Di Raggi, De Luca, Di Maio e altre minuzie a mezzo stampa

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Vincenzo De Luca è il tipo di politico cui il popolo perdona l’autoritarismo grazie a un modello di moderata efficienza.

Ha reso Salerno un posto migliore rispetto alla Salerno di prima. È un dato oggettivo. Ma lo ha fatto con una sgradevole propensione all’inciucio, un atteggiamento comandiero faticoso, la strafottenza machista che un bravo comico ha reso popolare macchietta tv.

Il sunto è: “Adesso facciamo la differenziata, che cazzo ve ne frega se maltratto le donne?”. Che è poi la versione moderna di: “Volete le bonifiche o la stampa libera?”. E la gente rispose.

Il suo motteggio da bar ai danni di Virginia Raggi è povera e piccola cosa. Ed è povera e piccola cosa anche la dissociazione tardiva dei maggiorenti Pd che in diretta ne avevano riso. Derubricando lo scivolone a vis teatrale in eccesso. “Perché quello è così”.

Quello è così e in un Paese civile oggi starebbe tenendo una composta conferenza stampa in cui motiva le dimissioni.

C’è un però.

Me l’hanno fatto notare alcuni ultras renziani, che di solito alternano il tip tap sui miei maroni con quelli grillini.

Il però riguarda l’antica vicenda della prima pietra, lo scagliar della quale mi pare fosse oggetto di un noto aneddoto su un best seller di diversi anni fa. Riguarda la credibilità di Vaffanculandia nello stigmatizzare il testosterone altrui.

Gli stessi che invitavano a spiare le presunte performance di Laura Boldrini in auto, quelli che in Parlamento celiavano su pompini e deputatesse della maggioranza, i tizi che ancora oggi – chez Di Maio, il candidato premier – additano su twitter una giornalista di Repubblica per aver riferito un’indiscrezione che a loro crea qualche ambascia. E allora vai di crapula, d’insulto, d’illazione, di violenza verbale. Per ora.

Loro, il detonatore trasversale della cloaca massima di astio che inonda i social, si fa partito, si fa Paese, accusano De Luca di aver violato il bon ton. Dunque non ne avrebbero titolo.

Invece no.

Invece facciamo che hanno ragione. Invece che il problema non è ben altro, stavolta. Che il problema è qui e ora, nessuno di noi è innocente, perché il Pd somiglia troppo al modello che dice di combattere. Facciamo che le battute brutte o belle, spiacevoli e no, politicamente scorrette e impoliticamente corrette, le lasciate a noi che non abbiamo alcun potere.

Facciamo che lasciate stare le donne.

Facciamo che lasciate stare chi fa informazione.

Facciamo che rispettate il ruolo che ricoprite e non ve ne fate scudo per coprire la vostra ignoranza.

Facciamo che ricominciate a fare i politici e vi dimostrate, o almeno ci provate, il popolo eletto. Che non dà aria alla bocca a cazzo. Che difende i ruoli e la democrazia. Che prima di cambiare o propugnare la Costituzione se la studia, e magari scopre che uomini e donne sono uguali, che l’articolo 21 tutela e la libertà di espressione, che in quei 139 capitoli ci sono un sacco di diritti ma c’è anche qualche dovere.

Facciamo che usciamo dal cortile di chi ha cominciato per primo.

E cominciamo a frequentare l’antica legge dell’opportunità.

La Dc rubava meglio, qualche fioriera l’ha messa pure lei, e uno come De Luca l’avrebbe tenuto nascosto. Il Pci, a uno come Di Maio avrebbe offerto un posto da assessore. Verso i cinquant’anni. Forse.

Tornate ipocriti, date retta a un cretino.

Ci fate una figura migliore.

Io, se fossi Pisapia

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Io, se fossi Pisapia, e non lo sono, sarei orgoglioso di aver migliorato Milano. Averla cambiata. Averla aperta al resto del mondo.

Se fossi Pisapia, e non lo sono, saprei di aver fatto la cazzatona di non scegliere tra Majorino e la Balzani, spianando la strada a una candidatura di discontinuità che sta per consegnare la città alla Gelmini, a La Russa, a De Corato, a Salvini.

Se fossi Pisapia, e non lo sono, avrei già fatto autocritica e mi starei chiedendo, in modo del tutto impolitico, come rimediare. Come evitare di buttare nel cesso il mio patrimonio, di gettare calce viva sul mio buongoverno.

Se fossi Pisapia, e non lo sono, comincerei a spendermi con generosità per il meno peggio. Tallonerei Sala nei mercati, in metropolitana, nei teatri, quando va al bar e mette l’auto in tripla fila, facendogliela spostare. Ci metterei il culo e la faccia. Farei capire che dopo aver vinto contro ogni pronostico, è possibile rivincere contro ogni pronostico. Contro un’inerzia evidente. Che ha bisogno di una scossa.

Se fossi Pisapia, e non lo sono, farei stampare a nastro manifesti col mio nome e quello di Sala.

Se fossi Pisapia, e non lo sono, darei credibilità a un’affermazione politica (“Votatemi per continuare”) che in bocca al city manager di Letizia Moratti suona poco credibile, addirittura respingente sia per il suo elettorato di riferimento che per quello avversario.

Se fossi Pisapia, e non lo sono, preparerei qui e ora il finale di campagna elettorale in piazza del Duomo, estrarrei dalla naftalina le bandiere arancioni, chiamerei a raccolta i milanesi che vogliono continuare la resurrezione gentile.

Fossi Pisapia, e non lo sono, lo farei per un motivo sentimentale e uno molto pragmatico: far vincere Sala con i voti decisivi di questa Giunta, di questo sindaco, di questa gente, sarebbe il modo migliore per mettere il cappello sul futuro e mantenere un ruolo preminente sulla città pur senza stare a Palazzo Marino. Quello che Pisapia ambiva a fare attraverso Maiorino, appunto. O la Balzani. Ed è in quella indecisione che è entrato Mr Expo.

Questo farei se fossi Pisapia. Steccherei la zampa dell’anatra zoppa e la porterei al traguardo. Per lui, in piccola parte. Per me. E per Milano.

Ma non sono Pisapia. Non posso farci niente. Lui però può. Si muova. Adesso.

Una mattina, mi son sbagliata

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Non so – e chissenefrega – se e come voterò a ottobre sul referendum costituzionale.

Il bicameralismo perfetto è oggettivamente inefficace, e ritengo che sarebbe un bene abolirlo, ma trovo ininfluente la principale motivazione renziana, e cioè che il Senato rivisto cancellerebbe un bel po’ di stipendi. Da sempre, i costi insostenibili della politica mi sembrano quelli delle mazzette (oltre all’evasione di chi i politici li vota) e in generale illegalità e mafie.

Ma sbaglio io.

Trovo inoltre tutto da sondare il combinato disposto della nuova Costituzione con la pessima legge elettorale uscita dai dintorni del Nazareno, che era fatta apposta per far vincere il Pd al 40 per cento e ora sembra cucita addosso a Grillo o di un qualunque altro mitomane che vellichi l’amore tutto italiano per l’uomo forte.

Quindi mi informerò e deciderò, senza farmi velare dai possibili compagni di strada. Da una parte c’è la sinistra estrema ma anche, come ricordano molti, la Lega, o i più moderati di Casa Pound. Dall’altra c’è Verdini ma anche chi ricandida quelli che si compravano con due spicci qualche elettore alle Primarie di Napoli.

Né mi farò dare indicazioni dall’Anpi, cui sono iscritto per ovvie ragioni di testimonianza antifascista. Ne dall’Arci, che pure s’è schierata per il no, dalla quale al massimo mi farei indicare quale tipo di birra artigianale accompagnare alle patatine.

Ma trovo legittimo che le abbiano date (a maggioranza) e spiacevole che un ministro, più per sciatteria espressiva che per altro, definisca cos’è vero partigiano e cosa no, con una logica settaria da anni ’70 e non da testimonial del nuovo, quale si pregia di essere.

Le patenti di legittimità calate dall’altro non hanno mai portato bene alla salute della democrazia in generale, e di partito nello specifico. Un partito che non è il mio e di cui registro le beghe con divertita costernazione: gente che vota sì ma sembra che voti per il no (Bersani), gente che fa capire di voler votare no ma non lo dice esplicitamente (Cuperlo), gente che vota sì sulla base delle stesse motivazioni con cui votò no al referendum sulla riforma di Berlusconi (Renzi).

Fossi nella Boschi e in Renzi, la dico semplice, mi rassegnerei al fatto che per quanto loro siano lungimiranti, innovatori, soprattutto inevitabili, ci sarà sempre chi non è d’accordo. E che a toccare la Resistenza c’è ancora qualcuno che s’incazza. Gente a cui dovrete chiedere il voto sennò, come avete spiegato con chiarezza, andate a casa.

Con l’aggravante, nel caso della Boschi, dei partigiani che ti canterebbero “Bella, ciao”.

O Bella ciaone.

Pensateci, da qui a ottobre.

Grillo, Boschi, mafia: lo scontro tra Titanic

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Ogni volta (ogni volta) che Grillo va in Sicilia, dice qualcosa a favore della mafia.

Meglio: non proprio a favore della mafia. Dice un’apparente ovvietà demagogica che favorisce la cultura mafiosa.

A suo tempo, in campagna elettorale, spiegò che era meglio della politica perché almeno non strangolava la vittime. Stavolta ha sostenuto che non c’è più, s’è spostata al Nord*.

Lo fa perché è mafioso? Ovviamente no.

Lo fa per chiedere voti alla mafia? No, anche se sicuramente certa diminutio agli uomini d’onore non dispiacerà.

Lo fa per chiedere voti in generale? Sì.

A chi? A tutti quelli che non vogliono sentirsi responsabili per la merda in cui versa la Sicilia, perfetta metafora della merda in cui versa questo Paese.

C’è un bel monologo di George Carlin, che condivido solo in parte, nel quale si spiega con efficacia teatrale ciò che sostengo da sempre: gli eletti non sono meglio degli elettori. Chi ha votato candidati mafiosi, o camorristi, chi ha scelto la clientela invece della dignità, è perfettamente uguale a chi lo rappresenta.

Siamo un Paese corrotto, becero, volgare, che esprime una politica corrotta, becera, volgare.

Ma votiamo per chi ci dice che la colpa è degli altri, dei politici.

Fatta la tara alla buonafede dei grillini primigeni, l’onestà (onestà-onestà) in Italia non ti porta al 25% dei voti. Per arrivarci, devi imbarcare chi in questi anni è stato totalmente corresponsabile della deriva da fescennino tragico in cui viviamo, ma premia chi gli cancella la memoria.

È un populismo efficace, sostanzialmente di destra – per usare categorie Novecentesche – non a caso subito sposato da neofascisti di ottima educazione come Pietrangelo Buttafuoco. Un altro che ha letto addirittura più libri di quanti ne abbia scritti, ma poi ricade nello stereotipo per cui il problema della Sicilia è l’antimafia (oltre al traffico, ovviamente) e che per preservare il buon nome dell’Isola è meglio citare la pasta con le sarde e non l’illegalità stratificata che la strangola. Certo che la strangola.

E ci strangola. Certo che ci strangola. Con un cappio che ci siamo comprati da soli.

Che poi tutto questo, per esempio ieri sera a Otto e mezzo, venga preso dal ministro Boschi come pretesto per oscurare il patto Pd-Camorra in Campania, attiene non già a uno scontro tra due entità diverse, ma alla partita di uno che per prendere voti nega l’esistenza della mafia, e un governo che per non perdere voti non pronuncia mai quella parola se non per sbatterla in faccia a un altro che la nega.

Che al mercato mio padre comprò.

Invece, la mafia è e resta una montagna di merda.

Peccato solo sia anche una montagna di voti.

 

(Ha anche sostenuto che Casaleggio l’hanno ammazzato i giornalisti che parlavano male di lui. Cioè li ha intimiditi a cazzo per l’ennesima volta, salvo poi lamentarsi della mancanza di libertà di stampa. Se valesse il principio che le critiche – e le minacce – ammazzano, i cronisti che parlano di Grillo sarebbero tutti morti. Dovrei abituarmi, ma ‘sta roba di lucrare sull’odio chiamandosene fuori ancora mi fa incazzare. Colpa mia. Chiedo scusa).

Riforma della Giustizia: se non ora, dopo

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voi siete quiDa Craxi in poi – Prodi escluso – tutti i governi dagli anni ’80 a oggi hanno reagito al drammatico deficit di legalità in cui versiamo cercando di fermare i giudici.

E’ come voler debellare l’Aids chiudendo gli ospedali. O impedendo ai medici di cercare la cura.

Rimanendo in metafora: certo, ci sono ospedali che fanno schifo. Inefficienti. Corrotti. Abitati da personale sfaccendato o in malafede.

Ma dite la verità: ne affidereste la riforma a uno che sta in società con Poggiolini?

Perché siamo a questo: a voler rimettere la Magistratura al proprio posto sono un partito sfigurato dalle inchieste e un governo sostenuto da un tizio rinviato a giudizio per sei volte in due anni. Che, quindi, non hanno la credibilità per farlo. Non per ragioni giudiziarie, ma per un motivo che l’italiano medio – cioè un politico che, ahilui, non è stato ancora eletto – ha velocemente perso per strada proprio da Craxi in poi: il senso di opportunità.

Qualche amico mi ha fatto notare che sono argomenti grillini. Non lo sono, per un solo motivo: i grillini – Livorno insegna – hanno scoperto il distinguo sugli avvisi di garanzia appena hanno toccato loro. Di Maio diceva che per chi sta in politica la presunzione d’innocenza non esiste: se ne deve andare appena indagato. Ora no. Ora si valuta caso per caso.

Non a caso l’onestà fa rima con Rodotà: va bene e ne scandiamo il nome finché non ne chiedono conto a noi. Poi però… Poi però la gente somiglia ai politici. E viceversa. E serve un rivolgimento molto più profondo che delegare la propria voglia di rivoluzione ai testimoni di Ge(n)ova del vaffanculo. Servono un cambio culturale e una classe dirigente decente.

In sintesi: esistono magistrati ladri, giudici incapaci, toghe velleitarie. Ma per riformarle, e ce n’è bisogno, chi sta al governo dovrebbe farsi carico della legalità (se possibile con qualche provvedimento concreto per esempio sull’evasione fiscale) e usare il consenso per dare al Paese l’unico messaggio rivoluzionario possibile: me ne batto i coglioni se anche i ladri vanno alle urne, io voglio i voti degli onesti. E di chi si è adeguato all’andazzo per comodità, come ci adeguammo al fascismo per pigrizia. E dunque potrebbe essere recuperato facilmente. Dimostrandogli che essere perbene conviene anche a lui.

Certo: è che vero i magistrati fanno politica. Davigo, che ai tempi di Mani Pulite passava per l’ala conservatrice del pool, oggi ha detto una cosa politicissima: “Cacciateli voi i ladri, fatelo prima che arrivino i giudici. Pagheranno degli ex, la classe politica ne trarrà giovamento”.

Il problema è che la politica rappresenta il Paese. E anche la magistratura giacobina e inefficiente, quando c’è, rappresenta il Paese. Quindi forse è il Paese che si dovrebbe cambiare. Intanto però il patrimonio di voti viene sfruttato, da tutti, persino da Grillo quando va in Sicilia a dire che la mafia è meglio dello Stato, per dare al popolo la sensazione, diretta o surrettizia, che l’Italia sia irriformabile, che prima o poi una fetta di anarchia dell’illegalità arriverà anche a loro.

Intanto, però, votateci.

Perché alla fine l’unica tutela trasversale, quella per cui si sbattono vecchia e nuova politica, è quella del consenso. La vera malattia dello strano posto in cui viviamo. Insieme all’italianità.

Per la quale nessun ospedale ha ancora trovato il vaccino.