DALLO STORY TELLING ALLO STORY YELLING: BREVE PIPPONE SUL NUOVO MIRACOLO RENZIANO

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Ieri sera ho avuto un breve scambio su Twitter con Francesca Puglisi, responsabile Pd della scuola.

Francesca è un’amica. E – lo scrissi per Scalfarotto – mai potrei dubitare della sua buonafede e del suo impegno politico.

All’origine di tutto, un post dell’ex deputato piddino Salvatore Vassallo (pure lui figura specchiata, oltreché molto competente) che faceva presente come la curva del consenso renziano fosse salita durante la luna di miele, stia scendendo ora che Renzi prende provvedimenti, tornerà a salire quando quei provvedimenti avranno effetto.

Ho commentato che da un anno e mezzo è proprio quello l’unico obiettivo di Renzi: il consenso.

Francesca mi ha risposto che se avessero cercato il consenso, non avrebbero fatto la riforma sulla scuola.

Ho allora argomentato che quella riforma, poi molto annacquata, è stata scritta contro una categoria invisa ai più – gli insegnanti – e che quindi anche quella legge parla a quelli di cui Renzi desidera il voto. Cioè, specifico, l’italiano medio che vede nello Stato un coacervo informe di privilegiati fannulloni da colpire.

La mia risposta ha avuto qualche commento a favore, purtroppo protogrillino. E nessun retweet. Il commento di Francesca è stato ampiamente ritwittato.

Questo piccolo dato empirico (il suo successo “social” ai miei danni) conferma, o almeno credo, la mia tesi: Renzi vince quando indica nemici. Gufi, rosiconi, la ditta, i giornalisti, i commentatori, i media stranieri. Perché questo compatta un consenso in gran parte livoroso contro categorie polverose e mal tollerate, del tutto sovrapponibile a quello che sosteneva Berlusconi.

O Craxi, che forse gli somiglia pure di più.

Oggi, all’Expo,  Renzi ha ribadito lo schema elencando tutti gli ostacoli sulla via del nuovo miracolo piddino: destra, populisti, sinistra radicale (che non esiste, e se c’è è dispersa in mille rivoli), disfattisti.

Lasciamo stare la citazione dei disfattisti, che attiene a stilemi da Prima Guerra Mondiale (e rende bene il coté culturale del Premier) ma analizziamo lo storytelling, che – per usare vecchi schemi – rappresenta ormai una sorta di arco costituzionale ad personam: è Renzi che legittima gli oppositori. Verdini sì, Civati no. Berlusconi sì, Salvini (forse) no. Grillo sì, ma Grillo anche no.

Tutto questo infilando il maniaco delle felpe tra i “cattivi”, al solo scopo di non dire – ancora oggi – una parola chiara su un Paese largamente razzista che prima sbraitava di voler dividere i profughi dai clandestini, e adesso brucia le case e le cose dei profughi.

Di quello non si parla. Farebbe, appunto, perdere consenso. Il consenso cui Renzi tiene maggiormente.

Riepilogando: il positivo Renzi, l’uomo che si era presentato con la margherite in mano, grondando ottimismo, basa ormai la propria poetica sull’individuazione dei nemici. Nemici personali, non politici, in modo da non coinvolgere coloro che li votano o li hanno votati. Li personifica, dà loro un nome, proprio per non urtare nessuno di quelli che, soprattutto da destra, ne amano il decisionismo e potrebbero votarlo. Tenta di compattare i fan contro qualcuno, sperando di arrivare a fine campionato, tra una promessa e l’altra, con lo scudetto. Sembra il prof Scoglio quando invitava la squadra a unirsi, anche contro di lui. Ma, meglio, contro gli altri.

Come spesso gli accade, ha una tattica per arrivare alla fine della stagione, o alla prossima promessa, ma non una strategia che vada al di là di un applauso in più da coltivare in vitro.

Ha uno storytelling, ma non ha la story. O se ce l’ha è la stessa di Berlusconi. Però lui la urla, in una sorta di story-yelling. Mentre le menti migliori del suo partito, o di quello che fu, si prestano con entusiasmo alla logica del “questo abbiamo, allora tenetevi Salvini”.

Salvini, o Grillo, che facilmente avremo al governo fra tre anni, quando l’elettorato di destra si compatterà contro quel resta dei “comunisti” e farà vincere, grazie alla disastrosa legge elettorale modulata sul Pd al 40 per cento, uno dei populisti che Renzi dice di voler combattere.

A meno che Renzi non riesca, in questo periodo, a dimostrare che anche nel campo del populismo di destra è molto migliore di loro.

Buona fortuna.

Un breve saluto romano

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furio camillo sit itLa vicenda è nota e tristissima: un bimbo muore a Roma nelle viscere della metro, ucciso da un cumulo di imperizie e dalla fatalità.

Alcuni giornali di destra descrivono Marino come il killer del piccolo.

Successivamente, l’ascensore viene impacchettato con parole di circostanza firmate da un lettering inconfondibile. Quel lettering è patrimonio di buona parte del mondo ultrà ma deriva direttamente dall’estrema destra. E’, ad esempio, quello storicamente utilizzato da Forza Nuova.

Faccio notare la cosa, su Twitter. Il vicedirettore de Il Giornale Nicola Porro, quello che voleva mandare i segugi contro la Marcegaglia, quello che voleva abolire il canone Rai ed è finito negli spot per invitare a pagarlo, perché in Rai adesso ci lavora, quello che mi ha querelato perché l’avevo un po’ sfotticchiato in radio, attiva la macchinina del fanghino e mi ritwitta additandomi.

In breve ricevo diversi messaggi di critica – nessun problema: si chiamano social – che vertono tutti sulla mia presunta ossessione, sul fatto che quel font lo usano per esempio anche gli ultrà del Livorno, eccetera. Nell’impossibilità di rispondere a tutti, utilizzo questo breve scritto per un’analisi sintetica e onnicomprensiva che dedico per primo a Porro: ma chi volete prendere per il culo?

No, dico: ma quella scritta l’hanno fatta forse gli ultras del Livorno?

Analogo problema mi era capitato quando feci notare l’utilizzo di quel font nella curva del Bologna. La mia. Ne guadagnai minacce e insulti. Però io sono così: me ne frego (cit.) e se capita, lo faccio notare. Perché quella cultura mi spaventa. E lo rivendico.

A ben guardare, però, il dato interessante è un altro: in Italia l’estrema destra, o il pastiche di paranoia ignorante e paracula nel quale si è da tempo trasformata, ha monopolizzato le curve, le periferie, in città come Roma può vantare una specie di egemonia trasversale in strati vastissimi della popolazione, “firma” in modo incidentale o voluto persino messaggi di solidarietà come quello di cui sopra, ma quando gli ricordi che sono fascisti s’incazzano ancora.

E, con loro, i vicedirettori col culo al caldissimo che, anche se non lo sanno, qualcosa in comune con Forza Nuova ce l’hanno: pure loro mi querelarono, pure loro se la pigliarono in saccoccia.

Ciao Nicolino. Fatti uno spritz alla mia salute. Te lo offro con la mia parte di canone.

Alla tua.

Anzi: a noi*.

*Sia chiaro che “A noi” non è affatto un implicito riferimento a una frase spesso usata durante il Ventennio fascista ma un generico invito a sorbire insieme una bevanda, peraltro spesso utilizzato anche nella curva del Livorno.

 

Visitate la Tunisia – Visitez la Tunisie – Visit Tunisia – Besuchen Sie Tunesien

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bambina-tunisinaNon sono mai stato in Tunisia.

Mi piacerebbe andarci ora.

Avere il piccolo coraggio necessario.

Mi piacerebbe – di più – che una campagna d’opinione internazionale riempisse la Tunisia di turisti.

Mi piacerebbe che insieme, con un gesto concreto, rispedissimo al mittente la strategia rozza ma chiarissima dell’Is: uccidiamo la normalità per imporre la dittatura fondamentalista.

Al momento, è molto probabile che ci riescano.

L’ovvia reazione delle ambasciate, dei Ministeri dell’Interno, dei tour operator, è stata quella di avvisarci (ora: bravi) che quel luogo del mondo è pericoloso. Dunque è giusto stare a casa.

Ma così facendo abbandoneremo il bambino che barcolla sulla via della democrazia compiuta. E lo lasceremo in balia di chi i bambini li fa esplodere, li disprezza, come le donne, cui nega l’identità, come gli uomini di buona volontà, di tolleranza, chiunque preferisca la luce dell’imprevisto alle tenebre della certezza teocratica.

Andiamo in vacanza in Tunisia.

Andiamoci adesso. Compiamo un gesto non violento eppure fortissimo per contrastare chi spara agli indifesi.

Andiamo in Tunisia.

Cerchiamo le tracce dei berberi, dei romani, degli arabi, dei fenici, prima che qualcuno arrivi a ripulirle. Andiamo a inseguirle su una spiaggia, nel parco nazionale di Ickeul, tra le rovine di Cartagine, dentro un piatto che somiglia ai nostri e neppure siamo perché.

Andiamo in Tunisia. Magari da non soli. Magari in modo visibile, in tanti.

Visitiamola.

Prima che la Tunisia sia costretta a fuggire di casa.

E visiti noi.

Di anni di piombo che non finiscono mai, trasmissioni tv e altre vicende piuttosto pesanti

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Anni fa mi capitò di lavorare ai prodromi di un programma che poi non feci: Hotel Patria, condotto da Mario Calabresi.

Partecipai non ricordo se a una o due riunioni preliminari, poi fui risucchiato da altre produzioni e ne rimasi fuori. Con dispiacere. Ne nacque una trasmissione aggraziata, di quelle che una volta si definivano di “servizio pubblico”. Forse perché non c’ero io.

In quelle due riunioni, Calabresi mi parve un raccontatore formidabile. L’entusiasmo con cui parlava delle sue scuole elementari, a Milano, e di come quei banchi fossero oggi occupati da giovani italiani provenienti dal tutto il mondo, e la volontà di spiegare in tv la normalità dell’immigrazione, la sua ineluttabilità, la sovrapponibilità con gli esodi dal sud Italia degli anni ’60, mi colpirono molto. Idem per la passione che mise descrivendo di un suo blitz alla Ferrero, ai primordi della professione, quando l’ormai defunto capostipite gli aveva disvelato storie inedite di ovetti e Nutella, a patto che non ne facesse parola all’esterno. Appena finito il giro – spiegava – corse fuori e scrisse tutto sul taccuino, ripromettendosi di usare il materiale solo a intervistato defunto. Per non tradire il patto. Per raccontarne la grandezza. Non l’ha poi fatto: forse il patto gli sembra ancora valido.

Non lavorai a quel programma, e mi dispiacque, perché avevo un’idea che mi è tornata in mente oggi, dopo la polemica sulla nomina (subito rientrata) di Adriano Sofri a consulente per la riforma carceraria. L’idea era quella di un atto simbolico tra persone intelligenti. Era un’idea naïf, apparentemente paracula, ma non era stata pensata per esserlo. Io avrei voluto che Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi, incontrasse davanti alle telecamere Luca Sofri, figlio di Adriano. Avrei voluto, gliel’avrei proposto, non feci in tempo, che due menti laiche e generose, unite loro malgrado da quella cappa insopportabile che ancora innerva la parodia della politica di questo Paese, si raccontassero a vicenda quel che era stato. Avrei voluto una cerimonia. Non so se conclusiva. Certamente, nelle intenzioni, catartica. Un rito di laicità.

Quei due cognomi, quelle due persone, erano gli unici titolati ad affrontare l’argomento. Così come oggi sono stati legittimi, quasi dovuti, il tweet del direttore de La Stampa contro la nomina di Adriano Sofri e il passo indietro che questi ha subito compiuto. Però, ecco, anche se quel programma non si farà più e nel frattempo io mi occuperò forse più utilmente di facezie mattutine, continuo a pensare che sarebbe bello e quasi necessario un passo avanti. Per lasciare sullo sfondo i vari sindacati di polizia fascistoidi e i nostalgici (e gli eredi) della violenza politica, che oggi ci hanno intasato le timeline.

E’ molto possibile che sia tutto ancora troppo fresco perché il mio desiderio abbia un senso, ed è praticamente certo che io non abbia alcun titolo per renderlo pubblico. Però ormai l’ho fatto. Qui siamo. Ma a volte, non so voi, io sento un importante bisogno di altrove.

 

Se il principale limite dell’Isis è che ci somiglia

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A volte non vorrei essermi fermato in prima elementare per dare un senso più profondo a certe ovvietà. Però poi le dico lo stesso.

Tipo che l’Isis è una protesi dei social.

Cioè, penso sia chiaro: il tizio col barbone la cui caricatura ha causato lo sterminio di Charlie Hebdo e i suoi scherani tagliagole, non vanno su Internet per fare proselitismo. Fanno proselitismo per andare su Internet.

E’ come se ci fosse una sura non scritta in cui il profeta ha scritto: va’ e fatti ritiwittare.

In questa società dell’immagine con la barba e il coltello lungo, c’è un edonismo della Fatwa del tutto evidente. Un compiacimento, una muscolarità estetica, una auto-iconografia che va oltre le tecniche di confezione dei video, i mezzi usati per divulgarli, le trattative per liberare gli ostaggi che sembrano una chat su messenger.

Tecniche di seduzione e di slealtà comprese.

Non a caso gli occidentali che si ricongiungono alla terra santa, qualunque essa sia, vengono spesso da carriere artistiche malriuscite. Meglio essere un rapper sfigato a Londra o uno Jihadi John di rilevanza globale?

L’ha capito perfettamente il reporter inglese John Cantle che sta giocando con la sua vita attraverso ciò che sa della comunicazione. La condivide coi suoi carcerieri e già che c’è ha messo su una bella docufiction che un giorno, è augurabile, potrà commentare da casa.

Ma l’autoreferenzialità di tutta questa storia è, a ben guardare, la nostra principale speranza.

E quando dico “nostra”, non dico di noi occidentali, non è una categoria, ma parlo di quelli che non credono a vergini disponibili ma neppure a santi con le mani bucate e a dei che vietano il lievito.

Se sai come rappresentare il tuo piano, ma il tuo piano non ti è ben chiaro perché pensi principalmente a metterlo in scena, generalmente rischi la catastrofe strategica e politica. Come dimostra efficacemente, tra l’altro, un partito confessionale italano che sta attualmente vivendo la sua parabola discendente.

Finché Jihadi John e tutti gli altri dedicheranno molte energie a fare il bianco della camera perché meglio si veda su Twitter il sangue rosso di un innocente, finché coopteranno il coté di una qualunque prima serata su Rete4, finché, insomma, ci somiglieranno, c’è ancora una qualche parcellare possibilità che la guerra liquida, dunque una guerra impossibile da contrastare, abortisca.

Forse.

Chissà.

Mentre ci rifletto, vado a prendere un altro po’ di Maalox pensando a quell’uomo mite e coraggioso che è stato Kenji Goto.