Un modesto suggerimento di marketing per l’ex presidente del consiglio, Matteo Renzi

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Richiesto di tradurre questo tweet di Matteo Renzi, il più potente calcolatore del Mit di Boston è esploso.

Analoga reazione per le mie sinapsi, tanto che mi ero limitato a ritwittarlo con il commento “Eh?”, cui avevano fatto eco alcuni miei follower citando, ça va sans dire, il conte Mascetti. Come se fosse antani.

Poi però ho pensato di diventare il Ris di Parma di me stesso. Di cercare un senso a questa storia, anche se pareva non l’avesse. Ho tentato un’analisi del testo. E mi sono spaventato.

Dunque, partiamo dall’inizio: “Quello di Macerata è un atto di razzista”. E fin qui ci siamo. Virgola. “Ma non sono i pistoleri che possono portare giustizia”. “Ma” è un avversativo. Cosa ci faccia lì non è dato sapere. Siccome disgiunge, pare introdurre un argomento nuovo che non ha a che fare col postulato precedente. Prendiamo dunque la frase di per se stessa e inseriamola nel contesto. Una traduzione sommaria sembra essere: “Ok, erano neri. Ma per questo ci sono le forze dell’ordine”. Cosa scritta in modo più intellegibile anche da Maurizio Gasparri. Solo che detto da Gasparri è una sorpresa positiva, dal segretario del Pd forse no.

Ma attenzione, ché arriva il capolavoro: “L’assunzione per ogni anno di 10mila tra carabinieri e poliziotti è la risposta: buonsenso e non tagli alle forze dell’ordine”. Cioè: un esaltato fascista spara a persone innocenti, per vendicare una povera ragazza che ancora non sappiamo se sia stata uccisa, e la risposta è più polizia per aumentare la sicurezza sociale percepita. Da quelli che votano.

Ora: per fortuna di Renzi, non ne sono lo spin doctor. Se lo fossi, attenendo a un’area politica che un tempo fu parente della mia, gli consiglierei di guardarsi indietro. Vinceva quando dettava l’agenda. Non quando se la faceva dettare da Libero.

In una campagna elettorale in cui l’offerta sul mercato è tutto sommato equivalente (Salvini punta al ventre molle, Berlusconi come sempre appena più in basso), tutti sembrano impegnati in un tragico dibattito di quelli  “moderati” da Maurizio Belpietro. È un po’ come combattere la cocaina con la Redbull: i tossicodipendenti vogliono la dose forte.

Non penso che Renzi sia realmente vicino a questa brodaglia autoritaria in cui ci stiamo lentamente calando. Più facilmente non sa come recuperare consenso. Per questo dovrebbe sapere che il suo target chiede una merce che in campagna elettorale vale più del tartufo d’Alba: la verità.

Chi, oggi, con una base culturalmente coesa alle spalle, uscisse dal coro e dicesse che l’invasione non c’è, che se giustifichiamo i pistoleri come quello di Macerata conteremo i morti per terra, italiani e stranieri, che senza la badante di vostro nonno, gli operai delle fabbriche in cui sono fatte le vostre piastrelle, i medici extracomunitari che si accasano alle Asl con stipendi da fame, saremmo un Paese nella merda, otterrebbe un botto di voti.

E aiuterebbe questo sfortunata repubblichetta di Weimar.

Forse è tardi, ma fossi in lui proverei.

 

Vedi Napoli e poi ti girano a elicottero

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Devo dire – e sticazzi – che se il Napoli vincesse lo scudetto mi farebbe piacere. Non in funzione anti-Juve (io non sono anti-Juve, non sono anti-niente, in genere mi girano i coglioni quando i grandi fanno i prepotenti coi piccoli) ma perché qualche barlume di novità renderebbe il piattume prevedibile della Serie A un argomento leggermente più interessante. In generale, i napoletani generano in me sentimenti contrastanti. Come una città estrema non può non cagionare. In parte li adoro, ne vado pazzo, ricordo ancora quel signore che inseguì la mia compagna per restituirle il portafoglio: “Signuri’ non ve lo dovete perdere il portafoglio a Napoli”. Altre volte bestemmio per come un posto così meraviglioso, una capitale, viene maltrattata anche da alcuni di quelli che ci abitano. Un po’ come l’Italia intera. E faccio mia la pugnacità dei napoletani perbene, ovviamente la clamorosa maggioranza, che sono capaci di raffinatezze dell’animo e dell’intelletto che altrove credo non esistano. Lo dico perché oggi, durante quella specie di live-tweet che ho fatto sulle sciocchezze a raffica dell’arbitro del match col Bologna, qualcuno ha tirato fuori mandolino, pizza e altre cazzate. Ecco: lascerei stare ‘sto vittimismo luogocomunista. Ma vorrei approfittarne, amici partenopei, per spiegarvi una cosa che mi è capitato di far rilevare anche agli juventini (e in generale ai tifosi delle grandi): se il Napoli, con la squadra che ha, gioca col Bologna, ne vince 19 su 20. Ecco, ieri poteva essere la ventesima. Perché abbiamo disputato, da inferiori, una grande partita. Abbiamo tirato in porta pericolosamente 7 volte (contro 4) e siamo finiti cornuti e mazziati. Segnalo in primis due dati inequivocabili: il rigore di Koulibaly che stoppa a braccio largo un pallone che sta andando in porta. Niente. Il rigore inesistente di Callejon (il contatto comincia fuori, e comunque quella dopo è una plateale simulazione). Ma se devo scegliere due episodi che raccontano quel che è successo, forse sono persino più indicativi il mancato giallo a Koulibaly che a momenti azzoppa Palacio, dietro al quale correva a lingua penzoloni, a centrocampo. E soprattutto la punizione di Mertens dal limite all’inizio del secondo tempo, ottenuta nonostante il più vicino del Bologna fosse a un metro. Roba per cui persino Gentile di Sky (che è ossequiente con tutte le grandi, non solo con la Juve: sveglia) prevedeva un’ammonizione in fase di cronaca diretta. Ora mettetevi nei miei panni (stareste larghi) e di chiunque con le squadre più forti sa bene a cosa va incontro, ma poi manco può giocarsela. E ora che siete vestiti di rossoblù, pensate a quanto ti ruotano le balle quando nelle sintesi il “mani” napoletano manco lo montano. E comunque in telecronaca era già stato derubricato a nulla cosmico. Se per caso fossimo andati 2-1… se per caso aveste continuato a fare la fatica boia che stavate affrontando per tirare in porta, se mia nonna avesse le ruote… Voglio dire: ma certo che poi Mertens fa la terza pera. Ce l’ha il Napoli, mica il Bologna. Forse non c’è un ruolo singolo in cui il Napoli sia inferiore a noi. Però manco giocarsela è fastidioso. E fare la morale a chi elegge Mazzoleni uomo partita Sky, come il sottoscritto, per cercare di esorcizzare i maroni a elicottero, rischia di essere non dico poco elegante, ma poco sintonico da parte di chi a remare in direzione ostinata e contraria è abituato. E anche piuttosto orgogliosamente. Sennò, come mi pare dicessero a Innsbruck, diventa un “chiagni e fotti”. Cé verimm’.

Che cos’è diventato il Pd: una riflessione inutile e noiosa

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Cos’è il Pd?

Anzi: cos’è diventato?

È una domanda che mi sono fatto stamattina dopo aver appreso che vogliono togliere il canone Rai perché è inviso agli italiani.

Il che, proposto dal politico attualmente più inviso agli italiani, tocca livelli di surrealtà quasi inimmaginabili.

Ma non è una risposta alla mia questione.

Cos’è il Pd e perché c’è ancora un venti per cento di italiani che lo voterebbe?

È il partito che difende le classi meno abbienti? No. Il jobs-act è un regalo agli imprenditori che ne hanno approfittato per mettersi qualche spiccio in saccoccia. Ma abbiamo lo stesso la ripresa economica del Burkina Faso. E generazioni intere che non sanno cos’è un vero contratto a tempo indeterminato.

È il partito dei diritti? Forse. Ma le unioni civili (un discreto compromesso dovuto all’imbarcata di bigotti che sostengono il governo) sono un parto di Monica Cirinnà, sposato da Renzi per convenienza, lo stesso Renzi che la Cirinnà politicamente detesta.

È il partito della compassione? Possibile. Ma il fine-vita approvato di corsa è una battaglia trasversale, figlia degli stessi radicali che per correre alle elezioni, mentre il Pd traccheggiava, hanno dovuto ricorrere a Tabacci (!). E porta la firma di quasi tutti i partiti. Persino i grillini.

È il partito della legalità? Ha fatto più condoni per il nero estero su estero di chiunque altro, ha chiuso Equitalia invece di riformarla, ha cacciato la direttrice dell’Agenzia delle Entrate perché non aveva fatto abbastanza interviste (e ne aveva fatte diverse) per ribadire che lo Stato è brutto e cattivo ma qualche soldo di evasione bisognerà pur recuperarlo.

È il partito della tolleranza? I tizi che muoiono nei lager libici direbbero che no, non lo è. E se ci sono sindaci piddini che schedano gli extracomunitari, altri che bloccano le residenze dei rifugiati, altri ancora che sfilano insieme a Forza Nuova contro l’invasione, non si vede perché i razzisti di tutta Italia non dovrebbero votare l’originale.

È il partito dell’Europa? No. Renzi ci ha spiegato in lungo e in largo che dobbiamo battere i pugni sul tavolo (quelli che non sappiamo battere sulle quote migranti) per sforare il deficit e farci dare altro denaro oltre a quello che già non sappiamo spendere per i progetti finanziati da Bruxelles.

È alternativo a Forza Italia? Su molti temi, in primis il mantra sulle tasse, è sovrapponibile.

È alternativo alla Lega? Vedasi il capitolo sulla tolleranza.

È alternativo ai Cinque Stelle? Insegue gli stessi voti, e a livello di comunicazione spesso lo fa con i medesimi toni urlati, additando ogni forma di critica come un Rocco Casalino qualunque.

L’altro giorno ho incrociato in treno una deputata renziana. La conosco da anni. È una persona perbene, competente, sincera. Mi ha detto che bisogna far fronte perché sennò arrivano i fascisti. Il che (l’arrivo dei fascisti, o come vogliamo chiamarli) mi sembra plausibile, anche se confido molto in Mattarella.

Non ho avuto cuore di chiederle perché bisognerebbe votare proprio il Pd. Né se si sia resa conto, tra un tweet e l’altro sui gufi e rosiconi, tra un annuncio mirabolante e una finta autocritica, tra un salto della quaglia arrivista e la rivendicazione di risultati mai ottenuti, tra una mossa tattica e l’altra per lucrare il voto di chiunque, che hanno deciso di non chiederlo più a me.

Ce ne faremo, credo, entrambi una ragione.

Ma credo che i primi a non sapere dove accidenti sono capitati siano proprio loro.

 

Con grande rispetto, su antifascismo e fascismo dovremmo prenderci un po’ meno per il culo

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(ANSA – STEFANI) Eugenio Maria Luppi, alla sua estrema destra nella foto

Avete mai letto la scritta Wids in autostrada? Un tempo sì, ora meno. Era il corrispettivo appena meno diffuso di “Dio c’è”.

Magari non sapete cosa significa, Wids. È l’acronimo di Viva Il Duce Sempre e campeggia tra l’altro sulle felpe che si smerciano negli spacci nostalgici di Predappio, dove il sindaco Pd ha appena lanciato una Mussolandia che presto attrarrà il pellegrinaggio di altri camerati.

Perché Wids lo leggete meno, tra un Camogli e l’altro?

Perché attiene a un’era geologica precedente, quando ancora il neofascismo non era così cool, così sdoganato, e andava in qualche modo mediato. Un barlume di vergogna (e di eccitazione carbonara) permaneva ancora. È lo stesso ritardo storico del carabiniere di Firenze, quello che si è appeso in cameretta, accanto al poster di Salvini, la bandiera del Secondo Reich, simbolo neonazista di risulta massimamente utilizzato in Germania per aggirare le prescrizioni contro i rigurgiti hitleriani.

Una sospensione temporale che sembra aver colpito anche la presidente del Borgo Panigale Calcio, Barbara Antinori, che ha preso cappello contro chi critica l’ingaggio di un tizio, Enrico Maria Luppi, che poche settimane fa, per festeggiare un gol, è andato a fare il saluto romano a Marzabotto, ha indossato la bandiera della Repubblica di Salò, e ha sfregiato in un attimo la memoria dei 1800 morti di Monte Sole.

Ai genitori dei bambini che non volevano tale, maldestro, esempio accanto ai loro figli, Antinori ha risposto stizzita che sa come educare i giovani, e che chi non è d’accordo può prendere la porta. Di fronte al presidio antifascista durante la partita di domenica scorsa, ha fatto spallucce e ribadito che trattasi solo di rinforzo tecnico (da due categorie inferiori? Ma dai). E nulla ha commentato davanti alla presenza di una rappresentanza di Forza Nuova, che sembrava fosse lì a rivendicare l’intera vicenda: “Che c’è di male a dirsi fascisti?”.

Già, che c’è di male? Che c’è di male a portare quei lugubri colori a pochi passi dal luogo dell’eccidio di Casteldebole? Nel percepito diffuso, ormai poco o niente. Siamo un Paese che non ha fatto i conti con le proprie colpe e ancora si balocca nella narrazione degli italiani brava gente. Ipocriti che hanno concesso alle curve di diventare il luogo magico in cui il cupore intellettuale e il proselitismo autoritario si sposano e poi donano le fedi alla patria.

E allora coraggio, presidente, ci dica la verità. Che l’ingaggio di Luppi è un gesto consapevole, da rivendicare, figlio di un clima in cui certo pedigree non è un inciampo ma un pregio. E se non è così, ci racconti cosa le è saltato in testa di urtare in questo modo una comunità che ancora si fonda su certi valori. Quelli a cui si ispirava anche Loris Ropa, storico presidente del Quartiere in cui lei curiosamente esercita, scomparso proprio ieri.

Un uomo perbene, un grande amministratore, un antifascista vero. Se non vuol darla al povero scrivano, la riservi a lui, una risposta.

Possibilmente degna.

Che cos’era la sinistra: un nome comprato ai grandi magazzini Gum

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(ANSA – TRASFERELLI) Il simbolo di Liberi e Uguali, disegnato da una pasticciera di Velletri

La ragione sociale è importante. I socialisti, i comunisti, i liberali, i repubblicani… Altri tempi, per carità. Ma capivi subito dove andavano a parare: tangenti, bambini alla griglia, poltrone di governo, piadina romagnola. E il nome Partito a me piace: comunica forza e consapevolezza. Significa far parte di qualcosa. Condividere ideali. Non mi fido di chi si definisce Movimento, Lega, o addirittura ha un nome da stadio. Di quelli che fanno politica fingendo che i politici siano gli altri. E allora, con affetto: ma perché #liberieuguali? Come si chiamano i militanti? Liberisti? Egualitari? Liberugualisti? Già in pancia avete i Possibilisti, i SinistriItaliani, gli Articolounisti, persino i Dalemiani. Ho apprezzato parecchio l’idea civatiana del partito che dice la verità anche quando è spiacevole, che conta sull’intelligenza degli elettori, anche se poi la nascita del nuovo rassemblement è piena zeppa di alchimie da politica preistorica e posti in piedi spartiti tra vecchi arnesi e nuovi velleitarismi. Di popolo, pochino. Però, se mi stai raccontando di voler ricostruire la mia casa politica, dimmi come ti chiami, almeno quello, e ti dirò se vengo anch’io. Non dico di avere il coraggio di essere conseguenti e scegliere un nome provocatorio (tipo “Partito impopolare”) e nemmeno di sfidare quella che sembra la vostra ossessione chiamandovi “Partito Veramente Democratico” (pensateci, al Tg1: “I veramente democratici hanno dichiarato…”). Però anche una cosa un po’ polverosa tipo “Partito progressista” andava benissimo perché avrebbe marchiato una diversità, una nettezza, il coraggio di offrire un modello alternativo ai vari populismi che anche il Pd incarna pur potendo vantare una denominazione tradizionale. Invece no: Liberi e Uguali. Sembra il nome di quelli che ti chiedono una firma per strada contro la droga. E anche oggi, ovviamente non solo per questo, vi voto domani.