Il Pd e gli estremisti di Centro: un pippone

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Al netto delle motivazioni certamente ottime per cui Carlo Calenda si alleerà con Matteo Renzi, cui fino a dieci secondi fa scriveva “fesso” sulla fiancata dell’auto con un punteruolo, l’incedere della campagna elettorale, sua e di altri, pone un problema lessicale su un tema specifico: l’estremismo.

Calenda mollerà il Pd usando come casus belli la possibile presenza, nelle liste collegate ai democratici, di due avversari che considera appunto estremisti: Sinistra Italiana e Verdi. Che sono partiti ma anche parole. Impronunciabili.

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Carlo Calenda in visita al tunnel del Gran Sasso

Sinistra Italiana, è innegabile, contiene il termine Sinistra. Diventato ormai, in questo Paese, sinonimo di esproprio proletario. Basti pensare che discutiamo da due giorni sulla cosiddetta Patrimoniale proposta da Enrico Letta, che non è una patrimoniale ma un contributo, sulla sola successione, e solo da parte degli italiani straricchi, da destinare a chi, per colpa della mia generazione e di quelle precedenti, si affaccia alla vita senza difesa alcuna: i nostri giovani. È un mandato della Costituzione, la progressività delle imposte. Eppure, nel comune sentire, nel racconto politico, nel giudizio sprezzante del Centro, certe cose non vanno nemmeno pensate. Figurarsi dirle. Renzi ha twittato ghignante che “bisogna morire gratis”. Il passo successivo è un cavallo di battaglia del suo alter ego leghista: la flat tax. Che è contro la Carta e non si potrà mai fare. Ma di quella, parlare si può.

A Fratoianni, leader di Sinistra Italiana, che fino a ieri conoscevamo in quattro, compreso Fratoianni, Calenda imputa di aver votato contro il Governo Draghi. Cioè di aver pigolato un messaggio identitario, di equità, all’interno dell’unanimità altrui. Quattro cose, sempre le stesse, che non prevedono l’invasione dell’Ungheria ma che, ad esempio, premevano ché Draghi confermasse la tassa sugli extraprofitti derivanti dalla guerra (Eni: lo Stato ne avrebbe ricavato tre miliardi). Cancellata, ovviamente.

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Nicola Fratoianni

Che Azione contribuisca alla narrazione vincente per cui i poveri devono limitarsi a invidiare i ricchi, a votarli, e a odiarsi tra loro, è del tutto legittimo. È il brodo di coltura in cui siamo immersi dal ’94, il conflitto d’interessi che si è mangiato il conflitto di classe, e ne siamo tutti permeati. Anzi: l’abbiamo esportato nel mondo. Ma il dato è che non tutti gli “estremismi” sono uguali: mentre la cosiddetta Destra Sociale sta per governare il Paese, il Centro mette il veto alla Sinistra Sociale.

In verità, Fratoianni ha risposto al diktat di Calenda – “Non candidatelo nel maggioritario” – in modo spiazzante: “Va bene”. Il che collide un po’ con la narrazione radicalissima cui è soggetto però, con quel simbolo rosso così sospetto, non lo dispensa dall’accusa di bolscevismo. La provocazione di assentire alle richieste altrui potrebbe essere uno dei soliti bizantinismi comunisti.

Ma se la Sinistra rappresenta una specie di mirino per i centristi assoluti, l’ostracismo per i Verdi parrebbe, a un primo e sommario esame, meno spendibile. Perché è vero che gli ambientalisti italiani hanno sempre trovato spazio nel cosiddetto campo progressista, ma attengono da sempre anche al mondo radicale, libertario, vicino più alla Bonino che alla cosiddetta sinistra radicale, dove per sinistra radicale si intende chiunque si opponga allo ius primae noctis. Trattasi di tema universale che tra l’altro porta pure denari a chi riconverte – c’era persino un ministro contro la transizione ecologica, all’ultimo giro – e voti da addirittura due categorie di elettori: chi ha a cuore l’universo mondo, e chi ha a cuore il proprio giardino.

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Angelo Bonelli

Eppure anche questo tema, presente in tutte le democrazie del mondo, specie le più evolute, da noi risulta appunto estremista. Ci si chiede se vogliamo i condizionatori o la guerra invece di chiederci se vogliamo i condizionatori o temperature per cui non basteranno più manco i condizionatori. Da noi i moderati irridono i gretini, comunicando soprattutto ai più giovani che non c’è benessere senza distruzione dell’ambiente. Tanto – semplifico, ma mica poi troppo – sono affari di chi viene dopo. Un disastro culturale che irride l’idealismo dei giovani. I quali, ammesso che non cedano alla vulgata, si ritrovano davanti a due alternative: non votare, andarsene. E spesso fanno entrambe le cose.

Concludo il ragionamento citando un mio vecchio maestro, Michele Serra, irriso dalla Destra allorquando anche il Pds venne preso con le mani (due dita, va’) nella marmellata di Mani Pulite. Gli chiedevano per chi l’avesse fatto, di spendersi per un partito che era uguale agli altri. Michele rispose che l’aveva fatto per sé stesso, di girare le salamelle alla Festa de l’Unità. E gli bastava. Credo che analogo ragionamento andrebbe fatto nei confronti della ridotta elettorale pentastellata. Al netto di una classe dirigente disperante, anche quella che se n’è andata, anche quella transfuga con cui il Pd sta ragionando sui collegi, sicuri o no, c’è un 11 per cento residuo che è arrivato a casa di Grillo perché deluso dall’ignavia della sinistra riformista. È lì rimane. Confusamente, ma chi non lo è. Gente che, basta leggere i social, non si capacita realmente della porta presa in faccia dal loro partito (e di motivi ce ne sono, primo tra tutti l’insipienza di Conte) e che vede nel Pd la sponda fisiologica alla ricerca di una parcellare giustizia sociale.

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Giuseppe Conte regge un foglio che non ha letto

Il repulisti di Grillo ha tolto di mezzo molti scappati di casa. Gli altri sono andati con Di Maio. Conte non può imbarcare Di Battista per ovvi motivi. Il centro alza barricate. Il quadro, insomma, pare molto fluido.

Uno come me, che col populismo ha incrociato e incrocerà i guantoni per sempre, coi vertici pentastellati farebbe fatica a condividere un piatto di lasagne. Ma siccome il percorso calendiano ricorda molto quello di Conte con  Draghi – alzare la posta per rompere – il Partito Democratico pare essere a un bivio: ritrovarsi in pancia chi lo eterodirige da tempo, e lo aveva portato sull’orlo dell’estinzione, o ritentare una sintesi, anche speculativa, con una platea elettorale che gli somiglia, e con un tizio che pur di restare al Governo ha dimostrato di potersi alleare praticamente con chiunque.

Nulla di esaltante. Ma siccome lo scenario, al momento, sembra quello di decidere da chi farsi ricattare, tenere accesi i due forni ancora per un po’ significherebbe riprendere in mano il gioco, e ribaltarlo, da partito di maggioranza.

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Da moderati veri, da punto di equilibrio, rivendicando come tratto fondante, centrale, proprio il senso delle istituzioni che in tutti questi anni ha abraso l’identità riformista del fu Partitone. Quel 23% somiglia al 40 di Renzi: è un bene rifugio. Per non disperderlo, o addirittura per farlo crescere, occorrerebbe riprendere in mano il pallino. Col programma in una mano, la calcolatrice nell’altro. Tanto, comunque vada, i centristi decideranno con chi stare – orbitare a sinistra, o scalare Forza Italia con ottime possibilità di successo – soltanto dopo.  

Tanto vale, forse, assecondarli. E lasciarli marciare da soli.

Buona prosecuzione.

Se non ora, dopo

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Il Pd vincerà le elezioni e Greta Thumberg ha rilevato un’azienda che estrae carbon fossile.

Se la seconda ipotesi vi pare più probabile della prima – lo è – immergetevi con me in una breve lista delle cose che il Partito Democratico può fare per sopravvivere al disastro annunciato, in modo che tra un paio d’anni (quando la maggioranza di Destra si prenderà a sganassoni com’è sempre accaduto) venga evitato il solito governo “dei sacrifici” e di responsabilità nazionale che a ‘sto punto, essendo finite le riserve della Repubblica, sarà guidato probabilmente da Carlo Conti, e i democratici possano presenziare alle elezioni col brivido che non li percorre dal 2006: cercare di aggiudicarsele.

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Cosa non fare. In larga parte, ciò che già fa. Appiattirsi su chiunque, di volta in volta sulla “grande risorsa della Sinistra”, ossia la grande risorsa di Matteo Salvini, ossia Giuseppe Conte, o sul cosiddetto “centro moderato”, ovvero interlocutori che peraltro si detestano, tipo Renzi e Calenda, e sgomitano sul loro sentiero di sopravvivenza. Chi più largo, chi molto meno. Sono loro ad aver bisogno di Letta, non viceversa. Invece, ognuno pone condizioni. Mentre in qualunque mercato, anche quello politico, è l’azionista di maggioranza che fa valere il potere contrattuale. Simul stabunt, simul cadent, certo, ma c’è un simul che ha molti più voti e non può farsi dettare programmi, candidature, alleanze dagli altri.  

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Mario Draghi affranto dopo le dimissioni

Non insistere sul Draghicidio o almeno non farne l’unica narrazione. Il cosiddetto Conticidio ha rimpinguato i conti correnti di alcuni teatranti e le tirature di alcuni giornali ma non è mai diventata una piattaforma politica perché il partito di Conte, alla fine, ha governato per cinque anni filati. E gli elettori lo sanno bene. Il Pd, in qualche modo, governa da dieci. Per il comune sentire è diventato il partito che sverna al potere non già per senso di responsabilità, ma perché più abile nelle congiure di Palazzo. Riconoscersi acriticamente nell’agenda Draghi, anche se averlo sostenuto è un punto di merito e di decoro civile, non è sufficiente. Tanto più assumerla in toto, agendina bancaria compresa, conferendo un timbro politico a un governo che politico non era. Intanto perché di Draghi potrebbe esserci nuovamente bisogno: meglio non mettergli giacchette. Poi perché significherebbe per l’ennesima volta indossare un’idea altrui di Paese, senza specificare quali sono gli obiettivi propri a cui si punta. Se non qui e ora, qui e dopo, dacché la prospettiva immediata sembra quella del famoso sketch con Corrado Guzzanti e Germana Pasquero subito prima del voto nel 2001: “Per tornare a vincere nel 2006”. Qui, a occhio, nel 2024.

Leopolda, Renzi: "E' buona politica, ma giornali parlano d'altro". Fnsi:  "Li mette alla berlina come Berlusconi e Grillo" - Il Fatto Quotidiano
Ciaone (dettaglio)

Regolare i conti a catastrofe avvenuta. Letta ha ereditato macerie cosparse di sale. Il blairismo fuori tempo massimo che si è ritrovato in casa, nell’unico partito al mondo che ospita al suo interno una corrente di un altro partito, possiede lo stesso appeal di un tamponamento sulla corsia opposta in autostrada: molti rallentano a guardare l’incidente, diciamo un 40,8%, ma appena possono ripartono di gran carriera. Quella che si prospetta alla sinistra democratica può essere una convalescenza o un’agonia. Affidarsi a chi ha provocato la seconda è numericamente perdente. Politicamente, pure. Perché ciò che Walter Veltroni si proponeva sin dagli inizi, ossia un partito moderato e riformista, di centro-sinistra, esiste già: è il Partito Democratico. Perlomeno esiste il 20/25% che gli si è abbarbicato. E non necessita di investiture da parte del centro-centro, che si propone come ago della bilancia mentre la bilancia è già nel tinello di Giorgia Meloni. Anche se Salvini e Berlusconi cercano di riportarla ad Arcore.

Terminale - Ms Dos su Windows - Lista dei comandi Cmd.exe
Il programma del Pd

Cosa fare. Una propria agenda dotata di amor proprio, almeno un po’. Chiara, semplice, inclusiva soprattutto per chi a votare non va più: i giovani. Che possono fare la differenza tra una sconfitta e una mattanza. Perseguire, rivendicare, i punti di programma che sempre gli stessi centristi ritengono irricevibili, quelli per cui “non è mai il momento giusto”, e che invece devono sorreggere qualunque forza progressista: lotta alle mafie, all’evasione, alla corruzione, ai fascismi vecchi e nuovi, alle intolleranze. Appello agli italiani che si sono rotti i cabbasisi, come avrebbe scritto Camilleri, di regalare le strade, le scuole, gli ospedali, a chi ogni giorno gli mette le mani in tasca non pagando le tasse. Fare una legge elettorale che funzioni invece che una scritta per (credere di) vincere, ché poi si finisce come col Rosatellum. Essere divisivi, finalmente, puntando alla maggioranza e non all’unanimità. Battagliare per i diritti civili (lo ius scholae, il matrimonio, vero per qualunque genere, la liberalizzazione delle droghe leggere per combattere gli interessi mafiosi, un fine vita reale, l’applicazione della Legge 194 e della 180, alzare gli stipendi delle Forze dell’Ordine restituendo loro dignità e serenità) e anche, se non soprattutto, sociali.

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Luigi Di Maio mentre cerca di ricordarsi qual è il numero successivo

Anche il sottoscritto ha sbeffeggiato inizialmente il Reddito di Cittadinanza come provvedimento residuale e clientelare. Clientelare, in parte, lo è stato: ha generato voti che infatti sono spariti subito dopo. Ma era una risposta, scritta coi piedi, a un problema concreto che ha in parte arginato: la povertà. Che è figlia di lavoratori ridotti a una sorta di schiavitù del senso comune secondo il quale la mia generazione ritiene normale che chi ci ha seguiti debba intestarsi i sacrifici mai compiuti da molti di noi, versandoci pure i contributi per la pensione che mai vedranno, pagati niente e pure sbeffeggiati da chi si lamenta di non trovare manodopera a quattro lire. Anche qualificata. Anche accademica: quanta gente che ha potuto studiare ci guarda dall’estero perché in Italia era impossibile trovare un salario decente e un posto di rilievo in mezzo a una selva di raccomandati e baroni? A loro la parola Europa suona come un’ancora di salvezza, un posto in cui certe petizioni “estremiste” sono valori condivisi da qualunque forza politica, ed è incredibile che anche su questo tema la sinistra riformista si sia ritirata sulla difensiva. Con tutti i soldi del Pnrr che ci stanno generosamente (molto generosamente, visto gli scappati di casa che siamo) elargendo. Con tutte le evidenze che rendono anche economicamente preferibile Bruxelles a Visegrad. Cioè a Mosca.

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Tipica massaia emiliana

In fondo il Pd, e i suoi alleati cosiddetti radicali, il modello ce l’hanno a casetta: le Regioni che ancora governano, tra l’altro spesso insieme ai centristi. Che, almeno in provincia, sembrano meno ideologici. Quanti italiani intraprendono viaggi della speranza per curarsi in Emilia-Romagna? Molti, come verso la Lombardia. Ma in Lombardia, quando i malati di Covid morivano come mosche, i medici di base erano scomparsi. Modello Giorgetti. Modello Compagnia delle Opere. Modello che non ha funzionato. Modello che non prevede la dittatura del proletariato eppure a livello nazionale viene osteggiato da vivaisti e azionisti come se un larvato equilibrio tra mercato e diritti fosse una bestemmia.

Nel 2011, Salvini, Meloni e Berlusconi avevano portato il Paese sull’orlo della bancarotta. Ora, come da meme che il Pd dovrebbe ritirare fuori e appendere in luogo dei santini di Supermario, chiedono di riprovare. Ma la Fornero combinò lacrime e tagli non perché si credesse il Diavolo Veste Inps”. Semplicemente, sapeva che Atene è bella ma non ci vivrei e Monti era un effetto, non una causa, delle cicale populiste, delle “pensioni da mille euro”, delle “dentiere per tutti”, di Alitalia ai “capitani coraggiosi” e via dissipando.

Lo sa bene Giorgia Meloni la quale, conscia com’è della penuria di classe dirigente che alberga dalle sue parti, da mesi molesterebbe telefonicamente tutti i tecnici “di area” che possano in qualche modo conferirle agibilità anche internazionale. I vituperati tecnici.

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Meloni

E per finire, il Pd dovrebbe togliere di mezzo questa bufala dell’anti-italianità. Desiderare che questo Paese sia un po’ meno cinico, un po’ più buonista, cioè tendente a migliorare, se può, senza sentirsi superiore a nessuno, è un atto di amore verso il nostro Paese. Anche e soprattutto per il Sud, dove il buco nero a Cinque Stelle può e deve essere riempito di proposte concrete, magari a bordo di un pullman alla Prodi che deve partire ieri. Ché all’Elmo di Scipio e allo scalpo della Vittoria, è sempre preferibile la seconda strofa, molto più consapevole, del Canto degli Italiani: “Noi fummo da sempre, calpesti e derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi, raccolgaci dunque un’unica speme, di fonderci insieme già l’ora suonò”.

Anticipo la domanda: ma la mancata estinzione del Pd, siamo proprio sicuri che servirebbe? Trovo legittima la risposta negativa, ma sono convinto che essere l’unico Paese occidentale senza un partito di sinistra moderata, un vero partito di sinistra moderata, intendo, rappresenterebbe un danno importante non solo per la democrazia. Ma anche per la Destra che sta per governare. Quantomeno perché avrebbe finito i “governi precedenti” cui addossare le colpe.

Buon viaggio.

Il caso Burioni: qualche considerazione più lunga di un tweet

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Burioni su Twitter paragona i No vax ai sorci, poi ritratta: Non lo  riscriverei | Sky TG24

Ho per Roberto Burioni molta stima. Oserei dire che mi ritengo suo amico, per quanto non ci siamo mai frequentati fuori dal virtuale. Gli sono amico in quanto riconoscente per il lavoro di divulgazione scientifica che ha fatto, sui vaccini, molto prima che osteggiarli diventasse la piattaforma mainstream su cui gli antagonisti un tanto al chilo, gli anarcoidi nostalgici all’italiana, hanno trovato rifugio. Per poi riversarsi su Putin. O su un altro trampolino a caso, comunque comodo e affollatissimo, dal quale sfogare la propria frustrazione avocando il proprio fallimento a un potere forte a caso.

Ciononostante, ogni tanto gli andrebbe periodicamente applicata la “mozione Calenda”, ossia l’occultamento coatto delle password di Twitter. Questo perché sui social gli capita di essere obnubilato dalla giusta causa valicando confini che non andrebbero violati. Ieri, ad esempio, un tizio della Lega ha fieramente annunciato che avrebbe evitato ogni ulteriore dose di vaccino, giustamente rimbeccato dal prof. Nel thread che ne è seguito, si sono affollati alcuni fan del leghista, tra cui una ragazza che il virologo ha schernito in base alle caratteristiche somatiche. Ne è nato un parapiglia cui sono seguite le scuse e la cancellazione dell’infelicissimo tweet. Scuse un po’ alla Fonzie, diciamo. Però scuse.

Alcune domande e un paio di considerazioni a latere.

Le domande:

Burioni ha sbagliato a fare quel tweet? Certo.

Aveva già sbagliato toni in precedenza? Certo.

Ha fatto bene a scusarsi? Certo.

Poteva scusarsi un po’ di più e meglio? Certo.

La prima considerazione: il disdicevole episodio non inficia minimamente la credibilità accademica di un tizio che nel suo campo resta un luminare. Di più: nel racconto del virus, è stato il più corretto e meno ideologico, aggiustando dati e prospettive in base alle evidenze che emergevano. Gli si rimproverano contraddizioni che non lo erano: si chiamano progressi scientifici.

La seconda considerazione (che ho già svolto in un tweet a sua volta molto commentato e, oserei dire, piuttosto travisato): mi risulta molto faticoso che a bastonare il reprobo siano i leader di partiti che hanno fatto del conflitto sociale, sempre verso i deboli, le reti per la pesca a strascico di consensi.

E mi infastidisce vieppiù che a fare massa sia quella specie di PUP (Partito Unico Paraculo) di cui fa parte un botto di gente, ossia la solita maggioranza che si comporta come una minoranza vessata: oltre a novax, putinisti, reazionari vari, si sono distinti per violenza verbale anche alcuni esponenti del centro moderato, i pupazzetti della Bestiolina, i siti che vivono mandando pizzini, insomma: la politica peggiore, che ne approfittato per vendicarsi non mi è ben chiaro di cosa. Ma loro lo sanno di sicuro.

Ovviamente c’è anche una fetta importante di persone in buonafede che si è limitata a sottolineare l’irricevibilità del commento. E con piena ragione. Anche a me è capitato di “andare lungo”, anche se lo faccio per mestiere, ma da qualche tempo ho smesso di celiare sull’aspetto altrui. Solo di battute su Brunetta ho dimezzato la Siae.

La shitstorm contro Burioni, al netto delle sue ragioni, è stata però trainata anche da mosche cocchiere che con con le campagne d’odio hanno costruito un patrimonio politico. Anche quelli che fingono di combattere il populismo.  

E no, l’indignazione – anche se motivata – non è tutta uguale.

Specie se della ragazza messa in mezzo, a una parte dei censori, non interessa assolutamente nulla.

Allora facciamo così: le chiedo scusa io. Senza se, senza ma. A prescindere dall’antipatia per le sue idee e dalla simpatia che posso provare per Burioni. Le chiedo scusa per quella battutaccia, per questo putiferio, per tutte le volte che ognuno di noi (io, almeno, di sicuro) ha valicato il limite attraverso la tastiera sbagliando tono, parole, bersagli.

Ché alla fine ‘sta storia può persino diventare una lezione. E il primo a recepirla, ne sono certo, sarà proprio Burioni.

Ma il punto, e questo volevo dire, e lo ribadisco, è che certa gente riesce ad avere torto persino quando ha ragione.

Di lavoratori fannulloni e pause caffè: un racconto

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Amico lettore, amica lettrice, oggi voglio corroborare la tua collezione di chissenefrega. Ti rivelerò dunque la mia smodata passione per il caffè. Anni fa, in una torrefazione di Milano, mi impegnai il monolocale in cui vivevo per acquistare sei bollenti centilitri di Kopi Luwak, una miscela che deve il suo aroma particolare all’essere passato tra i succhi gastrici di alcuni zibetti indonesiani. Esatto: lo espellono proprio in quel modo là, facendone la deiezione più costosa al mondo dopo alcuni Ddl del Parlamento italiano.

A tale proposito (del caffè, non del Parlamento) vorrei condividere una ricetta, una notizia, una considerazione macroeconomica.

La ricetta, intanto. Prendete alcuni cubetti di ghiaccio e posizionateli in un bicchiere. Aggiungete un espresso. Mescolate il liquido freddo così ottenuto con un cucchiaio di latte di mandorla. Avrete ottenuto una corroborante bibita estiva che in Salento pagherete come un normale caffè. A Roma dovrete invece ordinare un “caffè leccese” e spenderete qualcosa in più, specie se vi avvicinate al barista con un accento eccessivamente nordista. Una volta giunti a Bologna, la stessa medesima bevanda diventerà “caffè mediterraneo” e vi costerà, in un bar del centro, 3 euro e 50. Al banco. A Oslo immagino ti rapiscano la famiglia e chiedano il riscatto.

Il fixing bolognese è preciso al centesimo. Questo perché il bar che serve il “caffè mediterraneo” è un gradevolissimo locale a pochi passi dalle Due Torri nel quale il vostro scriba ha spesso sofferto file interminabili, dacché colà preparano bevande eccellenti, in un ambiente elegante, selezionando miscele che possono arrivare a costare anche 5 euro a tazzina. In piedi. Per non parlare dei beveroni a base di caffeina. Tutti buonissimi, tutti dispendiosissimi, come nelle altre tre sedi, una delle quali nei Paesi Baschi. Inoltre, la miscela in questione è servita e venduta anche in altri locali. E non pare conoscere crisi: sul sito, basta cliccare su un link per candidarsi ad aprire un nuovo bar conto terzi.

La storia, ora. Quel bar, il mio bar, è andato su tutti i giornali per l’ennesima puntata di una fiction molto popolare in questa estate 2022: “Dipendenti da incubo”. Diceva, il titolare, di aver dovuto chiudere una sede secondaria, un chiosco, sempre in pienissimo centro, perché non trovava personale, e questo nonostante offrisse nientemeno che 1300 euro di stipendio mensile. Gli stessi che immagino percepiscano i giovanotti e le giovanotte che da qualche tempo, nella sede principale, hanno sostituito dipendenti più anziani, i quali delibavano il caffè con una cura a metà tra un assistente della Regina Elisabetta e il patriarca Kyrill quando distribuisce incenso o compulsa il proprio conto corrente.

La considerazione macroeconomica, infine. I commenti sulla vicenda davano per certo che la renitenza al lavoro fosse l’esito del Reddito di Cittadinanza ed è molto probabile sia così. Mi permetto però di suggerire un’ipotesi alternativa. A Bologna un affitto accettabile costa non meno di 700 euro (in centro, con quella cifra, ci prendi una camera per studenti. In nero). Un rapporto anche periodico col cibo implica una spesa di una decina di euro al giorno. Le bollette possono costare altrettanto. Ergo, al fortunato vincitore di un posto da mescitore di caffè, cui immagino siano richieste esperienza, competenza, governo delle lingue straniere, resterebbero in tasca all’incirca 0 euro. Sempre che non decida per un formativo pane e acqua che gli permetta ulteriori margini di manovra da investire in generi da diporto.

Ora, al netto delle responsabilità di chi voleva abolire la povertà di tutti e ha principalmente abolito la propria, non sarà che 1300 euro sono pochi? Non sarà che socializzare il rischio d’impresa con stipendi ridicoli disincentiva chi dovrebbe “mettersi in gioco” al posto di chi sostiene di farlo? Perché l’imprenditoria non è una passeggiata di salute: se la scommessa va in porto, il jackpot se lo tiene – giustamente – chi ha fatto la puntata. Quindi: per quale ragione un cameriere dovrebbe accollarsi le difficoltà di chi prima guadagnava moltissimissimissimissimo e adesso guadagna, a occhio, solo moltissimo? E infine: perché chi gioca nella Juve, e quel caffè è la Juve, dunque i biglietti costano come per la Juve, ed è giusto sia così, dovrebbe essere pagato come chi gioca nel Bologna? Non sarà che anche le imprese virtuose, e quella in questione immagino lo sia, si sono adagiate su una narrazione dominante pigra, forse persino tossica, oso: classista?

Propongo dunque una soluzione: dategliene 1500, di stipendio, e vedrete che vengono. Lo so, è semplicistico. Chiedo scusa. Forse odoro di realismo magico. Ma non ditemi subito di no. Lasciatemi il tempo di bere un caffè in ghiaccio con latte di mandorla. A Lecce. Ché ‘sto mese tocca anche pagare le tasse e non ci starei col budget.

Prosit.

Aggiornamento Subito dopo il propalarsi della notizia, il bar in questione ha annunciato di essere stato subissato da curriculum e che dunque terrà aperto. Praticamente, ormai, usano i giornali per non pagare gli annunci di lavoro. E hanno ragione: ci caschiamo sempre.

Imprenditori benefattori e lavoratori irriconoscenti: una guida

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Ieri mattina, ora di colazione. Consumo brioche e cappuccino. Prima di uscire mi avvicino alla cassa per salutare e quelli, a tradimento, battono lo scontrino: 3 euro e 10. Ovviamente sbotto: “E che, si fa così?”. Non comprendono. Allora spiego: “Lei mi chiede subito del denaro senza nemmeno informarsi sui miei interessi, sui miei progetti, sulla mia storia personale …”. Niente: “Tre euro e dieci”. “Ma lei lo sa la fatica che la mia famiglia ha fatto per me? Lo sa quanto hanno speso per farmi studiare? Io i suoi 3 euro e dieci voglio poterli reinvestire per il progresso del Paese”. Minacciano di chiamare la polizia. Dialogante, mi gioco l’ultima carta: “Guardi, facciamo così: adesso esco e alle prime tre persone che incontro dico che il cappuccino era ottimo e la brioche freschissima. Vi pago in visibilità”. A momenti mi menano.

Naturalmente non è successo, perché nessuno sano di mente (anche se questo non mi esclude dal novero) si permetterebbe di dar vita a una scena del genere. Eppure la leggete ogni giorno quasi ovunque, con parole molto simili. Cambiano solo gli attori: imprenditori e imprenditrici, l’ultima Tiziana Fausti, ramo fashion, che lamentano pubblicamente la proattività deficitaria di chi cerca lavoro, specie i giovani. Questi fannulloni chiedono subito quanto prenderanno, si informano sugli straordinari, su possibili weekend liberi. Invece di empatizzare con chi li assume, che magari si è fatto da sé semplicemente ereditando una valigeria di lusso nel centro di Bergamo.

Ora, non so come dirlo a Fausti e a tanti altri, ma la roba che dicono loro si chiama socialismo. E non nel senso di social. Prevederebbe però che si socializzassero anche gli utili, oltre alla fatica e al rischio di impresa. Ma siccome (se Dio vuole) ha vinto il capitalismo, funziona diversamente. L’imprenditore rischia soldi, salute e posteriore in cambio di denaro frusciante. Ove gli vada bene, ovvio. L’impiegato non insegue il jackpot. Dunque si regola di conseguenza. Soprattutto se normalmente gli si chiedono esperienza minimo trentennale nel ramo del fitness, almeno una laurea, due master, quattro lingue tra cui zwahili parlato e scritto, e il posto offerto è quello di office cleaning self developer, cioè addetto alle pulizie.

Certo, una via di mezzo ci sarebbe. Quella tedesca, dove lavoratori e imprenditori condividono il “goal”, come credo direbbe Fausti, in cambio di salari molto più alti – siamo l’unico Paese in cui gli stipendi sono scesi, da vent’anni in qua – e diritti che in Italia abbiamo progressivamente smantellato. Un fordismo alla teutonica che peraltro in Europa fu inventato dagli italiani, cioè da Adriano Olivetti. Uno che oggi passerebbe come un pericoloso comunista, fuori dal mondo, schiavo dei sindacati. E che, coinvolgendo i dipendenti, creandone il welfare, aveva divorato fior di aziende a stelle e strisce. Mica un benefattore.

Noi però siamo (non sempre, ma troppo spesso) la Repubblica dei Gianluca Vacchi. Talmente abituati a un ecosistema del lavoro tossico che ce la prendiamo coi giovani. Quelli cui abbiamo mangiato futuro e pensioni. E anche la voglia di farsi domande. Facciamocene lo stesso: se non si trova personale a termine per la stagione estiva, sarà mica che per 800 euro in nero al mese la gente sta a casa? Se c’è chi al Sud preferisce il reddito di cittadinanza a un lavoro, sarà mica perché il lavoro è pagato uguale e forse in nero? Se la gente si dimette in massa, sarà mica perché il loro tempo ha la stessa dignità di quello delle Fauci e sono stanchi di farselo pagare due spicci?

Non rispondete subito. Prendetevi qualche minuto. Intanto pago la colazione.

Uscita ieri su La Stampa