Quel giorno in cui mio figlio non diventò tifoso del Bologna

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Questo articolo è uscito sul blog del Corriere di Bologna un annetto orsono. Oggi l’ho letto in radio per raccontare come mai non torno più allo stadio da tempo. Mi è stato richiesto. Eccolo.

 

Qualche mese fa mi è capitato un diverbio con alcuni ultrà del Bologna (che, per inciso, è la mia unica religione). Mi amareggiò molto. Scrissi un pezzetto liberatorio che però decisi di tenere nel cassetto perché mi sembrava troppo retorico. Forse lo è. Ma siccome una battuta su certi striscioni apparsi al Dall’Ara, quelli sulla Juve e sui suoi morti, ha rinfocolato le considerazioni di chi, anche amici, anche molto urbanamente, mi rimprovera di non capire le logiche della curva – e sì, limite mio, forse alcune proprio non le capisco – ho deciso di postarlo adesso. Siate clementi.

Domenica scorsa ho portato mia madre alla trattoria del Meloncello: passatelli, friggione, quella roba lì. Avevo lasciato la macchina in Certosa per andare a trovare mio padre, e nel passeggiare per riprenderla siamo passati davanti allo stadio.

Non ci vado da anni, allo stadio. Un po’ perché la domenica devo vedere la tv per scriverne, un po’ perché scroccare la tribuna stampa senza dover (più) lavorare mi incupirebbe.

L’ultima volta che ho assistito a una partita dal vivo era in Scozia, quest’estate. Volevo mostrare a mio figlio la magia del prato, da vicino. Magari per contagiarlo con la passione che mi pervade da sempre e che sembra non sfiorarlo. Ne ha altre, e tutte straordinarie. Ma il Bologna no.

Stavano (stavamo) per giocare contro il Pescara. E l’esterno dello stadio mi è sembrato bellissimo. C’erano molti bambini con la maglia rossoblù, tra l’altro. E io a un bimbo che tifa Bologna nel 2012, invece che Milan, Inter o Juve, non regalerei un ingresso ogni tanto. Gli darei l’abbonamento gratis. La divisa sociale. La foto garantita insieme ai suoi eroi. Una pergamena d’oro zecchino. E mentre tornavo verso l’auto attraversando il cimitero, e incontravo gli altri tifosi che passavano tra le tombe chiacchierando in dialetto di quanto sia forte Diamanti e un po’ meno forte Agliardi, lui, il piccolo, ha pigolato una frase meravigliosa: “Babbo, quando mi porti allo stadio?”.

Domenica prossima, gli ho detto. E anche se sapevo che forse lo faceva per me, perché credeva mi gratificasse, sono andato a casa rinfrancato. Magari stavolta si divertirà, pensavo. E pazienza se dovrò tappargli le orecchie perché il sottofondo delle partite è spesso odioso, gravido di ostilità, lontano millanta miglia da quel che un bambino dovrebbe percepire del calcio.

Verso le sei, già avevo esultato per Gilardino e sacramentato per Quintero, ho visto in rete una foto della curva Andrea Costa. In mezzo alla quale campeggiava uno striscione in caratteri squadrati che parlava di difesa dell’onore e altri concetti piuttosto vacui e piuttosto nostalgici. Allora ho fatto una cosa imprudente: l’ho postata su Facebook aggiungendo che ci meritiamo tutto.

In pochi minuti è partita una lunga sarabanda di gente che mi spiegava la topica che avevo preso, che con l’estrema destra quei caratteri non c’entrano nulla, che li usano tutti gli ultrà, che sì però le foibe, che sono un coglione, che loro sono apolitici. Gente che sulla propria bacheca faceva il saluto romano, “ma come gag”, o mostrava immagini dello sbarco di D’Annunzio a Fiume. Altri mi hanno spiegato che sono un imbecille perché non capisco la mentalità della curva, che noi “giornalai” – fresca, questa – dobbiamo smetterla e “magari ne parliamo di persona”, che se lo striscione non mi piace devo andare a strapparlo “in balaustra” e comunque se non sto attento faccio la fine di un cronista che fu menato. La discussione si è poi trasferita nei forum appositi, con toni anche più accesi.

Ora, l’occasione mi è grata per ribadire ciò che ho spiegato ai miei critici online: è ora che facciate pace con voi stessi. Gli striscioni neri, i caratteri runici, il cranio rasato, non sono estetica da swingin’ London: sono paccottiglia mussoliniana. Siccome c’è gente che è morta perché potessero essere espresse anche idee del menga, e anche perché la polizia tende a tollerare certa roba in curva perché non le capisce/non se la sente di intervenire, nessuno vi impedisce di esporli. Però assumetevene la responsabilità senza tendere il braccio e nascondere la mano.

Questo perché nel 2012 giocare a fare i fascisti si può, e non comporta alcun rischio. Anzi, spesso è un hobby borghese: altro che onore, antagonismo, retorica dei cani sciolti. Ma è proprio per quello, perché si può, che c’è gente come me ancora e profondamente antifascista. Perché, parafrasando la Buonanima, “certi nemici, molto onore”.

Mi spiace solo che il prezzo della vostra paraculaggine (siam tutti neri con lo striscione degli altri) l’ha pagato il mio bimbo. Perché oggi sono rimasto a casetta, e lui con me. Certi gentiluomini già avevano minacciato un cronista di questo giornale sui muri di fronte al Dall’Ara, senza che nessuno si sia mai preso la briga di cancellare quelle scritte, e questa patente intimidazione è passata in cavalleria nel silenzio di troppi. Avrei faticato a spiegare a mio figlio eventuali prodezze ai miei danni del gruppo vacanze Salò.

Magari, se vorrà, gli dirò tutto tra qualche anno. Gli farò leggere questo pezzo. E gli racconterò quella domenica di fine settembre del 2012 in cui battemmo 4-0 il Catania ma lui non diventò un tifoso del Bologna.

Da Sette: E all’improvviso parte una canzone tipo Van De Sfroos

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Chiedo scusa se, anziché abolirla, parlo di provincia. La mia, intanto.

L’altra settimana s’è svolta a Bologna la celebrazione del compleanno di Freak Antoni, recentemente scomparso. Su un palco gli Skiantos, con un po’ di amici, complici, qualche estraneo. Su un altro, l’ultima compagna di Freak. In mezzo, una teoria di dispettucci che, a futura memoria, ci hanno fatto scoprire una sorta di bitolseide al ragù. E una Yoko Ono, Alessandra Mostacci, che – parere personale – aveva fatto cose molto belle con Freak. Come quella “Però quasi” che fu loro respinta a Sanremo un paio d’anni fa. Ed è una canzone dolente e bellissima. Dove “bellissima” sta proprio per “bellissima”.

Beghe di periferia, appunto. Di una città che ancora tiene in un angoletto vergognoso Dino Sarti, chansonnier metafrancese, che cantava di operai imbrillantinati, compitava deliziose versioni in vernacolo di New York, New York (Neviork, Neviork), riempiva la piazza della città ad agosto. Poi compose l’inno del Bologna, in tempi in cui il presidente della società comprava – secondo la leggenda metropolitana – più partite che giocatori. E ogni anno la squadra si salvava boccheggiando. Dissero che Sarti portava sfiga. Morto. Prima di morire davvero, anni dopo. Così, di quella piccola/grande carriera spesa anche all’Olympia di Parigi, addirittura a Las Vegas, non si ricorda più nulla nessuno. Nonostante avesse sconfitto un nemico subdolo e terribile, oltre a quello della maldicenza: cantare in vernacolo districandosi con l’italiano, quasi a mo’ di traduzione, nello stesso pezzo.

Ci provarono successivamente i Modena City Ramblers, dei quali si ricorda con piacere “The great song of indifference” riletta coi profumi del lardo e dei chiodi di garofano. Mica male. Poi decisero (i fan pigri, più che loro) che per il tour successivo, bastavano Bella Ciao, Contessa, e passa la paura. E si riempiono le piazze.

Ci prova ancora Davide Van De Sfroos.

Van De Sfroos è simpatico, ironico, paraculo quanto serve (“Leghista? Mai”, poi però a cena con Formigoni ci vai, alle Feste della Lega pure, e siccome quelli, come intelettuale di riferimento, hanno il prof che dava le ripetizioni a Salvini, finisci pure a prender le briglie dell’Expo: e comunque mica è un reato) ma gli riesce meglio, gli è riuscito, il salto della quaglia che non quello di qualità.

Ascoltare per credere Goga e Magoga, l’ultimo album. E soprattutto il brano che dà il titolo al lavoro. Una specie di suite di quasi 7’ il cui titolo significa “Senza capo né coda”. C’è qualcosa di psichedelico, ci sono echi di Genesis, c’è un eco dei Delirium. C’è tanta eco. Di tradizione, di contemporaneità, di italiano, di laghée… la smettete con tutti quegli echi ché non si sente niente?

Che poi te lo ascolti e gli vuoi bene, al Bernasconi. Quando canta El Calderon de la Stria, con quegli archi senza un vero perché, che impastano e circondano citazioni buffe, tra Alice che non guarda più i gatti ma nel mirino del fucile, Pierino Gros, un ginecologo perso tra gnocca e poesia… e lo senti passare tra italiano e dialetto, dici che quasi quasi… E lo stesso vale per De  Me, una ballad con chitarra accogliente, che sembra “Talkin about la luganega” di Tracy Chapman. E per “Volevo essere Neil Young”, cioè Ki. O “Volevo essere i Jethro Tull”, cioè Mad Max. E per Crusta de platen (un po’ la sua versione di Certe notti, anzi “certe nücc”) e certe notti la radio che passa Enzo Jannacci sembra avere capito chi sei ma…

Ma.

Uscito su Sette

La Coop, Bugani e il video cult: la sceneggiatura segreta

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bugaCuriosità e migliaia di visualizzazioni per il video comico pubblicato su Youtube dal consigliere comunale pentastellato, nonché frontman di Beppe Grillo alle Europee, Massimo Bugani. Nei 5’10” di filmato, Bugani smaschera i prodotti Coop che contengono ingredienti stranieri, ma lo fa con una nuova  app della Coop che serve proprio a quello. I commentatori sul web hanno deriso il filmato col banale pretesto che satireggiare un marchio pubblicizzandone i servizi è un clamoroso autogol. Altri hanno ironizzato dicendo che Bugani sembrava pagato per fare pubblicità. Ma è falso. Altrimenti ci sarebbe stato un copione. E in quel caso, sarebbe stato come quello che leggete qua sotto.

 

Titolo

“La Coop è lui” (plot per corto comico promozionale commissionato da Coop Italia).

Interprete

Massimo Bugani, consigliere comunale del M5S.

Location

Interno giorno, cucina ingombra di oggetti d’uso comune. La ripresa è volutamente malferma a simulare di essere stata realizzata con uno smartphone, per evidenziare l’effetto “rubato”.

Dietro a un lato del tavolo è seduto Bugani. Sul medesimo (il tavolo, non Bugani) sono disposti alcuni prodotti a marchio Coop.

Soggetto (Tra parentesi le note del cliente)

Il protagonista inizia la performance stonando platealmente il jingle della casa pubblicizzata: “La Coop sei tu, chi può darti di più”. Sull’ultima parola, la voce si fa più stridula per calcare il proprio ruolo in commedia: l’Ispettore Clouseau.

Primo tirante comico

L’attore mostra in camera uno smartphone e si vanta di aver scoperto una magagna della Coop: i prodotti che ha lì sul tavolo contengono anche materie prime estere. Come l’ha scoperto? Con un’applicazione gratuita della Coop (che chiunque può scaricare e serve proprio a verificare la provenienza delle materie prime).

Close up sullo smartphone – filone comico secondario: è prodotto in Corea – mentre lancia l’app.

Nota bene: per evitare che il proposito commerciale del filmato balzi subito all’occhio, proprio sopra il logo “Coop Origini“ appare di sfuggita un’altra app: quella di “X factor 2013”. Lo spettatore sorriderà, pensando al pentastellato duro e puro che si titilla con Morgan e Mika, e farà meno caso allo spot (attenzione: non inserire la battuta che votare per X Factor è più facile che scegliere i candidati europei a Cinque Stelle. L’autocritica renderebbe meno credibile il messaggio).

Secondo tirante comico

Con cordiale indignazione (modello di riferimento: Peppone quando prendeva cappello di fronte a Don Camillo) il protagonista inserisce nella app i codici dei prodotti che vuole sbugiardare.

Dettaglio su scatola di tisana Coop sulla quale è scritto che è prodotta in India. Dopo aver inserito il codice nello smartphone, Bugani rivela tutto contento un particolare inedito: è prodotta in India.

Terzo tirante comico e chiusura

Climax: l’attore rivela che il succo di pompelmo Coop viene da Cuba (attenzione: cancellare battuta “E da dove vuoi che venga, da Molinella?”). Solo alla fine, pronuncia una frase fintamente critica – “Forse non sapevate che la Coop è anche Messico, Stati Uniti, Egitto: ma cosa cavolo ci mangiamo…” – il cui scopo è far sentire lo spettatore più avveduto del protagonista, invitandolo in modo subliminale a scaricare l’app di cui sopra e a comprare Coop.

Istruzioni di marketing

il video andrà postato su Youtube senza avvertire che si tratta di una telepromozione. Sono stimabili quasi 100.000 contatti nei soli primi tre giorni, dei quali appena 99.500 provenienti dal computer di Bugani.

Uscito sul Corriere di Bologna

Tua Suora

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https://www.youtube.com/watch?v=TpaQYSd75Ak

Fino alla sua apparizione (occhio, il termine non è casuale) i riflettori di The Voice illuminavano un unico tema: come si colora i capelli Piero Pelù? E’ vero che usa petrolio? E se sì, è vero che a ogni puntata del talent di Raidue il prezzo del greggio sale di 8 dollari al barile?

Poi è apparsa lei, suor Cristina. La religiosa gospel. E il velo, invece di squarciarsi, s’è infittito. Collocandosi idealmente sul capo di un pubblico che l’ha adottata, se n’è innamorato, è cascato mani e piedi in questa sorta di Sister Act alla pummarola. Anzi: visto che c’è di mezzo la Carrà, allo squacquerone.

In tv la fantasia è come un buon difensore nella retroguardia del Milan: latita. Ed è così che fior fior di autori* sono al lavoro per cavalcare l’onda, mutuare la genuflessione, cooptare la linea narrativa religiosa di The Voice. Del resto un Paese in cui la rivista “Il mio Papa” vende centinaia di migliaia di copie, Papa Francesco è trendtopic su Twitter e Matteo Renzi fa il premier non può, neanche volendo, non dirsi confessionale.

Quali i prossimi passi? Eccone alcuni, in anteprima.

Fra’ Stornato Verso la settima puntata di The Voice, J-Ax introdurrà un suo vecchio amico, caduto nella ganja da piccolo e poi uscitone dopo aver visto la luce. Anche senza erba. Fra’ Stornato propone un repertorio di reggae cattolico che coniuga i classici di Bob Marley in chiave caraibica e i classici di Tony Santagata in versione ska. I fan già lo chiamano lo Ska-Ppato di casa, e a lui piace.

X Factor Nella prossima edizione del talent di Sky, Morgan sarà sostituito da un personaggio che si veste in modo meno eccentrico: l’ex presidente della Cei Bagnasco. I cantanti dovranno soggiacere ad alcuni test sull’Antico Testamento e chi sbaglierà a intonare il Salve Regina sarà trasferito nel Purgatorio, un ambiente umido e ostile in cui un impianto stereo a tutto volume diffonde senza sosta brani dei Tiromancino. Abbassando leggermente l’illuminazione su Simona Ventura, i telespettatori da casa potranno anche vedere la Madonna.

Mastersing Cucina e canto in un unico, dinamico talent mandato in onda da Sat2000. In diretta dal convento di Camaldoli, introdotti da Francesca Fialdini, l’abbacinante ex conduttrice di A sua immagine che adesso manda in tilt gli spettatori di Uno Mattina, alcuni monaci prepareranno piatti tipici della tradizione di clausura: dal boccone del prete, allo strozzapreti, agli strangolapreti, cioè tutte pietanze che in realtà il riferimento cattolico ce l’hanno solo nel nome ma, se cucinati da religiosi, dovrebbero far breccia anche nel pubblico ateo. Tra i giudici, suor Paola, suor Germana, e un vescovo americano che vorrebbe farsi eleggere Papa col nome di Bastianich I.

Ti lascio una missione Un simpatico format a metà tra la nota gara canora per bambini e la recente missione in Africa di Al Bano e altri cantanti a beneficio della prima serata di Raiuno. In questo caso il taglio sarà più solidale: Al Bano stesso, introdotto da Fra’ Cionfoli, raggiungerà il Continente nero insieme a Povia, Minghi, i Cugini di Campagna, Antonello Venditti e i Pooh. Il lato umanitario riguarda l’Italia: appena depositati in loco, i tizi di cui sopra verranno abbandonati sulla pista senza spiegazioni. Seguirà un Te Deum di ringraziamento intonato da piccoli coristi.

* tutta invidia, la mia

Uscito su Sette

Sto invecchiando: l’omelia di Barbapapà di oggi mi sembra da mettere in cornice (una cornice grande)

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Eugenio Scalfari

da la Repubblica del 23 03 2014

SPERO che ai lettori non sembri una stranezza se comincio questa mia predica domenicale con il film di Veltroni su Enrico Berlinguer, proiettato giovedì scorso all’Auditorium di Roma. Ho conosciuto bene quel personaggio sul quale ho scritto un articolo domenica scorsa; poi ho visto il film ed ho letto i commenti che i giornalisti gli hanno dedicato, tra i quali quello bellissimo di Michele Serra sul nostro giornale. Perché dunque ci torno ancora?

Ci torno per chiarire un punto, per rispondere ad una domanda che molti si sono fatta e molti altri si faranno vedendo quel film nelle sale cinematografiche e alla televisione di Sky: Berlinguer e il partito da lui guidato erano comunisti come si chiamavano e credevano di essere, oppure no?

Certamente lo erano ma a loro modo che non somigliava a nessuno degli altri partiti comunisti al di là e al di qua della cortina di ferro che divideva in due non solo l’Europa ma il mondo intero. Il partito comunista italiano guidato da Berlinguer, e prima di lui da Longo e da Togliatti, era nato a Lione, liquidò Bordiga, che l’aveva fondato nel 1921, e si ispirò all’insegnamento di Gramsci. Tra le sue “sacre scritture” non c’erano soltanto Marx ed Engels ma Antonio Labriola, Giustino Fortunato e perfino Benedetto Croce.

Berlinguer accentuò queste caratteristiche e prese le distanze non solo dal partito-guida di Mosca ma anche dal pensiero di Lenin. Il discrimine riguardava una questione fondamentale: la democrazia, quella sostanziale ed anche quella formale, cioè le cosiddette “libertà borghesi”. La democrazia, secondo il pensiero di Berlinguer, doveva essere rispettata e difesa sempre, nessuno spazio alla “dittatura del proletariato” che Lenin patrocinava come prima fase rivoluzionaria. Una democrazia che prevedeva anche alleanze con forze politiche non comuniste purché anch’esse fossero sinceramente e pienamente democratiche.

Questo fu il partito di Berlinguer e se passò dal 25 per cento dei consensi elettorali ereditati da Togliatti al 34 raggiunto da Berlinguer nel 1977, questo accadde perché una parte dei ceti borghesi si avvicinò a quel partito. In realtà, almeno una parte del suo gruppo dirigente e perfino quella aristocrazia operaia che rappresentava la classe lavoratrice, fece propria la cultura liberal-socialista che aveva ispirato “Giustizia e libertà” e poi il partito d’azione e di cui il maestro coevo alla leadership berlingueriana fu Norberto Bobbio insieme a Galante Garrone, a Calogero, a Omodeo, a Salvatorelli, a La Malfa.

Questo è stato il lascito di Berlinguer. Come e perché questa eredità politica sia poi entrata in crisi è un altro discorso che riguarda la crisi della politica, di tutta la politica, del sistema dei partiti, dei loro rapporti con le istituzioni, quella che Berlinguer aveva già identificato definendola questione morale, occupazione delle istituzioni da parte dei partiti, oggi più che mai intensa e di assai difficile risanamento.

***

Questa crisi è il tema oggi dominante in Italia e in Europa. A me sembra che ci sia molta confusione nei pensieri di chi se ne occupa e se ne preoccupa. Ho letto su Repubblica di ieri un’intervista di Paolo Griseri a Marco Revelli sul suo nuovo libro intitolato “Post- sinistra” e mi ha stupito l’analisi che l’autore fa sostenendo che l’economia nella società globale ha ucciso la politica diventando una sorta di pilota automatico che porterà il mondo verso la catastrofe.

Mi sembra con tutto il rispetto per il pensiero di Revelli, che questa sia una semplificazione sostanzialmente sbagliata. L’economia moderna è una disciplina nata dal pensiero di Adam Smith e di Ricardo tre secoli fa, di fatto agli albori dell’illuminismo e assunse non a caso il nome di economia politica. Non esiste e non è pensabile un’economia senza politica o addirittura antipolitica come non esiste una politica priva di una sua economia. Lo stesso Carlo Marx questa verità la conosceva benissimo e la teorizzò quando scrisse “L’ideologia tedescae il 18 Brumaio”.

Marx riteneva che la rivoluzione proletaria dovesse essere preceduta dalla rivoluzione borghese per la quale manifestò addirittura simpatia e che considerava necessaria. Quella rivoluzione era ancora in corso negli anni Quaranta del diciannovesimo secolo. È evidente che la rivoluzione borghese aveva un enorme contenuto economico così come l’avrebbe avuto nel pensiero di Marx e di Engels la rivoluzione proletaria che ne sarebbe seguita.

La storia prese una strada diversa: la rivoluzione proletaria che secondo Marx sarebbe nata nei paesi europei economicamente più abbienti avvenne invece in Russia, cioè in un paese dove la borghesia non esisteva neppure. Di qui un suo percorso che Marx se fosse stato vivo avrebbe certamente sconfessato poiché non aveva le condizioni per attuare il comunismo annunciato nel manifesto del ’48.

Ecco perché ritengo che la post-sinistra descritta profeticamente da Revelli come un’economia che distrugge la politica a me sembra un nonsense.

Può essere e probabilmente è un’economia politica non accettabile, ma non distrugge la politica che non è distruttibile visto che è una categoria dello spirito e come tale appartiene alla nostra specie e vivrà con essa fino all’avvento del regno dei cieli (per chi ci crede).
***
Oggi abbiamo i populismi e l’antipolitica (che sono tutti e due forme di politica e di economia). Abbiamo un partito

che cerca di darsi una nuova forma con la guida di Matteo Renzi e avremo il 25 maggio le elezioni per il Parlamento europeo il quale a sua volta avrà il compito di eleggere il presidente della Commissione di Bruxelles, cosa che non era accaduta prima, quando quell’incarico era di competenza dei governi dei paesi membri della Ue.

Il Partito democratico si può a questo punto definire nei suoi quadri, nei suoi gruppi parlamentari e nei suoi militanti un partito renziano. Fino a qualche tempo fa si diceva che fosse l’unico partito italiano (e forse anche europeo) non personalizzato. Non aveva un Re. Adesso ce l’ha. Per simpatia per il personaggio, per la sua energia e voglia di fare, per il suo desiderio di avere successo e quindi di portare il suo partito al massimo della popolarità elettorale e infine per mancanza di alternative.

Ai tempi dei tempi Pietro Nenni, che fu un tribuno d’eccezione, diceva quando ci fu la scelta istituzionale nel giugno del 1946, «O la Repubblica o il caos». Adesso lo slogan che più corrisponde ai desideri (e alle paure) dei democratici è «O Renzi o il caos».

Questo slogan ovviamente presuppone che Renzi abbia il successo che desidera, ma è un successo che si gioca contemporaneamente su molti tavoli.

Anzitutto su quello della popolarità e Renzi ha scelto: i 10 miliardi (che nell’anno in corso saranno più o meno sette) andranno interamente nelle buste- paga dei lavoratori a partire da quelle del 27 maggio prossimo, due giorni dopo le elezioni europee che sono l’altro tavolo sul quale si giova il successo. Diminuzione dell’Irpef, due giorni dopo le elezioni: il rapporto è chiaro e perfetto.

Naturalmente alcuni settori della società non sono contenti. Non è contenta la Confindustria di Squinzi, non sono contente le imprese che saranno tassate sulle rendite dei titoli e su altri tipi di entrate mobiliari; non sono contente le piccole imprese del Nord-Est in crisi che vorrebbero sostegni e crediti bancari di favore e non è contenta la Cgil che teme un’eccessiva mobilità del lavoro precario. Infine non sono contenti i manager pubblici i cui compensi, secondo la spending review di Cottarelli dovrebbero avere un tetto che tagli il supero così come anche per le pensioni al di sopra di un limite abbastanza elevato.

Renzi questi scontenti li conosce e farà di tutto per placarli usando qualche attenzione concreta nei loro confronti, ma avrà bisogno di tempo.

In realtà avrà bisogno di tempo per tutta questa politica e dovrà prenderselo salvo che sul taglio dei 10 miliardi (sette) da mettere in busta paga per le tasche dei lavoratori fino a 25mila euro di reddito netto annuo. Questa copertura la deve assolutamente trovare.

Ma c’è un altro obiettivo che deve realizzare a corto respiro ed è la riforma elettorale. Questo è a costo zero dal punto di vista finanziario, ma un costo politico ce l’ha. Alla Camera è già passato, al Senato qualche problema ci sarà ma lui spera di risolverlo ed è probabile che ci riesca. Il che tuttavia non risolve il problema della riforma del Senato e quindi della legge elettorale che rimane zoppa a meno che Berlusconi decida di mettersi contro per ottenere lo scioglimento anticipato delle Camere.
Se questo avvenisse si voterebbe alla Camera con un sistema nettamente maggioritario e al Senato con uno nettamente proporzionale. Una manna per Forza Italia, per la Lega, per Grillo e insomma per quasi tutti ma non per Renzi. Tuttavia qui il manico ce l’ha in mano Berlusconi sempre che si superi l’ostacolo del Quirinale, il che sembra tutt’altro che facile. Napolitano non credo accetterebbe di sciogliere le Camere con due percorsi elettorali così diversi e quindi con maggioranze probabilmente contrapposte. Comunque un rischio c’è perché l’alternativa in questo caso potrebbe essere una
crisi di governo.
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Infine c’è il tavolo delle coperture da effettuare, dell’occupazione, del pagamento dei debiti verso le imprese e dell’Europa. Questo gruppo di questioni è strettamente interconnesso ed è qui che si gioca realmente la sorte del governo e del partito renziano.

Segnalo un punto non marginale per capir bene il personaggio Renzi. Fino a quando sembrava che il governo Letta sarebbe durato fino al 2015 e quindi sarebbe stato Letta a presiedere il semestre europeo di spettanza italiana, l’allora (e tuttora) segretario del Pd sosteneva che la presidenza europea semestrale non contava assolutamente niente. Letta diceva il contrario ma Matteo ci rideva sopra. Da quando però è arrivato a Palazzo Chigi Renzi ha immediatamente cambiato linguaggio sostenendo che quel semestre sarà fondamentale per l’Italia e per l’Europa (anche per il mondo?).

È fatto così, il Re del Pd: cambia linguaggio di continuo, secondo con chi parla; dà ragione a tutti, capisce tutti, incanta tutti (o ci prova). La sua vera natura è quella del seduttore. Da questo punto di vista somiglia molto, ma con metà degli anni, a Berlusconi.

Non entro nell’esame delle coperture, dell’accoglienza europea alle proposte renziane, ai tempi necessari per arrivare ad una svolta vera, che certo non è quella dei 10 miliardi (sette) dell’Irpef. Dico solo che sui tagli di Cottarelli bisogna stare attenti perché ci saranno anche effetti negativi sull’occupazione come conseguenza di alcuni dei tagli proposti.

Ma la considerazione con la quale concludo, molto personale, è la seguente: se è vero, ed è vero, che il seduttore Renzi è più bravo del seduttore Berlusconi, esiste l’ipotesi che l’eventuale successo di Renzi sui vari tavoli del gioco porti con sé dopo vent’anni di berlusconismo vent’anni di renzismo. Questa ipotesi la considero un incubo. Ma magari piacerà agli italiani che in certe cose sono molto strani.