Perché l’addio alla politica di Renzi ha cambiato questo Paese

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Renzi, tour nel Mezzogiorno. Il film della giornata - Campania - ANSA.itDice: epperò hai l’ossessione di Renzi.

Non verissimo. Ne scrivo, ne parlo, lo cito al bar – quando è aperto – molto raramente. Però è vero: se gli attribuissi il peso che ha nelle urne dovrei evocarne le gesta molto più di rado. La Svp viaggia più o meno allo stesso livello di consenso e mica faccio battute sugli Schützen. Anche se… Sapete come fanno quattro Schützen a entrare in una Cinquecento? Non ci entrano: hanno un’Audi.

Dunque mi sono chiesto: perché periodicamente mi sovviene? Lascia stare gli hater che appena lo sfiori si attivano come richiamati da un misterioso (mica tanto) ordine di scuderia. Spesso faccio incazzare la gente ma non ho ansia da prestazione. Non scrivo per cercare insulti. Sarò strano: mi piace di più quando qualcuno è d’accordo con me.

Sarà mica, come dicono loro, che è antipatico? No. Tra l’altro sono antipatico pure io, dovrebbe piacermi. Le peripezie giudiziarie? Garantismo a parte, gliele rinfacciano solo La Verità e Travaglio. Dimmi con chi vai, eccetera.

Il punto allora potrebbe essere è che riciccia ovunque, e che col 2 per cento manovra mezzo Pd, il Governo, mo’ tresca pure con D’Alema, e, insomma, trovo la sua spregiudicatezza così poco familiare. Fuochino.

Credo di aver risolto l’arcano oggi, quando ho riciclato la battuta che faccio ogni anno il 4 dicembre: “X anni fa Renzi perdeva il referendum e lasciava la politica. Sarò impopolare ma ammetto che mi manca”. Un usato sicuro, che si basa su un dato incontestabile. Così incontestabile che la Bestiolina è rimasta silente. Un commentatore (vero) l’ha buttata su Bersani che l’aveva boicottato. Certo: infatti i prodromi di LeU e il loro tre per cento spostarono il 60 per cento dei voti. Un altro, invece, mi ha aperto gli occhi: “Meno male che non se n’è andato. Così si è schiantato subito”.

Ecco, credo nella debacle del renzismo il dato più faticoso sia la schedina vincente (la seconda) gettata nelle acque reflue. La dabbenaggine insistita. Lo scorpione che, attraversando il guado, punge sé stesso.

L’uomo trovò nelle urne il proprio Papeete elettorale. Come diceva Bauman, fece il passo più lungo della gamba. Capita. La politica è maratona. Ebbe l’intuzione giusta: mollare palazzo Chigi Poteva (doveva) rifugiarsi sul Monte Atos il tempo di essere dimenticato, e sarebbe stato richiamato a gran voce. Sotto lo Stellone, bisognerebbe scriverci “Aridatece il puzzone”. Voglio dire: abbiamo riabilitato Berlusconi che stava per mandarci in bancarotta…

Invece no. Invece volle andare al voto da leader, invece ci fece vivere il momento magico e terribile in cui Gentiloni al confronto sembrava un incrocio tra Obama, John Kennedy e Brad Pitt. Invece prese le “cose buone” e le ammantò di superbia, mentre tutti – tranne quelli che poi hanno fatto carriera nei due partiti che comanda – gli dicevano che no, che il passo indietro serviva a prendere la rincorsa, eccetera.

Oggi potrebbe sfidare Conte senza averne fatto nascere il Governo e alle prossime elezioni, invece che Salvini e la Meloni, probabilmente vincerebbe il centro-centro-centro-sinistra. Ma non andrà così. E anche questa sconfitta avrà il marchio della cupidigia dell’uomo che volle farsi imperatore quando era re.

Ecco perché, ogni tanto, ne tratto.

Perché poteva mancare. Invece è mancato.

Due o tre cose su Resistenza e fascismi

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Oggi ho avuto un momento di non trascurabile felicità, tenendo l’orazione civile sulla Resistenza nella piazza del Comune di Sasso Marconi. Questo è più o meno quello che ho detto. Grazie a chi mi ha ascoltato e mi ha chiesto di pubblicare il testo.

 

 

 

 

 

 

Ringrazio il sindaco, l’Anpi, le autorità per l’onore che mi concedono oggi.

Quando ho ricevuto la chiamata, ho subito chiesto chi avesse dato buca all’ultimo momento.

Era una battuta, ma neanche tanto.

Loro non mi hanno risposto.

Forse qualcuno aveva DAVVERO dato buca all’ultimo momento. E sono quasi sicuro che sarebbe stato meno emozionato di me nell’affrontare questi pochi minuti che vi ruberò, sperando che non mi chiediate di restituirveli.

È che come molti della mia generazione, e ancora di più delle generazioni che hanno fatto seguito alla mia, mi dimeno tra diversi mestieri. Scrivo, più o meno seriamente, per qualche giornale. Scrivo, più o meno seriamente, per la televisione. Scrivo, più o meno seriamente, in genere.

E la domanda che mi sono fatto, dovendo celebrare la festa della Liberazione in questo comune che è medaglia d’oro al merito civile, che fu distrutto dalla guerra, che fu svuotato dai bombardamenti, era proprio sul tono da usare, su come parlare: più o meno seriamente?

Permettetemi allora di cominciare con una battuta di spirito: il fascismo ha fatto anche cose buone.

Lo so, non è una battuta nuova. La dicono in tanti, ormai sempre di più. E ce ne sono tante altre divertentissime. Il Duce ci diede la tredicesima… falso. Il duce creò le pensioni… falso. Il duce sconfisse la mafia e la corruzione… falso. Matteotti fu ucciso anche perché aveva scovato i fascisti ladri.

Italiani brava gente… falso.

Io non so voi, ma se uno che porta la mia stessa bandiera commette qualcosa di atroce, non lo giustifico. Mi incazzo il doppio. Quindi che ci siano stati italiani che durante il fascismo hanno commesso atrocità in Libia, in Etiopia, in Grecia… che siano stati manovalanza per il macello nazista di ebrei, omosessuali, zingari, dissidenti, che abbiano torturato e ucciso a mio nome… mi fa vergognare il doppio. Perché hanno avevano un passaporto in tasca simile al mio.

Come i soldati italiani che in Jugoslavia hanno ammazzato 7000 persone. Inermi. Dopo ci sono state le foibe. Nelle quali sono finite a loro volta migliaia di persone. Inermi. Non è vero che i morti sono tutti uguali. I morti sono uguali quando sono innocenti. Per questo le vittime dei fascisti e dei partigiani titini vanno piante alla stessa maniera.

Magari nello stesso giorno. Oggi.

Anche se venivano da patrie diverse.

Perché… avete notato una cosa? I fascisti più io meno dichiarati si riempiono la bocca col concetto di patria. E per schernire gli altri, quelli che la propria bandiera la vorrebbero senza il sangue degli innocenti, parlano di anti-italianità. L’altro giorno la leader di un partito di estrema destra, quella che sui manifesti si fa sostituire da Scarlett Johannson, tanto sono ritoccate le foto, ha lanciato sui social network un sondaggio: “Chi è il più antitaliano?”.

Molti hanno risposto che era lei, col suo concetto distorto di nazione.

Ma provo a chiederglielo io. Chi è più antitaliano? Chi prese le armi per salvare il nostro onore e aiutare gli alleati, o chi fece morire 500.000 italiani in guerra? Chi accendeva le camere a gas della Risiera di San Sabba o i caduti italiani che a Cefalonia si immolarono per non lustrare le scarpe ai nazisti? I repubblichini che sono rimasti legati fino all’ultimo a uno sterminatore o i partigiani, e le partigiane, che hanno difeso l’onore della nostra gente combattendo il male assoluto?

Però forse hanno ragione loro. Non bisogna farsi corrodere dall’ideologia. Bisogna riconoscere i meriti del fascismo… anzi: voglio elencarli uno per uno. Fatto.

Che poi, come diceva credo Goethe, ma grazie al piffero, che hai costruito quattro strade, che hai bonificato due paludi, che i treni partivano in orario però poi magari finivano ad Auschwitz.

C’era una dittatura. Vent’anni di diritti civili sequestrati. I prigionieri politici. Le libertà di espressione violentate. Guerre insensate. Cinquecentomila morti nei vari conflitti, appunto. Italiani. Non so voi, ma io mi tengo i Frecciarossa in ritardo. Almeno posso dirlo senza finire al confino. Per ora.

Ecco, lo so. Non dovrei. Ho parlato di politica. Durante il fascismo c’era scritto persino nei bar: qui non si parla di politica.

Andrebbe scritto anche in qualche talkshow di prima serata, oggi. Magari facendo la prova del palloncino a chi partecipa.

Però tutto è politica. E poi, anche se non te ne occupi, prima o poi si occupa di te. Prima o poi arriva il momento in cui tocca schierarsi. In cui anche i buonisti, nel loro piccolo, s’incazzano.

Vi racconto la storia di un giovane autiere, faceva il birocciaio, da civile. Portava in giro i cavalli. Un giorno Mussolini decise che era l’ora delle decisioni irrevocabili e quel contadino si ritrovò a 17 anni in caserma. Era a Treviso. Quando era arrivato avevano chiesto chi sapesse guidare la macchina… quelli che avevano risposto di sì erano finiti a pulire i cessi. Lui, al volante. Il 25 luglio 1943, quando cadde il fascismo, rimase come tutti senza ordini. Scriveva alla fidanzata di allora che le milizie fasciste provavano a prendersi la caserma, ma loro li respingevano. La salutava così: viva il re, viva Badoglio, abbaso i fascisti. Abbaso, con una “s” sola. Aveva la terza elementare.

L’8 settembre arrivarono i tedeschi e gli diedero la possibilità di scegliere: Salò o la deportazione, a fare lo schiavo. Poche ore dopo era su un vagone piombato in direzione Kostryn, Prussia orientale. Oggi è in Polonia. Ho cercato la storia di quello stalag: ci morirono oltre diecimila prigionieri di guerra. Il campo fu liberato poco prima della caduta di Berlino dall’Armata Rossa. L’autiere riuscì a tornare in Italia nel settembre del 1945. Pesava 36 chili.

Era mio padre.

Io sono stato fortunato, perché, finché è campato, il manuale di storia ce l’avevo in casa. E sono quasi felice che non gli sia toccato in sorte di vedere questa specie di fascismo strisciante, da operetta, in cui rischiamo di vivere oggi. Perché badate bene: anche quello di allora era un fascismo da operetta, all’inizio. Ma ce l’avete presente Mussolini? Un comico. Le braccia a botticella. Lo sguardo che roteava. Malato di fi… passione sessuale. Un mitomane. Un clown. Finché non trovò la spalla coi baffetti e partì per il suo tour europeo.

E lì, la farsa diventò tragedia.

Chiedo scusa, sto dicendo banalità. Ovvietà. Ma le ovvietà siano ormai sono quasi rivoluzionarie. Noi siamo l’unico Paese al mondo in cui quelli che cantano nel coro dicono di essere fuori dal coro.

Il teppismo della maggioranza che si definisce minoranza. Il senso comune più becero scambiato per buonsenso.

L’ipocrisia che si fa violenza, verbale e non. Codarda. Sempre.

Tipo allo stadio. Dove, non a caso, abbonda gente che ha di sé una percezione eroica, antagonista, coraggiosa. Il coraggio che serve loro per fare gu gu a un giocatore nero che sta a centro metri. Vigliacchi. Come quelli che ieri a Milano, ultrà della Lazio, hanno esposto uno striscione inneggiante a Mussolini. Impuniti. Perché da qualche tempo in qua, in questo curioso Paese, se fischi il Ministro dell’Interno ti portano via e ti identificano. Se sfili col braccio teso il massimo che rischi è un battimani.

Dice: stai dicendo cose divisive. È una festa…

Ma certo che dico cose divisive, anche se i ragazzi che salirono in montagna 74 anni fa la divisa manco ce l’avevano.

Ma erano patrioti veri, mica come i fascistelli da Facebook di oggi. Perché volevano, semplicemente, la loro patria libera. A prescindere dalle convinzioni politiche. Piccoli eroi che oggi, i pochi che sono ancora tra noi, quasi devono giustificarsi. Eppure erano davvero un unico fronte. C’erano i partigiani bianchi, gli azionisti, la brigata ebraica, non solo i “nostri”, se capite cosa intendo.

Perché anche se è vero che non tutti i partigiani erano comunisti, ma tutti i comunisti erano partigiani, è anche vero che la presenza così forte della sinistra ha indotto troppi di noi in un errore: pensare che il contrario di fascismo fosse, appunto, comunismo.

Invece no. Invece il contrario di fascismo è democrazia.

E non è neanche populismo. Il populismo è l’anticamera della dittatura. Fa credere al popolo che un tizio li rappresenti. Invece li manipola. Un bacione dopo l’altro. Un vaffanculo dopo l’altro.

Quella tra partigiani e nazifascisti non fu ciò che oggi qualcuno cerca di spacciarci, una lotta tra pari. Tra posizioni ugualmente redimibili, negoziabili, presentabili.

Perché da qualche anno c’è un aspetto grottesco che accompagna questo giorno di festa. Ed è difficile non vederlo. Ci siamo abituati, ci hanno abituati, a considerarlo come una specie di derby.

L’altro giorno sentivo un giornale radio della Rai che parlava del 25 aprile come data controversa. Cosa c’è di controverso?

È facile, semplice, a prova di cretino.

Da un lato la resistenza, la democrazia. Dall’altro i nazifascisti, la dittatura.

Democrazia bene, dittatura male.

Poi, certo, ci saranno anche stati, anzi: ci sono stati, partigiani per male, vendette sanguinarie, violenze compiute contro inermi. E saranno esistiti fascisti dabbene, gente che qualche ebreo magari l’ha nascosto, perché lo conosceva, perché da vicino non solo nessuno è normale, ma nessuno è davvero il male, anche se te lo dice il duce.

Ci saranno stati repubblichini che credevano a una loro forma di coerenza.

Però: democrazia, resistenza, bene.

Fascisti, dittatura, male.

Come scriveva Italo Calvino: dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono.

Non era un derby.

Anche se oggi dirlo è impopolare. Anzi, come direbbero loro, fuori dal coro.

Nella via in cui abito, a Milano, c’è un negozio per il fascista moderno… Non scherzo: vendono scarpe, giubbotti, magliette… tutte riconducibili a quello che voleva Dio, Patria e Famiglia ed era ateo, fu preso mentre scappava in Svizzera, e di famiglie ne aveva almeno un paio.

Hanno usato come ragazzo immagine, come testimonial, come modello grandi forme, proprio il ministro dell’Interno, che poi all’Interno non c’è mai, farebbero meglio a chiamarlo ministro dell’esterno.

Lui, che usa le frasi di Mussolini per vedere l’effetto che fa. E ne produce due, di effetti: i suoi camerati lo riconoscono, noi ci abituiamo a considerarla una simpatica provocazione. Finché rimane tale. Perché quando ci si abitua alle parole della discriminazione, quando si dà che per scontato che ci sia qualcuno che ha meno diritti, sia per il colore della sua pelle, per la sua religione, per il suo genere, per i suoi orientamenti sessuali, si cambia nel profondo e tutti insieme.

E poi c’è il luna park di Predappio, coi calendari del duce, e l’ironia involontaria chi li compra poi li appende.

E c’è la leader di un partito dell’estrema destra, che fino a questa piccola Weimar senza manco lo strudel, sembrava persino una persona gradevole. La stessa di prima, quella che è entrata nel tunnel del photoshop. Ora ha bisogno di like, di consensi spiccioli, di sfidare il ministro dell’esterno a chi estroflette meglio la mascella. E candida uno che si chiama Mussolini, e si fa fotografare all’Eur sotto il colosseo quadrato, a Roma.

Come se fosse normale.

Ora pensate al nipote di Hitler che si candida in Germania facendosi fotografare davanti allo stadio olimpico di Berlino.

Non è normale. E non succede. Perché loro, i conti con la loro storia li hanno fatti. A differenza nostra.

Ma non è solo una questione di simboli, di esteriorità. C’è un bel libro di William Sheridan Allen che racconta come si possa scivolare nell’autoritarismo senza accorgersene, basta che ci venga indicato un nemico chiaro. Si intitola “Come si diventa nazisti”.  E qui voglio citare la senatrice a vita Liliana Segre, numero 75190 ad Auschwitz: “Mio papà mi spiegò che ero stata espulsa da scuola facendomi sentire per la prima volta “l’altra”, la diversa… La maestra venne a casa e invece di abbracciarmi disse: “Non le ho fatte mica io le leggi razziali”. Quell’indifferenza fu peggio di uno schiaffo. La parola “indifferenza” è peggio della violenza».

Quindi non possiamo essere indifferenti a quello che accade in Italia qui e ora. A quelli che dicono “voi vedete fascisti ovunque”.

Voi vedete fascisti ovunque: li ho visti a Milano inneggiare a Mussolini, li ho visti irrompere nelle sedi di associazioni che aiutano i migranti, li ho visti sparare addosso ai neri come a Macerata, li ho visti bruciare la statua della partigiana di Vighignolo, li ho visti ieri a Bologna a spaccare una lapide che ricordava la liberazione, li vedo a raccogliere i fondi solo per gli italiani, a occupare le case e le sedi a Roma come Casa Pound, li vedo quando picchiano gli omosessuali, li vedo fare i concerti con la loro musica di merda, quando aggrediscono quelli che chiamano zecche rosse, li vedo allo stadio, li vedo sui giornalacci che spargono odio, livore, vittimismo passivo aggressivo.

Li vedo approffitarsi della stessa democrazia che è nata contro di loro. Perché è facile fare i fasci in democrazia, è eroico essere democratici durante il fascismo.

Ma non mi rassegno. E non per una questione di memoria. Che la memoria ce l’abbiamo ancora, è la consapevolezza che ci manca. La consapevolezza che quelli fuori dal coro siamo diventati noi. Che ci facciamo mettere all’angolo da quelli che parlano di retorica della resistenza. Ma quale retorica? I conformisti sono loro. I conformisti dell’anticonformismo. Che lasciamo parlare perché ci sentiamo anacronistici, passati, vecchi.

Ma cosa c’è di più vecchio di un vecchio fascista?

Proviamo a guardarci da fuori.

In tutto il mondo Bella Ciao è un canto intonato da chi cerca la libertà. Lo cantavano in Francia dopo la strage del Bataclan, lo cantavano i turchi oppressi da Erdogan, la cantano in Spagna, in Grecia, la intonavano durante la primavera araba… l’hanno cantata i dissidenti cinesi. È un canto di libertà che solo in Italia e diventato sinonimo di una fazione. Pochi giorni fa la suonavano in una scuola materna, qua vicino, non a Salò, e le maestre hanno dovuto scusarsi perché il solito papà che non si occupa di politica ha chiesto lumi. Ha protestato. E loro si sono scusate: “Ma no, la musica era quella. Ma cantavano La nonna è vecchierella!”.

La nonna è vecchierella?

Ma perché dobbiamo vergognarci dell’unico mito fondante di questo Paese dopo il risorgimento? Perché noi che ne siamo i custodi non la difendiamo ogni giorno soprattutto ora che è in discussione.

È come l’Europa. All’inizio abbiamo capito quanto ci servisse… ci ricordavamo ancora di quando Alcide De Gasperi andava all’Onu, nel ’46, col cappello in mano sapendo, come disse, che tutto era contro di lui tranne la cortesia di chi lo ascoltava.

Per colpa dei fascisti.

Eravamo i paria del mondo. L’Europa ci ha accolti. Protetti. Ridato dignità. E adesso è diventata il nemico solo perché, con tutti i difetti, ci ricorda che se fai parte di un condominio devi cercare di tenere pulito per la tua parte.

Dalle mafie, per esempio.

Devi pagare le quote. È normale. Anzi: essere in regola è un onore. Sono i poveri che hanno sempre odiato avere debiti. Me lo insegno mio padre.

Diamo per scontati 74 anni di pace, dacché gli europei hanno smesso di spararsi addosso. Basterebbe solo questo, per voler bene all’Europa.

Ho quasi concluso. Tra poco tornerete nelle vostre case… date una carezza ai bambini… scherzo.

Però i bambini sono la nostra memoria. La nostra consapevolezza. La nostra speranza. Loro, o gli adolescenti, che consideriamo a volte sdraiati, spesso hanno la schiena più dritta della nostra, si informano senza abbeverarsi al conformismo ai giornali e ai telegiornali iniettano odio nel Paese per qualche copia in più. E se conosci, se ti informi, se sai cosa è successo, se i migranti ce li hai ogni giorno in classe e sai bene che sono persone e non nemici, compagni e non bersagli, che sono come te ma per avere una vita degna hanno dovuto prendere una rincorsa più lunga, saprai anche che la Resistenza non è una parola vuota.

Noi oggi celebriamo qualcosa che continua. Una piccola battaglia di civiltà quotidiana contro tutti i fascismi, anche quelli più subdoli, che cambiano nome ma alla fine una cosa sola vogliono: la sottomissione dei più fragili e dei più deboli.

Di un popolo che in realtà disprezzano profondamente.

Grazie alle donne e agli uomini che hanno dato la loro vita perché oggi potessimo essere qui.

Perché i diritti ci mancano solo quando li abbiamo persi.

Viva la Liberazione, viva la Resistenza, viva il 25 aprile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I pericoli del neofaccismo: una storia vera

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Nota: come quasi sempre, quando ricevo un attacco da un “collega”, rispondo – se devo – sul mio blog e non sul giornale cui collaboro, perché far pagare una cifra anche piccola per cose che riguardano il mio ombelico mi pare francamente eccessivo.

Ieri sera mi trovo nella timeline di twitter un commento di Filippo Facci, tra le altre cose editorialista di Libero, che minaccia di menarmi.

La cosa un filo mi perplime. Nel muggire indistinto dei commentatori “fuori dal coro”, la sua mi è sempre sembrata quantomeno una voce dissonante. Mi è capitato di essere d’accordo. Specie sul garantismo giudiziario. Avrà sbagliato persona, penso. Quindi abbozzo una risposta simpatica e vado a dormire.

Stamane, recuperando Libero di ieri – non l’avevo letto: era giorno di pilates – comincio a mettere in fila le cose. Il quotidiano di Littorio Feltri ospitava una lunga articolessa faccista sul tweet di Maurizio Crosetti che tanto scalpore ha generato giorni fa, quello in cui si invitava a una nuova resistenza contro i fascisti ritornanti evocando se necessario anche piazzale Loreto. In particolare,


il pacato Filippo se la prendeva con me per aver sottolineato il riflesso pavloviano dei grillini che, pur non essendo stati chiamati in causa, attaccavano Crosetti.

Poi dev’essere successo questo: Facci è andato sul mio account twitter e ha trovato un post di un anno fa, sui leoni da tastiera che mostrano l’orbace sui social ma si indignano se ricordi loro come andò a finire. Un post articolato, in italiano corrente, di cui vado talmente fiero che l’ho messo come tweet fissato. Quello che si legge per primo, planando sulla mia pagina. Così il mio aspirante aggressore deve averlo scambiato per un commento al suo pezzo, e – l’ora tarda della sera deve aver fatto il resto – ha ventilato l’ipotesi di passare a vie di fatto.

Morale: proprio come nel caso del retweet grillino contro Crosetti, il riflesso condizionato di Facci l’ha portato ad assumere un atteggiamento potenzialmente squadrista contro uno che non parlava di lui. Cioè: per dimostrare di non essere un fascio da tastiera, benché collabori con un giornale che ospita il Duce come quotidiana guest star, si è atteggiato come tale.

Mentre è del tutto evidente che non lo è. È solo uno che non capisce quello che legge e, avendo un ego che attualmente confina con il Canada, pensa di essere al centro dei pensieri di chiunque.

Invece sticazzi, Filippo.

Ciao.

Attaccarsi al Caf: breve analisi su chi disprezza realmente il popolo

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E così chi celia sulle (presunte) file ai Caf per chiedere il reddito di cittadinanza ce l’ha coi poveri.

Disprezza, egli, il popolo che non vota “come si deve”.

Non solo: c’è un complotto contro gli honesti e consiste nell’aver fatto circolare sui social un modulo per la richiesta che comprendeva, tra le condizioni, quella di credere a Babbo Natale.

È il sistema che reagisce al tripudio pentastellato e…

Vabbé, basta cazzate.

Cioè: basta – dico per quel che resta a sinistra – farsi imporre l’agenda morale da questi tizi. Gente che ha ciurlato nel manico per anni sulla cuccagna per tutti e ora grida alle fake news altrui se qualcuno pensa di poter passare da subito alla cassa: “Era tutto sul sito. Mistificate”.

Va da sé (mi auguro) che nessun pentastellato un minimo aduso al (fu) blog di Peppe possa aver bevuto la colossale panzana, spacciata per vie traverse, dello stipendio per tutti.

Ma gli altri… Perché le parole sono importanti: se tu dici “reddito di cittadinanza” significa che basta essere cittadini per richiederlo. Dunque, al netto dei rudimenti istituzionali per cui bisognerebbe quantomeno attendere la formazione di un governo, c’è un botto di persone del tutto legittimata a reclamare quanto pattuito.

Chi li disprezza? Chi dopo il voto va a “Porta a porta” per spiegare che prima bisogna riformare i centri per l’impiego, che comunque non c’è la maggioranza, i cronisti che – ora – la descrivono apertamente come una riforma impossibile?

O chi pretenderebbe un corso per “votare informati” prima di accedere all’urna?

Siamo reduci dalla peggior campagna elettorale della storia, in cui anche la stampa ha abdicato al proprio ruolo: fare domande, pretendere confronti. E a questo si è arrivati anche e soprattutto attraverso la mistificazione grillina per cui i giornalisti fanno tutti schifo, sono tutti al soldo di qualcuno, sostengono sempre interessi occulti.

Solo che quando gridi alle fake news da oppositore, al massimo (è successo) modifichi la percezione della gente a tuo beneficio. Se per caso andassi al Governo, diventi tale e quale a Erdogan.

I progressisti in questo Paese sono bocconi, e grandemente per loro colpe. Ad esempio quella di aver usato linguaggi e prebende (il populismo “buono”, la politica economica a colpi di 80 euro) che gli altri padroneggiano molto meglio di loro.

Ma se a Ferrara la Lega passa dal 2,4 per cento al 24, la colpa non è solo di chi ha fatto di tutto per perdere quei voti. Perché Ferrara è Oslo, ma con più biciclette. La rabbia sociale per quattro migranti è del tutto ingiustificata. Eppure esiste. Pompata attraverso un meccanismo oliato e trasversale (grillini, Lega: la loro base infatti è per larghi strati sovrapponibile) che distilla rancore per cavarne i voti che ha puntualmente ottenuto.

Trattando una bella fetta di elettori da deficienti.

Altro che battute del Caf.

Come Matteo Renzi avrebbe dovuto commentare Rimborsopoli se avesse imparato qualcosa dalla Dc

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di Matteo Renzi*

 

Il cosiddetto caso “rimborsopoli” che sta investendo il MoVimento Cinque Stelle va affrontato con la lucidità che quasi mai Grillo e i suoi collaboratori hanno dimostrato nei nostri confronti.

Vedere Di Maio che parla di “mele marce” ricorda, è vero, il Craxi che definì Mario Chiesa un mariuolo. Ma comprendo perfettamente lo sgomento del capo pentastellato nello scoprire che persino tra i suoi esistono, al netto di un corpo che immagino sano, torsioni e storture tipiche di un partito quando arriva a contare milioni di sostenitori e centinaia di deputati.

Penso sia sincero.

Per questo non ci uniremo al linciaggio di chi gongola vedendo gli “onesti” in difficoltà. Il MoVimento Cinque Stelle ci è avversario in tutto, ma ben conosciamo i danni che la cultura del sospetto ha fatto alla politica di questo Paese. Che deve essere trasparente, non solo sembrarla, senza cadere nel populismo.

Quando Alessandro Di Battista dice “non è vero che sono tutti uguali” ha perfettamente ragione. È ciò che noi del Pd, che il senso dello Stato lo abbiamo nelle radici, diciamo da sempre. Per questo chi si proclama più uguale degli altri sbaglia, per questo “rimborsopoli” è verosimilmente una prova di maturità che la democrazia impone a chi sa accettarne le regole.

Per inciso, è la stessa “restituzione” l’errore fondante: intanto perché versarla alle piccole e medie imprese configura una sorta di “clientelismo buono”. Poi perché lo stipendio di un deputato, eliminando le storture che il nostro Matteo Richetti ha provato ad affrontare purtroppo con relativo successo, è una garanzia di indipendenza rispetto alla corruzione e alle pressioni delle lobby. Fermo restando che se un politico ruba, deve essere perseguito per primo.

Concludendo, auguro ai Cinque Stelle che la corsa elettorale non sia toccata da questa storia, e a me stesso di ritrovarmi nel dopo-voto (che si annuncia non facile) ad avversarci duramente ma lealmente con una sola stella polare: il bene degli italiani.

Tutti.

*Testo raccolto da Luca Bottura della “Amintore Fanfani School of Political Speeches” di Borgo Panigale