Perché l’addio alla politica di Renzi ha cambiato questo Paese

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Renzi, tour nel Mezzogiorno. Il film della giornata - Campania - ANSA.itDice: epperò hai l’ossessione di Renzi.

Non verissimo. Ne scrivo, ne parlo, lo cito al bar – quando è aperto – molto raramente. Però è vero: se gli attribuissi il peso che ha nelle urne dovrei evocarne le gesta molto più di rado. La Svp viaggia più o meno allo stesso livello di consenso e mica faccio battute sugli Schützen. Anche se… Sapete come fanno quattro Schützen a entrare in una Cinquecento? Non ci entrano: hanno un’Audi.

Dunque mi sono chiesto: perché periodicamente mi sovviene? Lascia stare gli hater che appena lo sfiori si attivano come richiamati da un misterioso (mica tanto) ordine di scuderia. Spesso faccio incazzare la gente ma non ho ansia da prestazione. Non scrivo per cercare insulti. Sarò strano: mi piace di più quando qualcuno è d’accordo con me.

Sarà mica, come dicono loro, che è antipatico? No. Tra l’altro sono antipatico pure io, dovrebbe piacermi. Le peripezie giudiziarie? Garantismo a parte, gliele rinfacciano solo La Verità e Travaglio. Dimmi con chi vai, eccetera.

Il punto allora potrebbe essere è che riciccia ovunque, e che col 2 per cento manovra mezzo Pd, il Governo, mo’ tresca pure con D’Alema, e, insomma, trovo la sua spregiudicatezza così poco familiare. Fuochino.

Credo di aver risolto l’arcano oggi, quando ho riciclato la battuta che faccio ogni anno il 4 dicembre: “X anni fa Renzi perdeva il referendum e lasciava la politica. Sarò impopolare ma ammetto che mi manca”. Un usato sicuro, che si basa su un dato incontestabile. Così incontestabile che la Bestiolina è rimasta silente. Un commentatore (vero) l’ha buttata su Bersani che l’aveva boicottato. Certo: infatti i prodromi di LeU e il loro tre per cento spostarono il 60 per cento dei voti. Un altro, invece, mi ha aperto gli occhi: “Meno male che non se n’è andato. Così si è schiantato subito”.

Ecco, credo nella debacle del renzismo il dato più faticoso sia la schedina vincente (la seconda) gettata nelle acque reflue. La dabbenaggine insistita. Lo scorpione che, attraversando il guado, punge sé stesso.

L’uomo trovò nelle urne il proprio Papeete elettorale. Come diceva Bauman, fece il passo più lungo della gamba. Capita. La politica è maratona. Ebbe l’intuzione giusta: mollare palazzo Chigi Poteva (doveva) rifugiarsi sul Monte Atos il tempo di essere dimenticato, e sarebbe stato richiamato a gran voce. Sotto lo Stellone, bisognerebbe scriverci “Aridatece il puzzone”. Voglio dire: abbiamo riabilitato Berlusconi che stava per mandarci in bancarotta…

Invece no. Invece volle andare al voto da leader, invece ci fece vivere il momento magico e terribile in cui Gentiloni al confronto sembrava un incrocio tra Obama, John Kennedy e Brad Pitt. Invece prese le “cose buone” e le ammantò di superbia, mentre tutti – tranne quelli che poi hanno fatto carriera nei due partiti che comanda – gli dicevano che no, che il passo indietro serviva a prendere la rincorsa, eccetera.

Oggi potrebbe sfidare Conte senza averne fatto nascere il Governo e alle prossime elezioni, invece che Salvini e la Meloni, probabilmente vincerebbe il centro-centro-centro-sinistra. Ma non andrà così. E anche questa sconfitta avrà il marchio della cupidigia dell’uomo che volle farsi imperatore quando era re.

Ecco perché, ogni tanto, ne tratto.

Perché poteva mancare. Invece è mancato.

Perché in Italia è moralmente accettabile non pagare le tasse

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Toy, cashregistertoy, supermarketcashtoy, babyampkidI teppa-economisti sono asserragliati nelle diverse coalizioni e dicono cose sovrapponibili.

L’ossessione tipica è il comunismo. Figurarsi ora che Orfini (noto discendente di Andropov) ha provato a far passare una mini-patrimoniale che non si farà mai, in omaggio alla banale ratio che in mezzo a una devastazione economica parrebbe plausibile un contributo da chi ha di più. Tra l’altro, i contrari alla cosiddetta patrimoniale sono gli stessi che volevano imporre un contribuito Covid agli Statali sulla base dell’evidenza, così dicevano, che sono tutti fancazzisti privilegiati.

Tu guarda a volte la prospettiva.

Due cifre: su un patrimonio di 500.000 euro si pagherebbero circa 200 euro all’anno. Un amico giornalista mi ha fatto notare che l’abitazione dei suoi genitori vale proprio quella cifra. E non sono ricchi. Mi permetto di far notare che: il valore catastale è normalmente molto più basso del reale ma, soprattutto, che parliamo di 8,33 euro al mese. Oso pensare che, vivendo in una casa da un milione di euro, non sia impossibile racimolarli

Il punto è che i teorici dello Stato predone, dell’evasione di necessità per cui è necessaria anche la vacanza a Cortina esattamente come l’anno scorso, quando la situazione economica era un po’ diversa, si giovano di folle plaudenti che potremmo dividere in due macro-categorie: i consapevoli e non.

I “non” non hanno a che fare col fatturato non dichiarato. Sono invece coloro i quali affrontano REALMENTE la crisi e hanno titolo per prendersela con lo Stato e le sue storture. A loro volta, sono suddivisibili in due categorie: quelli che hanno sempre provato a essere in regola col Fisco e quelli che, preso atto del sistema inefficiente, hanno pensato bene di difendersi evadendo. Entrambi sono comprensibili nella loro ira, ma giustificherei (chiedo scusa) solo i primi.

I consapevoli sono quelli che se ne fottono. Quelli che temono una patrimoniale sopra il milione ma risultano nulla o scarsotenenti al Fisco. Quelli a cui noi fessi paghiamo ogni giorno i servizi dei quali, tra l’altro, si lamentano. Quelli che hanno contribuito coi loro comportamenti al cosiddetto “stato di polizia fiscale” che in realtà aggrava il peso su chi le tasse le ha sempre pagate. Di più: i consapevoli dicono che così facendo “qualcuno esporterà i propri all’estero”. E di solito lo dicono da Berna.

Il punto è che finché i “non” non capiranno che il loro nemico non è lo Stato (che si cambia, non si abbatte) ma i consapevoli, che il ladro non è chi chiede ciò che è legittimo, magari in modo maldestro, ma coloro che non pagano le tasse e ti svuotano il portafogli di servizi e di legalità, finché ci sarà qualcuno che a frasi semplici come “pagate le tasse” oppone il cui prodest, chiede ricette, dice che “sì, abbiamo cento miliardi di nero però…”… ecco: il problema è il però.

Però, se consentite, ci saremmo anche un po’ rotti i coglioni di regalarvi un Paese vagamente contemporaneo mentre lo trascinate nel suk. E date pure la colpa a chi sta alla cassa.

Un abbraccio.

Ma se invece di insultarmi mi chiedeste il voto?

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Italia Viva si intesta la battaglia sulle tasse per uscire dal ...La Bestiolina renziana ha in comune con quella originaria il fatto che paghiamo noi, con un posto al ministero, il suo ideatore. Ma funziona molto peggio. Se quella di Salvini ha contribuito in modo determinante al successo leghista, quella vivaista compatta i pochi adepti contro i presunti nemici ma non porta un voto. In modo acritico, controproducente, totalmente applicato alla difesa infantile del leader.

Per dire: io voterò no al referendum, come i vivaisti. Trovo futili le polemiche contro la casta perché la scelgono gli elettori, come loro. Sto sul cazzo a Travaglio, come loro. Sono europeista e faccio finta di credere che lo siano pure loro, anche se ai tempi del Governo Renzi le parole d’ordine sull’Ue erano vicine a quelle leghiste: “Cambiamola”, “devono ascoltarci”, “battiamo i pugni sul tavolo”, eccetera. Ho criticato o perculato sia i pentastellati, in ogni salsa, che i populisti e/o sovranisti, di ogni ordine e grado. Ed è per questo che talvolta la retorica vivaista, simil grillina, mi spaventa. Anzi: mi spaventerebbe, non fosse che stanno al due per cento.

Possiedo inoltre un’età, una fortunata dichiarazione dei redditi, un retroterra culturale, una moderazione vetero-comunista (italiano) o neo-prodiana, per cui un eventuale partito di centrosinistra inclusivo, dopo che il Pd è stato raso al suolo non ricordo da chi, e ora traccheggia alla ricerca di un’identità che i suoi elettori per fortuna ancora possiedono, potrebbe essere la mia tazza di tè.

Traduco: invece di passare il tempo a coordinare gli hater, ogni volta su un miliardo che mi occupo di voi, dovreste chiedermi il voto.

Invece no.

Invece la torre d’avorio (lo sgabello, va’) in cui avete rintanato voi e i vostri elettori, prevede la ricerca del nemico anziché quella del consenso. Solo che unire gli italiani contro i migranti è un filo più facile che andare a rompere i coglioni sotto i tweet di persone peraltro politicamente diversissime come i Bottura, le Geloni, gli Infelise, i Robecchi. Nessuno candidato al Nobel, tra l’altro. E manco al Pulitzer.

Per cui, con l’affetto che si deve al cugino cinquantenne a cui vuoi bene anche se si è comprato il Suv da sei metri, mi permetto un modesto consiglio: fate politica. Ma vera, non le alchimie di palazzo per cui fate nascere (meritoriamente, evviva) governi sui quali spalare letame ogni dodici secondi per questioni di piccolo cabotaggio poltronaro. Se siete irrilevanti, infinitesimali, aghetti della bilancia che in caso di elezioni dovrebbero aprirsi un chiringuito a Rignano, è solo perché dall’energia artefatta ma efficace della Leopolda sono passate ere geologiche.

L’unico collante al momento sembra un machiavellismo al lampredotto tenuto insieme col Vinavil del potere. Finché c’è. E se per voi dirigenti non cambia nulla, perché ci sarà sempre uno yacht sul quale fare un selfie, una foto in copertina, una conferenza strapagata da un Paese dittatoriale a caso, l’influsso nefasto che avete sulle persone, su quelli che alla Bestiolina credono, e sulle possibilità di una forza moderata decente cui ancorare un minimo di modernità, avvelenerà i pochi pozzi puliti rimasti.

Dovessi sintetizzare, e vale anche per il resto della combriccola in Azione, direi: moderati, moderatevi.

Magari prendete pure qualche voto in più.

Un caro saluto.

Per vincere domani: riflessione pleonastica su Emilia-Romagna, Pd, ed errori da non ripetere

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(ANSA – VITELLONI) Stefano Bonaccini quando ancora non vestiva Dolce & Romagna

Prendere se stessi come baricentro di un’analisi politica è sempre un errore, ma spero di potermi consentire un’eccezione.

RIguarda l’esito del voto in Emilia-Romagna e il riverbero nazionale che sta cagionando, così simile al voto europeo del 2014 che devastò per anni il campo progressista, favorendo una serie di sconfitte dalle quali tuttora, con l’agilità di Frankenstein Junior, il centrosinistra tenta a fatica di rialzarsi.

Quel voto, il famoso 40 per cento e rotti, era figlio della sberluccicante speranza renziana, della luna di miele col fresco carnefice di Letta, ma anche (soprattutto, nel mio caso, che oso ritenere non isolato) del vero e proprio terrore di ritrovarsi travolti dal sorpasso grillino e da un MoVimento Cinque Stelle a far danni ancor prima del previsto. Erano i giorni in cui l’avanzata di Casaleggio Associati sembrava ineluttabile e Grillo rivendicava il test continentale come l’inizio della fine: non di un governo, ma della democrazia rappresentativa.

È l’ultima volta che ho votato Pd.

L’esito anabolizzato cosparse sull’allora presidente del consiglio un velo di presunta onnipotenza che lo portò dritto allo schianto, al referendum su se stesso, alla gestione del Governo come un potere sospeso tra Rifredi e Fiesole, alla svolta blairista senza Blair, alla rottamazione non già di una classe dirigente – anche: sostituita in massima parte da mezze figure di complemento – ma soprattutto di quel Dna catto-riformista che aveva sospinto la nascita del partito democratico.

Si voleva superare non già il Pci, ma il Pd, con la prospettiva di un movimento personalistico.

La vittoria di Bonaccini è per certi versi sovrapponibile, con un catalizzatore evidente (le sardine) a sottolinearne lo spirito emergenziale, la risposta di popolo all’invasione di un modello, la necessità di contarsi fisicamente, prima in piazza e poi nei seggi.

Invece è già discussione sul modello. E il pur ottimo Bonaccini, il cui principale difetto sono probabilmente gli occhiali rubati ad Antonello Venditti, considera con un entusiasmo forse eccessivo il proprio indubbio risultato personale.

Semplifico: ha vinto lui, ma abbiamo vinto soprattutto noi. E ha vinto, anzi: è stata decisiva, anche la cosidetta “sinistra radicale” che pure lui, nella fretta con la quale ha liquidato il trionfo – vero, senza un partito – di Elly Schlein, sembra indirizzare verso un marginalismo politico che non corrisponde, al netto del 4%, a un marginalismo culturale.

Le sardine sono nate – anche – per il disagio di vedere la sinistra moderata abbandonare le proprie battaglie identitarie: antifascismo, impegno sociale, attenzione per i meno rappresentati. In poche parole: un modello di società più decente di questo.

Nella sua intervista a Repubblica, Bonaccini ha giustamente ammonito alla necessità di azzerare le correnti del Pd e di non elevare il successo “difensivo” di casa nostra a modello nazionale. Eppure, se qualcosa di quel modello è replicabile, sta proprio in ciò che il Partito Democratico, incredibilmente, sembra ancora escludere: aprirsi, recuperare energie anche dai campi contigui, abbandonare non solo il correntismo ma soprattutto il settarismo che porta alcuni “partiti fratelli” a identificare nella competizione col Nazareno il proprio principale obiettivo.

Il partito del 40 per cento è al 4 e detta le condizioni, facendo opposizione al Governo che ha di fatto creato per garantirsi un’indispensabilità che al momento pare avvertita da una sparuta minoranza. Si ripartisse da lì, dalla sbornia per le cifre e dai diktat degli ultimi giapponesi del Ciaone, beh, sarebbe davvero un peccato.

La gente era e sarà in piazza per altro.

 

Dal grande fiume al cielo: in morte del Kaimano Renzo Finardi

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Risultati immagini per renzo finardiIeri ho fatto un salto a Viadana a salutare Renzo Finardi, il Kaimano del Po.

Non ero amico di Renzo, non in senso stretto. L’avevo conosciuto tramite Bengi, di cui era il fido batterista. E mi aveva colpito perché sembrava vivere in un altro mondo. E quel mondo era, di rimbalzo, il mio. Il fiume. Il grande fiume che i miei antenati mantovani guardavano con paura o speranza, e che per lui era vita e rifugio.

L’altro giorno, per celebrarlo, Daniele, mi scuserà se lo chiamo col nome all’anagrafe, ma quello che parlava ieri dal pulpito era Daniele, non Bengi, ha pubblicato un video del Kaimano che raccontava sé stesso, di quando andava a spargere il bitume sui tetti, prima, e di quando, poi, la sua passione con le bacchette era diventata un lavoro, gli aveva regalato la felicità, perché viveva di quel che amava, e l’aveva infine portato al soglio più alto: il successo coi Ridillo e la tournée insieme a Gianni Morandi. Che era lì anche lui. Perché Gianni è così.

Diceva, Renzo, che non erano tanto i soldi, la fama, la f**a – non lo diceva, ma credo lo pensasse – la vera svolta era che quando arrivava in teatro, per suonare, la batteria era già lì montata. E non gli sembrava vero che qualcuno l’avesse fatto per lui. Perché il frontman a fine concerto mette via la voce. Il bassista, il basso. Il trombettista… ci siamo capiti. Chi pesta sui tamburi, invece, di solito si mette a smontare ogni pezzetto. E intanto pensa. E medita, anche se magari le scuole non erano proprio il suo luogo di formazione. E diventa a suo modo un filosofo. Anzi, senza “a suo modo”.

Tempo fa mio nipote aveva guai proprio con la scuola. Un giorno fece a botte, rischiò la cacciata. Allora me lo caricai in auto e, senza apparente motivo, lo portai sul Po per prendere aria agli occhi. C’era il Re del Po, un tizio felliniano, anzi: zavattiniano, che prende il legno quando si spiaggia sulla riva e lo inchioda, ne fa percorsi sospesi. Li regala a chi vuole giocarci. Ogni tanto arriva qualche bullo, qualche ‘ndranghetista, e glieli brucia. Lui ricomincia.

E c’era Renzo. Che era lì da lui. E che insistette per portarci sull’altra sponda del Grande Fiume a vedere il suo capanno, a offrirci un bicchiere, a mostrarci come si era organizzato per ammirare quel posto della mente che non era solo della mente.

Ieri ho scoperto che mio nipote aveva rischiato di finire in acqua, perché il Kaimano faceva così, prendeva la progenie degli amici e la buttava in acqua. Una sorta di rito, tipo stare sul Gange, coi pesci siluro al posto delle mucche. Ma per fortuna del mio ragazzo, era inverno.

Quando gliel’ho detto, ieri, a mio nipote, che il Kaimano aveva smesso di suonare, ha sorriso mesto: “Me lo ricordo. Fantastico. Un pazzo”.

Un pazzo, un signor musicista, anche, un battutista efferato e dolcissimo, uno di noi: che abbiamo tanta di quella pianura negli occhi che quasi non dovremmo avere niente da sognare. Forse per quello saliamo sui tetti, bitume o no. Ma qualche volta abbiamo una forza che ci spinge giù per correre dietro alla felicità.

Finché si fa prendere.

Grazie Kaimano. Insegna agli angeli a nominare il nome di dio invano.