatela come volete, manda il sangue alla testa. I bulli, mi mandano il sangue alla testa. Una volta lo chiesi a un partigiano: “Come spiegherebbe a un ragazzo i fascisti?”. E lui: “Gli direi che erano dei bulli”.

Siccome però campo – bene – anche di facezie, quando posso li metto in burletta: una risata li appenderà. E non mi importa molto quali colori sfruttino per propalare quella – ripeto – merda. Anzi, come ho già scritto anche nei miei libri: essermi famiglio comporta una responsabilità maggiore. Se a vagheggiare il tempo dell’olio di ricino è qualcuno che condivide una mia passione, calcistica o no, direttamente o qualche con simbologia paracula ma evidentissima, m’incazzo il doppio. Così come chi ha nostalgia dell’Urss, chi sta con Putin, i vetero-comunisti, chi si permette di spezzare una piccola lancia per le Br, mi fa incazzare come non mai. Perché mi somiglia, o crede di somigliarmi. Mi sta vicino. Dunque, se posso gli tiro, una scoppola, metaforica, più forte.

Ora: non pretendo che i laziali antifascisti, nel momento in cui si fa notare quello striscione di melma, tra l’altro acqua di rose rispetto a quel che si è visto da quelle parti, prendano le distanze. Sarebbe come chiedere a tutti i musulmani di dissociarsi dal terrorismo, o come se gli italiani dovessero andare in giro per il mondo specificando di non essere mafiosi. Ma almeno sarebbe opportuno non sucarla a chi fa notare un’ovvietà di cui non possono non essere consapevoli. Prendetevela con chi lo sporca davvero, il vostro nome. Mica con me.

Ché quando all’estero mi dicono che c’è la mafia, per dire, o quella volta che in Polonia il tizio del bed and breakfast mi ripeté “bunga bunga” allo sfinimento, convinto di essere divertente, mica rispondo per le rime e m’incazzo con lui. Non è che, nello specifico polacco, mi sia messo a fracassargli la uallera spiegando dove poteva infilarsi il bunga bunga. Perché non sono berlusconiano: non mi tocca. Di più, quel “bunga bunga” l’avevo preso per il culo altrettanto allo sfinimento pure io. Spesso non gratis. Cos’è? Vogliamo l’esclusiva dell’indignazione? I panni sporchi eccetera eccetera?

Per finire, ma mi serviva qualcosa di più di un tweet, dico solo che mi è spiaciuto dover bloccare a raffica anche qualcuno che ha frequentato il bene dell’ironia e quindi non lo meritava. Ma a un certo punto, mettermi a battagliare in punta di penna su una mania di persecuzione immotivata – nessuno, ripeto, ha mai detto: “Tutti i laziali sono fascisti” – era davvero diventato impossibile.

A me, con tutto il rispetto per la Lazio, della Lazio – come dicono a Cambridge – importasega. Mi interessa solo il Bologna. Quando parlo del quale, sono permaloso e spesso vittimista come tutti i tifosi. Ma ne sono consapevole, ed è forse ciò che mi salva. Perché quando mi riprendo dalla mancanza di ossigeno, quasi sempre riesco a sussurrarmi ciò che, ora, mi sento di ripetere a ogni singolo tifoso laziale da cui sono stato aggredito senza ragione: stacce.

Di solito, in questo modo, mi calmo.

Post scriptum Siccome questo post eccede i 200 caratteri, nessuno l’avrà letto fino in fondo. Ma aggiungo solo una cosa: quando ho usato la mia presunta “pavidità” per un’altra battuta su un’ulteriore coincidenza – sono fatto così: molta gente molto più potente ha cercato di zittirmi: in genere reagisco alzando la voce, finché non mi cacciano – sono stato preso in parola e mi si è aperta una scuola di tip tap sui coglioni perché rifuggirei il confronto. Ergo: lascerò aperti i commenti al post. Anche perché non è che ci voglia ‘sto coraggio a prendersi qualche altra pernacchia: c’è gente che con le parole rischia davvero. Ho già detto quel che dovevo. Non ho nulla da spiegare, null’altro a cui replicare. Dico solo che, come sempre, continuerò a scrivere l’accidenti che mi capita. In base alle cose in cui credo. Potendo, con ironia. Ah: Forza Bologna, sempre.

Di farmacisti, botoli fascisti, e altri pasticci

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Al giudice il 29enne ha detto di non avere una “spiegazione ragionevole” di  ciò che aveva fatto
Una svastica tatuata su un prepuzio

Mi sono tenuto l’episodio per il dopo-vacanze, perché non ero neppure sicuro di raccontarlo. Ma siccome c’è in giro anche nel cosiddetto Centro chi teme più l’Irpef che i fan di Benito, vi ruberò qualche secondo.

Muggia, una decina di giorni fa.

C’ero stato ai tempi del libro “Tutti al mare vent’anni dopo” e mi pareva un posto molto ospitale. Mi avevano messo pure il Pastis a due euro, regalandomi l’elettricità per scrivere l’ultimo pezzo della serie, che veniva pubblicata su l’Unità.

Nel frattempo è passato un ventennio, nello stesso bar il pastis non c’era più, ma soprattutto non molto lontano c’è una farmacia. Quella del dottor *****, come da inappuntabile pin sul camice bianco. Che noterò a buriana finita, ragionando sull’ironia involontaria dei dettagli.

Entro in quella farmacia per comprare un cerotto, serve a mia figlia per il suo bel nasino. Ci son un paio di clienti e uno lo sta servendo proprio il dottor *****. Cercherò di trattenermi, nel descriverlo, da dettagli che potrebbero indulgere al body shaming: un nano di merda. Non proprio nano, diciamo sul metro e sessanta. E grasso. E brutto. Ovviamente questi aspetti sarebbero del tutto trascurabili (non che io sia slanciato, e sono grasso, e sono brutto) se il figuro non fosse completamente vestito di nero, con le braccia istoriate di tatuaggi tra i quali spiccano: una croce celtica, un’enorme svastica, l’ascia bipenne di Ordine Nuovo, ossia l’organizzazione che con ogni probabilità ha macellato 85 persone vicino a casa mia, in stazione. Un’ascia bipenne, per la precisione, in campo bianco su bandiera rossa.

Un nazista del cazzo. O un wannabe nazista. Comunque del cazzo.

File:Flag of Ordine Nuovo.svg - Wikipedia
L’accattivante logo di Ordine Nuovo

E qui comincio a sbagliare. Perché, dopo aver chiesto i cerotti, piccoli, mi va il sangue alla testa. E perché, soprattutto, cerco un minimo di complicità negli astanti. “Roba da matti”, sussurro. “La svastica, ma come si fa”. Silenzio. La farmacista, che comprende il possibile casino, mi sollecita: allora, come li vuole i cerotti? Ripeto: “Piccoli”. Mi dice che piccoli non li ha, quasi a volermi accompagnare fuori: “Solo scatole complete. Allora?”. Le chiedo il tempo di calmarmi.

Poi mi avvicino al nano di merda e gli dico, sorridendo: “Sa una cosa?”. Sorride anche lui, non ha ancora colto. Continuo: “Mio padre fu mandato in un campo di concentramento dal tizio che lei esalta. Spero si reincarni in un piccione e gliela faccia in testa”. Risposta: “Il mio è stato cinque anni prigioniero degli inglesi”. Al netto dell’informazione spiazzante (siamo così scarsi da farci catturare la gente a guerra appena iniziata?), è il momento che entri in scena il dottor *****.

Che mi intima: “O compra o se ne va”.

OLIO DI RICINO - Spezierie Palazzo Vecchio
Un noto preparato galenico in voga durante il Ventennio

Gli dico: “Ma le sembra normale una cosa del genere?”. Il dottor *****– un uomo elegante, ben vestito, barba curata, sui quaranta/cinquanta portati con italica fierezza – mi spiega che noi comunisti dobbiamo smetterla, poi alza la voce e mi intima nuovamente di andarmene. Gli rispondo che il contrario di fascismo è democrazia, non comunismo. Il dottor *****, sempre più alterato, mi informa urlando che in Italia non c’è democrazia. E mi dice che se non me ne vado chiama i carabinieri. Rispondo di chiamarli, così posso fare una bella denuncia per apologia di fascismo e nazismo. Abbozza. Ma subito dopo ricomincia a urlarmi che devo andare.

E qui sbaglio di nuovo, perché è da mentecatti rispondere “Sennò cosa fai?” a uno che ti provoca e sta difendendo un nazistello. Ma rispondo: “Sennò cosa fai?”. Il dottor ***** abbandona il bancone per passare a vie di fatto ma viene fermato dalla collega. Al che, al culmine degli errori che ho commesso, abbandono il campo, nel silenzio dei due clienti presenti, non prima di aver definito “botolo di merda” il tizio, che in tutto questo è sempre stato immobile e spaventato dal contesto, e “fascisti di merda” lui e il dottore.

Indi, riprendo le mie vacanze.

Benito Mussolini - Wikipedia
L’uomo a causa del quale mio padre s’è fatto due anni in un lager nazista

Ripeto: ho proprio sbagliato. Soprattutto perché prima o poi qualcuno mi mena. Come il tizio che ad Ascoli, dopo che avevo presentato il libro di Ermal Meta, in un’osteria di fianco al teatro, si presentò ai commensali facendo il saluto romano. Accolto dagli applausi. Quello non era neanche un nano di merda, ma un pelatone discretamente fisicato, cui mi avvicinai dicendo che mio padre purtroppo non poteva essere presente, altrimenti gli avrebbe detto di infilarsi quel braccio nel culo. Stranamente, farfugliò qualcosa e mi lasciò andare. Forse era seduto tra il pubblico poco prima, chissà. Perché questa è gente normale, che in democrazia è solo relativamente pericolosa. Ma che in fondo sarebbe felice se in democrazia non fossimo più, cresciuta com’è in quarant’anni di rimozione e derisione di chi salvò il nostro onore di camerieri del Führer. Con la Resistenza.

Gente che esiste, vota, e tra un mesetto – a ragione o no – si sentirà vincitrice e chiederà a chi governa di sollevarci dal giogo del regime comunista.

Sarebbe bello che i vincitori non soffiassero sul fuoco. Foss’anco una fiamma. Chissà se accadrà.

In ogni caso, colgo l’occasione per scusarmi pubblicamente col dottor ***** e col nano di merda.

A presto.

Il Pd e gli estremisti di Centro: un pippone

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Al netto delle motivazioni certamente ottime per cui Carlo Calenda si alleerà con Matteo Renzi, cui fino a dieci secondi fa scriveva “fesso” sulla fiancata dell’auto con un punteruolo, l’incedere della campagna elettorale, sua e di altri, pone un problema lessicale su un tema specifico: l’estremismo.

Calenda mollerà il Pd usando come casus belli la possibile presenza, nelle liste collegate ai democratici, di due avversari che considera appunto estremisti: Sinistra Italiana e Verdi. Che sono partiti ma anche parole. Impronunciabili.

Calenda annuncia il 'patto repubblicano'. Gelmini, ex FI: “Io ci sono,  vediamoci” - Corriere Etneo
Carlo Calenda in visita al tunnel del Gran Sasso

Sinistra Italiana, è innegabile, contiene il termine Sinistra. Diventato ormai, in questo Paese, sinonimo di esproprio proletario. Basti pensare che discutiamo da due giorni sulla cosiddetta Patrimoniale proposta da Enrico Letta, che non è una patrimoniale ma un contributo, sulla sola successione, e solo da parte degli italiani straricchi, da destinare a chi, per colpa della mia generazione e di quelle precedenti, si affaccia alla vita senza difesa alcuna: i nostri giovani. È un mandato della Costituzione, la progressività delle imposte. Eppure, nel comune sentire, nel racconto politico, nel giudizio sprezzante del Centro, certe cose non vanno nemmeno pensate. Figurarsi dirle. Renzi ha twittato ghignante che “bisogna morire gratis”. Il passo successivo è un cavallo di battaglia del suo alter ego leghista: la flat tax. Che è contro la Carta e non si potrà mai fare. Ma di quella, parlare si può.

A Fratoianni, leader di Sinistra Italiana, che fino a ieri conoscevamo in quattro, compreso Fratoianni, Calenda imputa di aver votato contro il Governo Draghi. Cioè di aver pigolato un messaggio identitario, di equità, all’interno dell’unanimità altrui. Quattro cose, sempre le stesse, che non prevedono l’invasione dell’Ungheria ma che, ad esempio, premevano ché Draghi confermasse la tassa sugli extraprofitti derivanti dalla guerra (Eni: lo Stato ne avrebbe ricavato tre miliardi). Cancellata, ovviamente.

Il vino al veleno di Stalin - Il Sole 24 ORE
Nicola Fratoianni

Che Azione contribuisca alla narrazione vincente per cui i poveri devono limitarsi a invidiare i ricchi, a votarli, e a odiarsi tra loro, è del tutto legittimo. È il brodo di coltura in cui siamo immersi dal ’94, il conflitto d’interessi che si è mangiato il conflitto di classe, e ne siamo tutti permeati. Anzi: l’abbiamo esportato nel mondo. Ma il dato è che non tutti gli “estremismi” sono uguali: mentre la cosiddetta Destra Sociale sta per governare il Paese, il Centro mette il veto alla Sinistra Sociale.

In verità, Fratoianni ha risposto al diktat di Calenda – “Non candidatelo nel maggioritario” – in modo spiazzante: “Va bene”. Il che collide un po’ con la narrazione radicalissima cui è soggetto però, con quel simbolo rosso così sospetto, non lo dispensa dall’accusa di bolscevismo. La provocazione di assentire alle richieste altrui potrebbe essere uno dei soliti bizantinismi comunisti.

Ma se la Sinistra rappresenta una specie di mirino per i centristi assoluti, l’ostracismo per i Verdi parrebbe, a un primo e sommario esame, meno spendibile. Perché è vero che gli ambientalisti italiani hanno sempre trovato spazio nel cosiddetto campo progressista, ma attengono da sempre anche al mondo radicale, libertario, vicino più alla Bonino che alla cosiddetta sinistra radicale, dove per sinistra radicale si intende chiunque si opponga allo ius primae noctis. Trattasi di tema universale che tra l’altro porta pure denari a chi riconverte – c’era persino un ministro contro la transizione ecologica, all’ultimo giro – e voti da addirittura due categorie di elettori: chi ha a cuore l’universo mondo, e chi ha a cuore il proprio giardino.

Heidi: dietro le quinte di un mito svizzero | House of Switzerland
Angelo Bonelli

Eppure anche questo tema, presente in tutte le democrazie del mondo, specie le più evolute, da noi risulta appunto estremista. Ci si chiede se vogliamo i condizionatori o la guerra invece di chiederci se vogliamo i condizionatori o temperature per cui non basteranno più manco i condizionatori. Da noi i moderati irridono i gretini, comunicando soprattutto ai più giovani che non c’è benessere senza distruzione dell’ambiente. Tanto – semplifico, ma mica poi troppo – sono affari di chi viene dopo. Un disastro culturale che irride l’idealismo dei giovani. I quali, ammesso che non cedano alla vulgata, si ritrovano davanti a due alternative: non votare, andarsene. E spesso fanno entrambe le cose.

Concludo il ragionamento citando un mio vecchio maestro, Michele Serra, irriso dalla Destra allorquando anche il Pds venne preso con le mani (due dita, va’) nella marmellata di Mani Pulite. Gli chiedevano per chi l’avesse fatto, di spendersi per un partito che era uguale agli altri. Michele rispose che l’aveva fatto per sé stesso, di girare le salamelle alla Festa de l’Unità. E gli bastava. Credo che analogo ragionamento andrebbe fatto nei confronti della ridotta elettorale pentastellata. Al netto di una classe dirigente disperante, anche quella che se n’è andata, anche quella transfuga con cui il Pd sta ragionando sui collegi, sicuri o no, c’è un 11 per cento residuo che è arrivato a casa di Grillo perché deluso dall’ignavia della sinistra riformista. È lì rimane. Confusamente, ma chi non lo è. Gente che, basta leggere i social, non si capacita realmente della porta presa in faccia dal loro partito (e di motivi ce ne sono, primo tra tutti l’insipienza di Conte) e che vede nel Pd la sponda fisiologica alla ricerca di una parcellare giustizia sociale.

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Giuseppe Conte regge un foglio che non ha letto

Il repulisti di Grillo ha tolto di mezzo molti scappati di casa. Gli altri sono andati con Di Maio. Conte non può imbarcare Di Battista per ovvi motivi. Il centro alza barricate. Il quadro, insomma, pare molto fluido.

Uno come me, che col populismo ha incrociato e incrocerà i guantoni per sempre, coi vertici pentastellati farebbe fatica a condividere un piatto di lasagne. Ma siccome il percorso calendiano ricorda molto quello di Conte con  Draghi – alzare la posta per rompere – il Partito Democratico pare essere a un bivio: ritrovarsi in pancia chi lo eterodirige da tempo, e lo aveva portato sull’orlo dell’estinzione, o ritentare una sintesi, anche speculativa, con una platea elettorale che gli somiglia, e con un tizio che pur di restare al Governo ha dimostrato di potersi alleare praticamente con chiunque.

Nulla di esaltante. Ma siccome lo scenario, al momento, sembra quello di decidere da chi farsi ricattare, tenere accesi i due forni ancora per un po’ significherebbe riprendere in mano il gioco, e ribaltarlo, da partito di maggioranza.

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Da moderati veri, da punto di equilibrio, rivendicando come tratto fondante, centrale, proprio il senso delle istituzioni che in tutti questi anni ha abraso l’identità riformista del fu Partitone. Quel 23% somiglia al 40 di Renzi: è un bene rifugio. Per non disperderlo, o addirittura per farlo crescere, occorrerebbe riprendere in mano il pallino. Col programma in una mano, la calcolatrice nell’altro. Tanto, comunque vada, i centristi decideranno con chi stare – orbitare a sinistra, o scalare Forza Italia con ottime possibilità di successo – soltanto dopo.  

Tanto vale, forse, assecondarli. E lasciarli marciare da soli.

Buona prosecuzione.

Se non ora, dopo

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Il Pd vincerà le elezioni e Greta Thumberg ha rilevato un’azienda che estrae carbon fossile.

Se la seconda ipotesi vi pare più probabile della prima – lo è – immergetevi con me in una breve lista delle cose che il Partito Democratico può fare per sopravvivere al disastro annunciato, in modo che tra un paio d’anni (quando la maggioranza di Destra si prenderà a sganassoni com’è sempre accaduto) venga evitato il solito governo “dei sacrifici” e di responsabilità nazionale che a ‘sto punto, essendo finite le riserve della Repubblica, sarà guidato probabilmente da Carlo Conti, e i democratici possano presenziare alle elezioni col brivido che non li percorre dal 2006: cercare di aggiudicarsele.

enrico letta alla bbc: è stata una vergogna, l'italia è stata tradita  perché quei partiti che... - Politica
Enrico Letta prima di un incontro con Italia Viva

Cosa non fare. In larga parte, ciò che già fa. Appiattirsi su chiunque, di volta in volta sulla “grande risorsa della Sinistra”, ossia la grande risorsa di Matteo Salvini, ossia Giuseppe Conte, o sul cosiddetto “centro moderato”, ovvero interlocutori che peraltro si detestano, tipo Renzi e Calenda, e sgomitano sul loro sentiero di sopravvivenza. Chi più largo, chi molto meno. Sono loro ad aver bisogno di Letta, non viceversa. Invece, ognuno pone condizioni. Mentre in qualunque mercato, anche quello politico, è l’azionista di maggioranza che fa valere il potere contrattuale. Simul stabunt, simul cadent, certo, ma c’è un simul che ha molti più voti e non può farsi dettare programmi, candidature, alleanze dagli altri.  

Mario Draghi saluta e si commuove: "Anche i banchieri hanno un cuore" |  Video
Mario Draghi affranto dopo le dimissioni

Non insistere sul Draghicidio o almeno non farne l’unica narrazione. Il cosiddetto Conticidio ha rimpinguato i conti correnti di alcuni teatranti e le tirature di alcuni giornali ma non è mai diventata una piattaforma politica perché il partito di Conte, alla fine, ha governato per cinque anni filati. E gli elettori lo sanno bene. Il Pd, in qualche modo, governa da dieci. Per il comune sentire è diventato il partito che sverna al potere non già per senso di responsabilità, ma perché più abile nelle congiure di Palazzo. Riconoscersi acriticamente nell’agenda Draghi, anche se averlo sostenuto è un punto di merito e di decoro civile, non è sufficiente. Tanto più assumerla in toto, agendina bancaria compresa, conferendo un timbro politico a un governo che politico non era. Intanto perché di Draghi potrebbe esserci nuovamente bisogno: meglio non mettergli giacchette. Poi perché significherebbe per l’ennesima volta indossare un’idea altrui di Paese, senza specificare quali sono gli obiettivi propri a cui si punta. Se non qui e ora, qui e dopo, dacché la prospettiva immediata sembra quella del famoso sketch con Corrado Guzzanti e Germana Pasquero subito prima del voto nel 2001: “Per tornare a vincere nel 2006”. Qui, a occhio, nel 2024.

Leopolda, Renzi: "E' buona politica, ma giornali parlano d'altro". Fnsi:  "Li mette alla berlina come Berlusconi e Grillo" - Il Fatto Quotidiano
Ciaone (dettaglio)

Regolare i conti a catastrofe avvenuta. Letta ha ereditato macerie cosparse di sale. Il blairismo fuori tempo massimo che si è ritrovato in casa, nell’unico partito al mondo che ospita al suo interno una corrente di un altro partito, possiede lo stesso appeal di un tamponamento sulla corsia opposta in autostrada: molti rallentano a guardare l’incidente, diciamo un 40,8%, ma appena possono ripartono di gran carriera. Quella che si prospetta alla sinistra democratica può essere una convalescenza o un’agonia. Affidarsi a chi ha provocato la seconda è numericamente perdente. Politicamente, pure. Perché ciò che Walter Veltroni si proponeva sin dagli inizi, ossia un partito moderato e riformista, di centro-sinistra, esiste già: è il Partito Democratico. Perlomeno esiste il 20/25% che gli si è abbarbicato. E non necessita di investiture da parte del centro-centro, che si propone come ago della bilancia mentre la bilancia è già nel tinello di Giorgia Meloni. Anche se Salvini e Berlusconi cercano di riportarla ad Arcore.

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Il programma del Pd

Cosa fare. Una propria agenda dotata di amor proprio, almeno un po’. Chiara, semplice, inclusiva soprattutto per chi a votare non va più: i giovani. Che possono fare la differenza tra una sconfitta e una mattanza. Perseguire, rivendicare, i punti di programma che sempre gli stessi centristi ritengono irricevibili, quelli per cui “non è mai il momento giusto”, e che invece devono sorreggere qualunque forza progressista: lotta alle mafie, all’evasione, alla corruzione, ai fascismi vecchi e nuovi, alle intolleranze. Appello agli italiani che si sono rotti i cabbasisi, come avrebbe scritto Camilleri, di regalare le strade, le scuole, gli ospedali, a chi ogni giorno gli mette le mani in tasca non pagando le tasse. Fare una legge elettorale che funzioni invece che una scritta per (credere di) vincere, ché poi si finisce come col Rosatellum. Essere divisivi, finalmente, puntando alla maggioranza e non all’unanimità. Battagliare per i diritti civili (lo ius scholae, il matrimonio, vero per qualunque genere, la liberalizzazione delle droghe leggere per combattere gli interessi mafiosi, un fine vita reale, l’applicazione della Legge 194 e della 180, alzare gli stipendi delle Forze dell’Ordine restituendo loro dignità e serenità) e anche, se non soprattutto, sociali.

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Luigi Di Maio mentre cerca di ricordarsi qual è il numero successivo

Anche il sottoscritto ha sbeffeggiato inizialmente il Reddito di Cittadinanza come provvedimento residuale e clientelare. Clientelare, in parte, lo è stato: ha generato voti che infatti sono spariti subito dopo. Ma era una risposta, scritta coi piedi, a un problema concreto che ha in parte arginato: la povertà. Che è figlia di lavoratori ridotti a una sorta di schiavitù del senso comune secondo il quale la mia generazione ritiene normale che chi ci ha seguiti debba intestarsi i sacrifici mai compiuti da molti di noi, versandoci pure i contributi per la pensione che mai vedranno, pagati niente e pure sbeffeggiati da chi si lamenta di non trovare manodopera a quattro lire. Anche qualificata. Anche accademica: quanta gente che ha potuto studiare ci guarda dall’estero perché in Italia era impossibile trovare un salario decente e un posto di rilievo in mezzo a una selva di raccomandati e baroni? A loro la parola Europa suona come un’ancora di salvezza, un posto in cui certe petizioni “estremiste” sono valori condivisi da qualunque forza politica, ed è incredibile che anche su questo tema la sinistra riformista si sia ritirata sulla difensiva. Con tutti i soldi del Pnrr che ci stanno generosamente (molto generosamente, visto gli scappati di casa che siamo) elargendo. Con tutte le evidenze che rendono anche economicamente preferibile Bruxelles a Visegrad. Cioè a Mosca.

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Tipica massaia emiliana

In fondo il Pd, e i suoi alleati cosiddetti radicali, il modello ce l’hanno a casetta: le Regioni che ancora governano, tra l’altro spesso insieme ai centristi. Che, almeno in provincia, sembrano meno ideologici. Quanti italiani intraprendono viaggi della speranza per curarsi in Emilia-Romagna? Molti, come verso la Lombardia. Ma in Lombardia, quando i malati di Covid morivano come mosche, i medici di base erano scomparsi. Modello Giorgetti. Modello Compagnia delle Opere. Modello che non ha funzionato. Modello che non prevede la dittatura del proletariato eppure a livello nazionale viene osteggiato da vivaisti e azionisti come se un larvato equilibrio tra mercato e diritti fosse una bestemmia.

Nel 2011, Salvini, Meloni e Berlusconi avevano portato il Paese sull’orlo della bancarotta. Ora, come da meme che il Pd dovrebbe ritirare fuori e appendere in luogo dei santini di Supermario, chiedono di riprovare. Ma la Fornero combinò lacrime e tagli non perché si credesse il Diavolo Veste Inps”. Semplicemente, sapeva che Atene è bella ma non ci vivrei e Monti era un effetto, non una causa, delle cicale populiste, delle “pensioni da mille euro”, delle “dentiere per tutti”, di Alitalia ai “capitani coraggiosi” e via dissipando.

Lo sa bene Giorgia Meloni la quale, conscia com’è della penuria di classe dirigente che alberga dalle sue parti, da mesi molesterebbe telefonicamente tutti i tecnici “di area” che possano in qualche modo conferirle agibilità anche internazionale. I vituperati tecnici.

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Meloni

E per finire, il Pd dovrebbe togliere di mezzo questa bufala dell’anti-italianità. Desiderare che questo Paese sia un po’ meno cinico, un po’ più buonista, cioè tendente a migliorare, se può, senza sentirsi superiore a nessuno, è un atto di amore verso il nostro Paese. Anche e soprattutto per il Sud, dove il buco nero a Cinque Stelle può e deve essere riempito di proposte concrete, magari a bordo di un pullman alla Prodi che deve partire ieri. Ché all’Elmo di Scipio e allo scalpo della Vittoria, è sempre preferibile la seconda strofa, molto più consapevole, del Canto degli Italiani: “Noi fummo da sempre, calpesti e derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi, raccolgaci dunque un’unica speme, di fonderci insieme già l’ora suonò”.

Anticipo la domanda: ma la mancata estinzione del Pd, siamo proprio sicuri che servirebbe? Trovo legittima la risposta negativa, ma sono convinto che essere l’unico Paese occidentale senza un partito di sinistra moderata, un vero partito di sinistra moderata, intendo, rappresenterebbe un danno importante non solo per la democrazia. Ma anche per la Destra che sta per governare. Quantomeno perché avrebbe finito i “governi precedenti” cui addossare le colpe.

Buon viaggio.