Al netto delle motivazioni certamente ottime per cui Carlo Calenda si alleerà con Matteo Renzi, cui fino a dieci secondi fa scriveva “fesso” sulla fiancata dell’auto con un punteruolo, l’incedere della campagna elettorale, sua e di altri, pone un problema lessicale su un tema specifico: l’estremismo.
Calenda mollerà il Pd usando come casus belli la possibile presenza, nelle liste collegate ai democratici, di due avversari che considera appunto estremisti: Sinistra Italiana e Verdi. Che sono partiti ma anche parole. Impronunciabili.
Sinistra Italiana, è innegabile, contiene il termine Sinistra. Diventato ormai, in questo Paese, sinonimo di esproprio proletario. Basti pensare che discutiamo da due giorni sulla cosiddetta Patrimoniale proposta da Enrico Letta, che non è una patrimoniale ma un contributo, sulla sola successione, e solo da parte degli italiani straricchi, da destinare a chi, per colpa della mia generazione e di quelle precedenti, si affaccia alla vita senza difesa alcuna: i nostri giovani. È un mandato della Costituzione, la progressività delle imposte. Eppure, nel comune sentire, nel racconto politico, nel giudizio sprezzante del Centro, certe cose non vanno nemmeno pensate. Figurarsi dirle. Renzi ha twittato ghignante che “bisogna morire gratis”. Il passo successivo è un cavallo di battaglia del suo alter ego leghista: la flat tax. Che è contro la Carta e non si potrà mai fare. Ma di quella, parlare si può.
A Fratoianni, leader di Sinistra Italiana, che fino a ieri conoscevamo in quattro, compreso Fratoianni, Calenda imputa di aver votato contro il Governo Draghi. Cioè di aver pigolato un messaggio identitario, di equità, all’interno dell’unanimità altrui. Quattro cose, sempre le stesse, che non prevedono l’invasione dell’Ungheria ma che, ad esempio, premevano ché Draghi confermasse la tassa sugli extraprofitti derivanti dalla guerra (Eni: lo Stato ne avrebbe ricavato tre miliardi). Cancellata, ovviamente.
Che Azione contribuisca alla narrazione vincente per cui i poveri devono limitarsi a invidiare i ricchi, a votarli, e a odiarsi tra loro, è del tutto legittimo. È il brodo di coltura in cui siamo immersi dal ’94, il conflitto d’interessi che si è mangiato il conflitto di classe, e ne siamo tutti permeati. Anzi: l’abbiamo esportato nel mondo. Ma il dato è che non tutti gli “estremismi” sono uguali: mentre la cosiddetta Destra Sociale sta per governare il Paese, il Centro mette il veto alla Sinistra Sociale.
In verità, Fratoianni ha risposto al diktat di Calenda – “Non candidatelo nel maggioritario” – in modo spiazzante: “Va bene”. Il che collide un po’ con la narrazione radicalissima cui è soggetto però, con quel simbolo rosso così sospetto, non lo dispensa dall’accusa di bolscevismo. La provocazione di assentire alle richieste altrui potrebbe essere uno dei soliti bizantinismi comunisti.
Ma se la Sinistra rappresenta una specie di mirino per i centristi assoluti, l’ostracismo per i Verdi parrebbe, a un primo e sommario esame, meno spendibile. Perché è vero che gli ambientalisti italiani hanno sempre trovato spazio nel cosiddetto campo progressista, ma attengono da sempre anche al mondo radicale, libertario, vicino più alla Bonino che alla cosiddetta sinistra radicale, dove per sinistra radicale si intende chiunque si opponga allo ius primae noctis. Trattasi di tema universale che tra l’altro porta pure denari a chi riconverte – c’era persino un ministro contro la transizione ecologica, all’ultimo giro – e voti da addirittura due categorie di elettori: chi ha a cuore l’universo mondo, e chi ha a cuore il proprio giardino.
Eppure anche questo tema, presente in tutte le democrazie del mondo, specie le più evolute, da noi risulta appunto estremista. Ci si chiede se vogliamo i condizionatori o la guerra invece di chiederci se vogliamo i condizionatori o temperature per cui non basteranno più manco i condizionatori. Da noi i moderati irridono i gretini, comunicando soprattutto ai più giovani che non c’è benessere senza distruzione dell’ambiente. Tanto – semplifico, ma mica poi troppo – sono affari di chi viene dopo. Un disastro culturale che irride l’idealismo dei giovani. I quali, ammesso che non cedano alla vulgata, si ritrovano davanti a due alternative: non votare, andarsene. E spesso fanno entrambe le cose.
Concludo il ragionamento citando un mio vecchio maestro, Michele Serra, irriso dalla Destra allorquando anche il Pds venne preso con le mani (due dita, va’) nella marmellata di Mani Pulite. Gli chiedevano per chi l’avesse fatto, di spendersi per un partito che era uguale agli altri. Michele rispose che l’aveva fatto per sé stesso, di girare le salamelle alla Festa de l’Unità. E gli bastava. Credo che analogo ragionamento andrebbe fatto nei confronti della ridotta elettorale pentastellata. Al netto di una classe dirigente disperante, anche quella che se n’è andata, anche quella transfuga con cui il Pd sta ragionando sui collegi, sicuri o no, c’è un 11 per cento residuo che è arrivato a casa di Grillo perché deluso dall’ignavia della sinistra riformista. È lì rimane. Confusamente, ma chi non lo è. Gente che, basta leggere i social, non si capacita realmente della porta presa in faccia dal loro partito (e di motivi ce ne sono, primo tra tutti l’insipienza di Conte) e che vede nel Pd la sponda fisiologica alla ricerca di una parcellare giustizia sociale.
Il repulisti di Grillo ha tolto di mezzo molti scappati di casa. Gli altri sono andati con Di Maio. Conte non può imbarcare Di Battista per ovvi motivi. Il centro alza barricate. Il quadro, insomma, pare molto fluido.
Uno come me, che col populismo ha incrociato e incrocerà i guantoni per sempre, coi vertici pentastellati farebbe fatica a condividere un piatto di lasagne. Ma siccome il percorso calendiano ricorda molto quello di Conte con Draghi – alzare la posta per rompere – il Partito Democratico pare essere a un bivio: ritrovarsi in pancia chi lo eterodirige da tempo, e lo aveva portato sull’orlo dell’estinzione, o ritentare una sintesi, anche speculativa, con una platea elettorale che gli somiglia, e con un tizio che pur di restare al Governo ha dimostrato di potersi alleare praticamente con chiunque.
Nulla di esaltante. Ma siccome lo scenario, al momento, sembra quello di decidere da chi farsi ricattare, tenere accesi i due forni ancora per un po’ significherebbe riprendere in mano il gioco, e ribaltarlo, da partito di maggioranza.
Da moderati veri, da punto di equilibrio, rivendicando come tratto fondante, centrale, proprio il senso delle istituzioni che in tutti questi anni ha abraso l’identità riformista del fu Partitone. Quel 23% somiglia al 40 di Renzi: è un bene rifugio. Per non disperderlo, o addirittura per farlo crescere, occorrerebbe riprendere in mano il pallino. Col programma in una mano, la calcolatrice nell’altro. Tanto, comunque vada, i centristi decideranno con chi stare – orbitare a sinistra, o scalare Forza Italia con ottime possibilità di successo – soltanto dopo.
Tanto vale, forse, assecondarli. E lasciarli marciare da soli.
Buona prosecuzione.