Della nostra quasi superiorità culturale sull’Islam: un’analisi impopolare

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È infinitamente comodo discettare di sicurezza e sparatorie dal divano di casa, mi rendo conto.

E in linea di massima la fede politica o ideologica dei poliziotti che hanno freddato Anis Amri dovrebbe essere irrilevante. Se fermi un tizio per un controllo e quello si mette a sparare è inevitabile difendersi. Anzi: è giusto. Specie se ha ferito un collega ed è con ogni evidenza pericoloso.

Stabilito questo, due brevi notazioni.

La prima attiene alla preparazione di chi è intervenuto. Colui che ha materialmente ucciso il terrorista è un novizio. Non lo fosse stato, avrebbe più facilmente reso inoffensivo lo sparatore senza ucciderlo. E oggi noi avremmo a disposizione una quantità di informazioni decisamente più importante. Al netto del fatto che se fosse stato Alfano, e non Lothar Minniti, a rivelare i nomi degli agenti, esponendoli a possibili rappresaglie, oggi la lista delle pernacchie avrebbe già fatto quattro volte il giro del mondo.

La seconda è, spiace, collegata all’humus culturale dei poliziotti coinvolti. Come ho già scritto, attirandomi qualche antipatia, se sulla tua bacheca Facebook inneggi a Hitler – come l’agente ferito – o a Mussolini (come lo sparatore) non è impossibile che le tue convinzioni si sovrappongano alla tua operatività. Cioè, traduco, che un maghrebino di meno tra i coglioni, per usare un linguaggio caro a Feltri e agli amici suoi, possa titillare regioni anche marginali del cervello. Portando ad agire di conseguenza.

Fuor di metafora, e chiudo, se certa violenza culturale del radicalismo islamico, elementare com’è, gratificante come solo l’odio può essere, è tra le cause più potenti della sua diffusione a macchia d’olio, soprattutto in fasce di popolazione poco erudite, il grumo di aggressività verbale che le forze populiste italiane, i loro giornali, i loro trombettieri, le loro tv, hanno coagulato in larghe fasce del Paese, potrebbe – potrebbe – persino diventare concausa degli atteggiamenti di chi si ritrova una pistola in mano nel momento sbagliato. E agisce in modo quasi giusto.

In quel “quasi” c’è tutta la nostra presunta superiorità culturale. Dovremmo, penso, ricordarcelo, prima di festeggiare la vendetta, sia pure verso un essere spregevole e imperdonabile come Anis Amri.

Parlandone da vivo.

Della concorrenza all’italiana spiegata attraverso una valigia persa su Italo

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Attenzione: pezzo lungo e a forte rischio esticazzi

L’altra sera, Bologna-Roma, Italo.

All’atto di scendere scordo la valigia a bordo.

Il treno si ferma lì, è l’ultimo della sera, la carrozza è vuota. Tre evenienze che mi fanno sperare di ritrovarla, nonostante non si sia in Svezia.

In fondo basterebbero un capotreno onesto e pronto  – cioè controlla il treno prima che vada in deposito, come immagino dovrebbe fare  – o un addetto alle pulizie onesto e basta (dopo) per farmi rientrare in possesso del bagaglio.

La mattina dopo alle 7 chiamo blandamente fiducioso il call center di Italo, ma quello gratuito serve solo per comprare i biglietti. Se hai bisogno di altro, paghi oltre un euro al minuto.

Faccio l’altro numero. La situazione sembra professionale: un’addetta mi chiede i codici, i miei dati, e mi dice che sarò richiamato. “Per essere sicuro però le converrebbe andare alla lounge Italo di Roma Termini”.

Non ho tempo di andare alla lounge (#fastidio). Aspetto fiducioso. Non chiama nessuno.

A metà giornata ritelefono. Ripago. Mi fanno presente, cortesissimi, che loro stanno a Reggio Calabria. Chiedo notizie. La mia segnalazione precedente non risulta. “Però le conviene andare a Termini”. Io: “Naturalmente la lounge non ha un numero pubblico”. Loro: “Non ce l’abbiamo neanche noi”.

La sera, finito di lavorare, vado a Termini.

Quando espongo il mio caso all’impiegato della lounge mi scruta con lo stesso sguardo che ha la Raggi quando vede una delibera: “Ma chi: io?”. Mi spiega cortesissimo che loro non c’entrano niente. Mai visto valigie in vita sua. Devo andare alla Polfer.

Esco, accoppiando mentalmente nostro signore ad alcuni animali da cortile. Raggiungo il casotto provvisorio della Polfer al centro della vasca di Nervi. Busso. Non rispondono. Guardo attraverso i vetri oscurati: nessuno.

Comincio allora a vagare nella ricerca di un agente. Ne trovo uno che sta dando indicazioni a due giapponesi in un inglese che persino Matteo Renzi troverebbe deprecabile. Cortesissimo pure lui, si offre di accompagnarmi al commissariato vero e proprio. O come si chiama.

Sembra Paolo Di Canio. A giudicare dal berretto fuori ordinanza (modello due taglie più piccolo: da falchetto) forse la pensa allo stesso modo politicamente.

Durante la lunga camminata – la Polfer è dentro Termini ma ai confini con Frosinone – chiacchieriamo del dato che rende possibile la mia odissea minima: le Ferrovie dello Stato, che gestiscono le stazioni e le sfondano di esercizi commerciali fino a non lasciare spazio manco per i treni,  hanno abolito da alcuni anni gli uffici oggetti rinvenuti, che costerebbero come dieci minuti dell’affitto di Yamamay a Milano.

La procedura attuale prevede(rebbe) che l’eventuale buon samaritano, ove trovasse qualcosa sul treno, andasse all’apposito ufficio del Comune di Roma che sta a Ostiense, dall’altra parte della città.

Sottolineo l’inciviltà della cosa, lo scarico della responsabilità, il sostanziale “cazzi tuoi”.

Risponde che sì, ho ragione. Però dietro all’abolizione di quell’ufficio potrebbero esserci altri motivi. “Magari la gente se ne approfittava”. Mentre sto per chiedergli che tipo di prevaricazione potrebbe mettere in atto uno che perde una valigia, siamo arrivati.

Mi deposita davanti a un citofono. Suono il campanello. Voce gracchiante: “Oggetti smarriti?”. Il che rivela l’esistenza di una procedura parallela: la Polfer accetta in via del tutto eccezionale, per buona volontà, di trattenere ciò che non dovrebbe trattenere “ma solo se contiene cose di valore”. Io ho due maglioni appena comprati che, ove indossati, forse mi eviterebbero di sembrare la controifigura anziana di Pig Pen.

Mi sa che non basta.

Do indicazioni, sempre al citofono. Va a cercare. Dopo 10’ il citofono crepita di nuovo. Niente.

Impietosito, l’agente di guardia esce a congedarmi. Cortesissimo. Mi spiega che loro vanno oltre il loro dovere, e che in magazzino c’è solo una valigia con dentro un tablet.

Contemplo mentalmente l’ipotesi di appropriarmene, ma è un attimo. Lo saluto.

Mentre ripercorro a ritroso il percorso verso l’albergo – la procedura mi ha fatto perdere l’ultimo treno per casa – e associo altre creature del mondo animale a parenti di primo grado delle più comuni divinità, realizzo che ho bisogno di sfogarmi. Cortesemente.

Chiamo il call center a pagamento, mantengo una calma olimpica, ma rilevo che mi hanno dato una quantità importante di informazioni false. E a caro prezzo.

Quella mi ascolta, cortesissima, e allarga le braccia: “Ha ragione su tutto. Ma siamo a Reggio Calabria”.

Stamane torno a Termini, alla lounge: vorrei annunciare fiero a qualcuno in carne e ossa che d’ora in poi piuttosto che viaggiare su Italo prendo il calesse. Una ragazza, cortesissima, mi dice che sì, normalmente le valigie vengono lasciate anche da loro (quello della sera prima doveva essere un mitomane con la divisa di Italo) ma non ha ricevuto niente. Devo andare alla biglietteria di Italo e parlare con una responsabile.

Vado alla biglietteria. Dove trovo una bigliettaia, cortesissima, che mi fa aspettare un po’ e mi introduce alla responsabile. Cortesissima. Mi ascolta mentre le ripeto la litania, cortesissimo pure io, comprensivo verso chi mette la faccia per un’azienda che ha fatto tagli clamorosi e costringe i lavoratori a continue figure di melma.

Spiego tra l’altro che i casi sono due:

o la mia valigia se l’è ciulata qualcuno che ha normali rapporti di lavoro con Italo, quindi farebbero meglio a controllare chi si mettono in casa.

Oppure è ripartita col treno che avevo preso io e quindi c’è un bagaglio non controllato da alcuno che viaggia per l’Italia. Meno male che non siamo sotto le Feste e non ci sono allarmi terrorismo.

Dice che ho ragione, che praticamente ho spiegato io a lei quel che succede, che è colpa delle Ferrovie dello Stato, che loro, loro di Italo, ci hanno anche provato a ridare le cose ai passeggeri. “Ma poi magari la gente se ne approfittava”. Ora posso a chiederlo a lei: in che senso se ne approfittava? “Sa, magari volevano recuperare i guanti, i cappelli, gli occhiali”.

In effetti è surreale: perché mai uno che ha perso sul treno un paio di occhiali, magari costosi, vorrebbe recuperarli col pretesto che non ci vede?

Lascio il mio telefono alla responsabile cortesissima nella speranza che Babbo Natale si palesi  e mi rimandi la valigia. Non accadrà. Speriamo che i miei maglioni stiano bene al nuovo proprietario.

Morale: Grandi Stazioni (Trenitalia), abolisce gli uffici oggetti smarriti perché costano. Italo abolisce il personale che potrebbe aiutarti a recuperarli. Perché costano. Entrambi negano informazioni alla clientela, o le danno sbagliate attraverso un girone dantesco che assimila disorganizzazione e malafede, e dopo averti carpito il prezzo deli biglietto ti lasciano ad arrangiarti persino in minime emergenze come questa. Lucrando una doppia posizione dominante.

Infine, io sono diventato impopolare al lavoro portando gli stessi vestiti per due giorni.

Però avete notato che sono tutti cortesissimi?

Perché Renzi fa bene a definire accozzaglia il fronte del No

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C’è un articolo di Michele Serra su Cuore che rappresentò per me una sorta di epifania della politica. O, almeno, di una mia personale concezione della politica.

Per questo lo cito spesso.

Risale, credo, al ’92.

Riguardava la scoperta delle tangenti nell’allora Pds e le risate sguaiate della Destra, che si faceva beffe della diversità altrui tanto sbandierata e, ora, violata.

Michele ammetteva di essersi fatto delle domande, nel momento di scoprire che anche la Sinistra rubava. Di essersi chiesto in primis chi gliel’avesse fatto fare di distribuire l’Unità, cuocere le salamelle alle feste, fare vita di sezione. Di, insomma, militare. Gratis.

E si rispondeva di averlo fatto per sé. Per le proprie idee.

Così, l’impatto con la triste realtà lo colpiva ma non lo uccideva.

In questi giorni quell’articolo mi è venuto in mente per due volte.

La prima, dopo i guai grillini a Palermo. Chi ha copiato – falsificato – le firme necessarie alle candidature ha commesso un reato. E chi lo difende a suon di benaltrismo ne è in qualche modo complice: la legalità a partiti alterni è il dato dell’italianità deteriore, di chi ha trovato in Grillo il modo di emendarsi da chi votava prima. Spesso i peggiori.

Ma sono certo ci sia anche un substrato dabbene, sebbene soverchiato da troll, haters, semplici paraculi, leader diventati soubrette, che ha creduto nel MoVimento come reale forza di pulizia. Molti di loro già ne sono usciti. Ma gli altri, oggi, si stanno facendo la stessa domanda: ma se siamo uguali a chi contestiamo, chi ce lo fa fare? E forse si rispondono che lo fanno per loro stessi. E stanno meglio.

La seconda, quando Renzi ha definito “accozzaglia” il fronte del No al referendum.

Non perché non lo sia (da Forza Nuova all’Anpi c’è una teoria multicolore nella quale una campagna così cruenta affonda giustamente il coltello) ma perché valuta il fronte avverso con una lente da politica 1.0.

Partitica.

Forse si rivelerà una strategia vincente, quella di paventare il diluvio di un governo Salvini-Grillo-D’Alema. Ma non tiene, scientemente, conto del dato che in un referendum è giocoforza far convergere le proprie convinzioni in due pentoloni – mi scuso per la metafora troppo tecnica – nei quali sobbollono insieme Gasparri e Civati, o Verdini e Chiamparino.

Così, definendo accozzaglia una fazione (con la consapevolezza che pure l’altra la è) si offendono di botto tutte le persone comuni cui è stato raccontato più volte come il referendum non sia una questione di bassa politica, ma un punto alto di cui, sembra incredibile anche a me, discutono con passione nei bar veri e in quel grande e malfamato caffè rappresentato dai social.

Oggi, caduti i partiti ottocenteschi, l’unica democrazia diretta, al netto della presa per i fondelli di Grillo, sono i comportamenti personali. Tra questi, un voto consapevole. Che non andrebbe deriso, mai.

Neanche quando viene da un’accozzaglia opposta alla tua.

De Luca fuori dal Pd, #bastaunsì

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(ANSA - GENNY SAVASTANO) De Luca mentre chiede a Renzi se sa chi lo saluta un casino

(ANSA – GENNY SAVASTANO) De Luca mentre chiede a Renzi se sa chi lo saluta un casino

Ci tengo a dire una cosa, pacatamente: a me delle panchine di Salerno non frega un cazzo.

E anche della splendida illuminazione, di Salerno.

Che un sindaco qualunque metta le panchine e illumini le piazze mi sembra il minimo. E non trovo che per questo lo si debba idolatrare – specie lontano da casa sua, ma si sa che le mitologie si giovano della distanza chilometrica – e accettarne estro, linguaggio, postura verbale.

Mi sembra pochino anche per diventare presidente della Regione.

Perché Vincenzo De Luca è principalmente un intimidatore.

Il suo linguaggio diverte se lo fa proprio un bravo comico. Ma deprivato della satira fa paura.

Lo fa quando pesa e cadenza le parole contro i grillini (che non hanno titolo per criticare le violenze verbali altrui, ma non per questo devono esserne vittima) e quando, convinto di non essere ripreso, augura la morte a una compagna di partito. Dandole dell’infame.

Il dettaglio lessicale non è un caso.

L’infamità è tipica di un linguaggio malavitoso, curvaiolo, ultrà. È un aggettivo che attiene al patto tradito, al familismo violato, all’omertà non rispettata.

Occhio: questo non significa che De Luca sia un mafioso.

Significa che la sua cultura è quella della devastazione altrui, del rancore che porta conseguenze, della minaccia politica come stile di governo.

La cultura che i peggiori luoghi comuni affibbiano al Sud. Tutto il Sud. Anche quello che certo linguaggio schifa. Come schifa chi lo sparge per il Paese.

Quando mi sono permesso di suggerire al Premier (o al segretario del Pd, che sono poi la stessa persona) di prenderlo a metaforiche pedate, i renziani più accaniti mi hanno subito tacciato di critica preventiva e immotivata.

Ma la mia non era una critica*, anzi. Mi offrivo come spin doctor gratuito.

Pensateci: il primo Renzi aveva conquistato fior di consensi promettendo la rivoluzione. La rottamazione. La ripartenza gioiosa.

Ora: cosa c’è di più rivoluzionario che abbattere con un gesto plateale la non emendabilità del nostro Mezzogiorno?

Cosa c’è di più clamoroso, innovativo, realmente coraggioso che mandare all’ammasso i voti che De Luca garantisce – e quanti – spiegando che la vera battaglia è culturale e passa anche per la pulizia di casa propria?

Una delle accuse che il new deal leopoldiano riversa sulla sinistra d’antan è il non saper vincere. Ha ragione. Anche se al momento Renzi ne ha vinta una sola, ed era un’amichevole.

Però il “come” si vince è importante. E vincere accontentandosi dello status quo, coi soliti voti, col senso comune che fa strame del buonsenso, senza nominare mai mafia, camorra, evasione, manco per sbaglio, qualifica certe vittorie, tipo quella di De Luca,  come mero esito di una contingenza azzeccata. Senza alcun gesto concreto per cambiare, davvero, l’anima profonda di un Paese che ha un terzo dell’economia in mano alla criminalità organizzata e si ciuccia ogni anno 270 miliardi nero. Roba che ad Amatrice potresti farci le scuole a castello. Disegnate da Renzo Piano. In oro massiccio.

Non so (non m’intendo di politica) se il presidente del consiglio sia davvero uno splendido tattico ma uno stratega raffazzonato. Fosse solo un tattico, ribadirei il consiglio che mi ero permesso di dare: allontanare De Luca. Ora.

Se i sondaggi sul referendum sono veri, sarebbe l’unico modo per recuperare qualche voto a sinistra, quella sinistra cui sta radendo al suolo la casa. Fossero falsi, arriverebbe al trionfo col vento in poppa della prima decisione (la seconda, va’: le unioni civili sono un bel colpo) realmente esemplare presa in mille giorni di governo.

Sennò, temo, ci stiamo prendendo in giro. Come chi mette quattro luci in piazza e poi avvelena i pozzi augurando la morte a chi gli si para davanti.

Coraggio Matteo: lasci De Luca al proprio destino. E lo separi dal suo. Adesso. #bastaunsì.

*certo che era una critica, ma altrimenti non mi avrebbe retto l’impianto retorico del pezzo

 

 

 

Coraggio, Tavecchio: faccia mettere quella fascia per ricordare Fatim

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Gentile dottor Tavecchio,

ieri ho lanciato una petizione per ricordare Fatim Jawara, la giovane portiera della Nazionale del Gambia morta in mare mentre cercava di arrivare in Europa e giocare a pallone.

Era indirizzata a lei e alla Lega calcio di Serie A.

Volevo, voglio ancora, volevamo e vogliamo, che le squadre scendessero in campo col lutto al braccio per ricordare una ragazza che sognava di fare il loro mestiere. Ed è morta annegata insieme a centinaia di altre persone. Migliaia, dall’inizio dell’anno.

Ha risposto la LegaPro, che farà osservare un minuto di silenzio (rischioso, con certe curve, ma è pur sempre un gesto coraggioso). Ha risposto la Lega Basket, i cui giocatori domani scenderanno in campo col lutto sulle canotte.

So per certo che potrebbe presto rispondere la serie B di Andrea Abodi, sensibile a tematiche sociali, su suggerimento dell’Hellas Verona. Verona: sarebbe bellissimo che il contagio partisse proprio da lì.

E poi ha risposto lei. Che ha disposto il lutto al braccio nel campionato femminile.

Ecco, non basta. Non ci basta. Non perché il calcio giocato da donne sia in qualche modo inferiore, ma perché quella fascia nera deve essere vista da più persone possibili. Deve arrivare anche a chi, nei nostri stadi, insulta le persone di colore. E a chi semplicemente ritiene normale che ciò accada. E gira la testa dall’altra parte.

Capita che le partite vengano precedute da generici inviti a combattere il razzismo. Ma stavolta abbiamo un appiglio concreto, di cui i calciatori sarebbero testimonial assolutamente consapevoli: ricorderebbero una persona che aveva il loro stesso desiderio.

Per questo le chiedo di agire, ora. Compia un piccolo gesto di civiltà. Permetta ai bambini che spesso dite di rivolere negli stadi di chiedere ai loro padri il perché di quella fascia. E ai padri di rispondere che ricordano una giovane e coraggiosa calciatrice.

A quel punto, Opti Pobà sarà solo la battuta di spirito mal riuscita di un presidente che una domenica di novembre del 2016 prese una decisione a forte rischio di impopolarità.

Ma giusta.

Grazie

Luca Bottura