Il sottogoverno dei sottomigliori: una chiave di lettura

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Grisù e il fuoco della creatività… | YAB

(ANSA – PAGOT) Draghi

Grisù e il fuoco della creatività… | YAB

Se avessi un giornale su cui farlo, oggi scriverei qualche riga sull’infornata di sottosegretar*.

Direi, con un giro di parole da elzevirista, ché sulla carta l’arzigogolo è spesso necessario, che mi è caduta la faccia per terra.

Sosterrei più o meno che non è tanto la qualità spesso indecente di alcuni dei nominati (e quella dei defenestrati, in primis la mite e preparata Sandra Zampa) a sgomentarmi. Ma l’impianto complessivo che è una sconfitta per la politica. Per chi l’ha votata a vario titolo, dunque è più direttamente corresponsabile di questa specie di Guernica, sia per chi non se ne sente rappresentato. Dunque subisce e basta.

Direi che il punto sta anche, certo, nell’aver messo ai servizi alla Difesa una che voleva bruciare i migranti, alla Cultura una che si proclama analfabeta, alle infrastrutture un’esperta di agricoltura, agli Interni un complottista che fa sparire i post contro Draghi, all’Economia quella che la dice lei, ma la dice sbagliata. Il guaio è più ampio.

Il guaio è che le ipotesi sono, diciamo, tre.

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La prima è che Draghi, applicando il Cencelli, abbia ceduto plasticamente alle richieste della maggioranza che lo sostiene. Una maggioranza Arlecchino, più che Ursula, della quale fa parte anche il tizio che firmò i decreti sicurezza e ora torna al Viminale. Immaginatevi con quali obiettivi. Una scelta, quella del Premier, che poi non si dice Premier ma a ‘sto giro è lo stesso, di piccolo cabotaggio. Che ne indebolisce il prestigio già ora. Un Supereroe che sta ai detti di Mister Papeete non s’è mai visto.

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(ANSA – ABACO) Carlo Sibilia mentre si chiede che fine abbia fatto il sesto dito

La seconda opzione è più fisiologica. Draghi è stato a lungo, ed è ancora, il Migliore che potevamo giocarci. Ma è un migliore che attiene a una cerchia. Di quella cerchia fanno parte alcune eminenze economiche che si sostanziano in nomi e milieu precisi. Al di là di Cavour, siamo nel campo – chiedo scusa per il Novecentismo – della Destra presentabile italiana. Draghi non è Ciampi e non è nemmeno Monti. Per certi versi è Conte (stessa provenienza, lombi infinitamente meno nobili) e infatti maltratta “quelli che ci fanno tanto divertire”. Se potesse essere il leader di uno schieramento moderato, probabilmente lo voterei pure. Ma non è uno schieramento di tutti. Tanto che nel Cencelli a pagare sono, plasticamente, le superstiti forze progressiste.

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Il terzo scenario è il più probabile ma anche il meno commestibile: Draghi dei sottosegretari se ne batte altamente (sul giornale avrei scritto: “non ne ha nemmeno contezza”) e dunque ha lasciato campo libero ai partiti perché tanto poi manovrerà personalmente, whatever it takes, l’unica emergenza che ritiene importante: la gestione dei 209 miliardi. Con passo sicuro, peraltro: i grillini non sanno di cosa si tratti, la sinistra democratica lascia fare, gli altri si sono messi a tavola con le migliori intenzioni. Tanto paga Bruxelles.

Se avessi un giornale su cui scriverlo, sosterrei che il “governo dei migliori” (in greco: Aristocrazia) è il dominio di un uomo degnissimo sulla pletora scomposta e interessata della classe sociale che, anziché guidarne gli esiti come accade altrove, ha distrutto questo Paese: la Borghesia. La quale, non a caso, esprime questa poltiglia parlamentare che il cosiddetto popolo ha ben volentieri votato.

Direi che se dovevamo uscire dalle sabbie mobili, le abbiamo appena scelte come sottogoverno. E che mi auguro perciò che Draghi possa issarsi su sé stesso per evitare ulteriori danni, magari aggrappandosi all’unica fune stentorea che questo Paese possiede: Sergio Mattarella.

Sperém, concluderei.

La mia lettera di scuse a Giorgia Meloni

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Risultato immagini per meloniOggi, se avessi un giornale su cui farlo, scriverei una lettera a Giorgia Meloni.

Le racconterei di come sentirLe dare della scrofa da un signore che appartiene al mio album di famiglia mi abbia ferito come se l’avessi fatto io.

Le ribadirei la solidarietà per le parole sessiste (e classiste) che le sono piovute addosso da un barone, chiedo venia, che crede di conoscere chi lavora perché ci va a comprare il pesce. Dunque pare non abbia grande empatia per gli umili che dovrebbe in qualche modo rappresentare e, per traslazione, neanche per mio padre ferroviere e mia madre prima contadina e poi operaia.

Al bar Casablanca.

Direi che non m’importano le querele temerarie che ho sul groppone da parte di Fratelli d’Italia o altre modalità meno dirette di intimidazioni giudiziarie: certe battaglie di civiltà non hanno bandiera, non hanno colore, non hanno tempo. Non hanno appartenenza.

Spiegherei che poi non è un caso, o almeno non sembra più esserlo, se il partito che un tempo, in parte, mi rappresentava, si dimentica non tanto di inserire donne del Governo, ma soprattutto di condividere pari opportunità di carriera politica senza che debbano per forza attaccarsi al carro, o a più carri, antitetici, sempre guidati da un maschio.

Le direi: Giorgia, scusaci.

E aggiungerei che adesso è il momento per farli insieme, certi percorsi. Che valgono allo stesso modo per le Boldrini, le Segre, le Boschi. Ché per fortuna l’orologio della Storia va avanti: io stesso feci vignette che all’epoca mi sembravano niente più che un calembour politico, su Meb, ma erano sbagliate non per la malafede, che non c’era, ma perché incidentalmente insistevano su un aspetto di genere. Che va considerato anche quando si fa satira.

E concluderei, senza metterci un “però”, prima, che c’è anche un clima complessivo da cui uscire. Un clima di odio sistematico che investe categorie ritenute altre dalle proprie. Siano esse donne, stranieri, lavoratori, avversari politici, i cosiddetti “buonisti”. E che quel clima, da una ventina d’anni, è infinitamente più radicato nel campo politico dal quale la Meloni viene. Sul quale Meloni e Salvini hanno lucrato. Perché le parole sono pietre. O possono diventarlo. Ed è sempre un bel giorno il giorno quello in cui ce ne si accorge.

Festeggerei insomma una presa di coscienza del tema. Del liquame identitario, di un’identità qualunque, basta che sia contro qualcuno, che ha avvelenato i pozzi di questo Paese. Della violenza verbale per il consenso usata con troppa leggerezza. Su molti fronti, ma su uno in particolare. Direi che da oggi nessuno potrà mai più insultare Meloni perché donna, per come si esprime, perché non si condividono le sue idee dacché persino l’Anpi (l’Anpi!) le ha espresso sincera solidarietà.

Se dal letame nascono i fior, questa vicenda rappresenta in nuce una catarsi. Il giorno in cui la più amata dagli italiani disse che per essere italiani migliori l’odio non serve. Ripartissimo da qui, non sarà stato un sabato inutile.

E mi scusi, ci scusi ancora.

Questo, se avessi un giornale su cui farlo, scriverei.

Una riflessione noiosa su social, doping, Schwazer e meraviglie della radiofonia

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Risultato immagini per mentanaAnni fa, alla presentazione dei palinsesti de La7, Geppi Cucciari introdusse così, ai giornalisti presenti, Enrico Mentana: “E ora un uomo che è un vostro collega ma crede di essere un MIO collega”. Era un omaggio irriverente alla nota passione dell’uomo per la battuta, che frequenta da sempre in ogni luogo e in ogni lago. Siccome però gli anni passano, le mamme imbiancano, le maratone consumano, stamane a Forrest, con LaLaura, la stessa identica persona si è prodotta in un elogio della riflessione che ha appena sostanziato con un podcast e con l’approdo del suo quotidiano, Open, su Twitch.

Ora, lasciamo perdere che io Twitch manco so cosa sia, tanto che ne ho fatto appunto battuta (“Studio Aperto sta per sbarcare su Tinder”) ma mi ha colpito, nella riflessione mentaniana sulla parola ragionata, un dato oggettivo: Twitter è vecchio e, più in generale, i social basati sul “qui e ora” stanno invecchiando molto precocemente. Mentre la cara e vecchia tradizione orale – pensate, né io né Mentana abbiamo ceduto al doppio senso – rimane necessaria. Come se avessimo bisogno di un racconto. Per capirci: Twitch, ma anche Clubhouse, altro non sono che costole della radio. Che è da sempre il mezzo più moderno. Perché a differenza della tv, è orizzontale. Assomma e non divide. Racconta, non spezzetta. Vive di curve e non di picchi.

Ogni tanto lo dico, al mattino, di quanto mi senta privilegiato ad aver conservato un angolo (e che angolo, e in che piacevole compagnia) di libera e quotidiana espressione. Ma fino ad ora avevo colpevolmente sottovalutato quanto sia decisivo e pervasivo il mezzo. Quello che in fondo amo di più. La radio, tra l’altro, ha un pregio enorme: contestualizza. Crea una sorta di immunità di gregge del pensiero, ove la si frequenti col dovuto rispetto, che salda un patto tra chi la fa e chi la ascolta. Non succederebbe mai, per fare un esempio di oggi, che qualcuno vada ad estrapolare un tuo vecchio tweet sul doping di Alex Schwazer (del quale oggi, tutti, festeggiamo la resurrezione) per anabolizzare il confronto, metterti al centro, additarti da eretico, esibirti all’insulto. Qualcosa che era vero anni fa non smette di esserlo ora che la catarsi è compiuta, che il diritto al riscatto di chi sbagliò è sopravvissuto al complotto di chi non voleva accettarne la redenzione.

ImmagineSi può aver usato sostanze illecite, si può (si deve) aver diritto all’assoluzione quando qualcuno, in un caso diverso, ha costruito prove contro di te.

Ma c’è un altro dato, forse più cogente. Io, quel tweet, non lo rifarei. Era probabilmente, un po’ come molti cinguettii, figlio di un altro doping. Quello del consenso. Tra i molti difetti mi riconosco una certa onestà intellettuale, al limite del masochismo da perdita del posto. Ma, come tutti, mi capita di scrivere qualcosa pensando di intercettare lo spirito del tempo. E, dunque, qualche consenso. Mi muovo anche io, come molti di noi, secondo regole che valgono solo per la rete e che mai adopereremmo in pubblico. Ché quando parli passano tutte le sfumature. Ma quando scrivi, è un attimo a salire in cattedra. Giudicare. Esagerare.

Dovrei essere amareggiato, per gli insulti che mi sono piovuti sul groppone per un vecchio tweet (nel quale peraltro me la prendevo pure con Paolo Rossi, citato come eroe negativo causa scommesse, uno che post mortem è risultato essere molto più che un bravo cristo). Invece alla fine sono quasi contento. Perché chiudono il cerchio iniziato la mattina ospitndo un altro “battutista” non dico pentito, ma riflessivo.

Risultato immagini per bottura radioDirò ugualmente le mie cazzate, le mie sciocchezze, scriverò ugualmente le mie battute (riuscite e no) armate solo dalla buonafede. Cercherò di capire cosa accidenti sia Twitch. Ma spero di continuare a crescere, migliorare, trovando alla fine un suono che mi somigli ancora di più. Anche per iscritto. Ché davanti a un microfono non mi spaventa quasi nulla. Anzi: davanti a un microfono, specie adesso che ho lasciato spintaneamente il giornalismo quotidiano, sono profondamente felice.

In gloria di Corrado Augias. A maggior ragione oggi

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Caro Augias, sulla laicità continui a sbagliare | Giuliano GuzzoIl can can contro Corrado Augias sui social è la perfetta rappresentazione di un Paese che si esprime a rutti.

La rivincita degli ignoranti, dei bulli, semplicemente delle teste di cazzo risuona monocorde e piuttosto plumbea come in quel bel libro, “L’uomo verticale”, nella trama del quale ci siamo infilati da diverso tempo. Prima a passo spedito, ora di corsa.

L’accusa al giornalista-scrittore, lo sfottò violento, la gioia perché è stato vittima di un tentativo di phishing e non se n’è accorto, anzi ne ha scritto nella rubrica delle lettere sul suo giornale, è l’ennesimo atto liberatorio di chi in realtà non deve liberarsi di nulla perché sempre e comunque fa l’accidenti che vuole. In foltissima compagnia. Come sempre, rivendicando di essere fuori dal coro.

Augias viene trattato come una sorta di solone arrogante “che dice la sua su tutto”. Come un tizio offensivo e pedante, sempre. Come la vittima che si merita quel che gli capita “così impara a pontificare”.

Che poi sia una persona mediamente pacata, ancorché – oddio – spiritosa. Che abbia opinioni e non tema di esprimerle. Che, semplicemente, abbia letto più libri di tutti i suoi stolti carnefici e per questo lo chiamino a discorrerne, magari con lo sguardo dritto e aperto nel futuro, risulta (agli occhi dei mediocri violenti) una colpa intollerabile. Quasi quanto quella di essere vicino ai novant’anni. Gente che non schioderebbe dalla propria sedia manco morta, avendola ricevuta chissà come, sproloquia di meritocrazie e altre categorie che mai ha frequentato.

Non ho un giornale per esprimere la mia solidarietà a Corrado Augias, peraltro lasciato solo (come rilevato da Costanza Rizzacasa d’Orsogna) in una valle di lacrime nella quale i tagli dei giornali sguarniscono le catene di controllo. Perché l’informazione decente costa. E chi la produce tratta i bilanci come se si occupasse, con tutto il rispetto, di tondini in ghisa.

Ma lo faccio con tutto il cuore. Per lui, per il giornalismo decente, per la memoria di questo Paese. Voi che ne godete, siete vigliacchi. E, anche in questo, assolutamente coerenti.

Hasta forse, Corrado.

E alla prossima rubrica.

Una cosa lunga e noiosa su cosa mi piacerebbe fosse la Sinistra in questo curioso Paese

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Il Pd sbanda pure all'opposizione, Zingaretti e Renzi pari sono | L'HuffPost

Renzi ha ragione.

La “cabina di regia” contiana è l’idea di chi ha della democrazia un concetto turistico (cit.) ed è abituato a leadership cooptate. Culturalmente, viene dal partito di cui il Presidente del Consiglio è espressione. Lì, al netto del rivendicato egualitarismo, esiste una cerchia di prescelti che, combinata coi “tecnici” di area, ossia quelli che normalmente hanno superato almeno l’esame all’istituto alberghiero, sorvola ed esautora la fanbase – nel nostro caso, il Parlamento – poiché la riconosce inadeguata, incompetente.

Se Berlusconi portava in politica un’idea aziendalista, verticistica, dunque totalmente isolata dai meccanismi democratici (in azienda decide uno, e uno soltanto), quella dei casaleggesi è più vicina al socialismo reale. La dittatura del popolo. Una democrazia diretta in cui un satrapo, solo, cala le decisioni. Una fattoria degli animali. Anzi, più letteralmente, una factory.

Naturalmente Conte non ha ambizioni dittatoriali. Si è trovato a gestire questo considerevole troiaio (come credo dicesse Churchill) e fa quel che può e sa. Cioè poco. Uno che ha Casalino come spin doctor è conscio, nel profondo, di poggiarsi su fondamenta di argilla. La torsione autoritaria non è tale principalmente perché non alberga nelle intenzioni di chi dovrebbe operarla. Ma è del tutto evidente che un commissariamento del Governo sarebbe pericoloso.

Perché?

Perché viene dopo lo svuotamento di legittimità del Parlamento. Operato da chi, negli anni, ha governato con le regole del maggioritario estremo senza mai (mai) averne la legittimazione popolare. So bene che siamo una Repubblica Parlamentare. E che quindi il mantra grillino del “non eletto da nessuno” è vuota propaganda. Resta che, da Monti in poi, da quando cioè una situazione straordinaria portò al commissariamento di Lega, Forza Italia e Alleanza Nazionale, da quando cioè Giorgio Napolitano regalò a Berlusconi il tempo di rialzarsi e a Grillo quello di organizzarsi, il migliaio tra deputati e senatori è definitivamente diventato un timbrificio gestito da nominati.

Ma se questo è accaduto si deve principalmente alla responsabilità degli esecutivi successivi. Dei governi che hanno stravolto la dialettica parlamentare a colpi di Fiducie. Di chi ha blindato il palazzo dopo averne espettorato gli anticorpi del dialogo. Di chi ha consolidato una prassi per cui l’Aula è sostanzialmente una passerella per i collegamenti tv del question time.

Conte 1, cioè. Ossia Salvini e Di Maio. E Matteo Renzi.

Che l’ex Presidente del Consiglio sia diventato, oggi, alfiere del parlamentarismo, risulta anacronistico come un Briatore che inviti a versare l’Irpef. Ma questo è normale. Renzi ha molti pregi “politici”, quasi quanti i suoi sponsor pesanti, nascosti dall’enorme ego in cui risiede. La spregiudicatezza è certamente il principale. Gli manca una strategia, come hanno dimostrato i rovesci ripetuti degli ultimi anni. Ma è maestro di tattica. Per riacquisire centralità sarebbe capace di dire o fare cose di Sinistra. Anzi: l’ha già fatto. In passato.

Meno scontato è che il Pd ne sia ritornato completamente succube. Che lo usi come testa di ponte per manovre anche legittime che però, una volta di più, rimuovono un dato non trascurabile: il consenso. Il quale pare sia necessario per raggiungere un obiettivo che le forze progressiste non conseguono dai tempi di Romano Prodi: vincere le elezioni.

In questa traversata nel deserto che la Sinistra riformista compie con un agio imprevisto (governa) manca totalmente la percezione dello scoramento attivo che pervade il proprio popolo residuo. Le uniche tornate elettorali vincenti del recente passato derivano dalla paura di finire nelle mani di una qualche scappata di casa telecomandata da Salvini. Ma sono stati sempre e comunque voti difensivi.

Vederli agire, ora, con logiche da Prima Repubblica, leggerne le convulsioni alla ricerca del riequilibrio, del rimpasto, del predellino da cui disarcionare compagni di strada certamente modestissimi, vederli perseguire logiche che neanche Forlani ai bei tempi, e tutto mentre il loro popolo si rintana ogni giorno di più, risulta oggettivamente frustrante. E irrispettoso del loro capitale umano. Sul quale potrebbero investire, proprio come le aziende che, in tempi di crisi causa Covid, mettono sul piatto le risorse residue per rilanciarsi. O almeno dovrebbero farlo.

Il Partito Democratico, invece che baloccarsi con questioni di leadership, dovrebbe sfruttare i due anni che mancano al voto – Francia o Spagna, una maggioranza si troverà – per lavorare sulla propria identità. Dovrebbe prendere dal machiavellismo renziano il solo dato che gli manca: stare al Governo agendo come se ci fossero altri, quasi manifestando il disprezzo per la sbobba che si è costretti a ingoiare, e puntare (al contempo) a blindare la propria identità. Partendo dal dato che c’è uno zero di differenza. Cioè che la macchina del consenso vivaista, vincente ed efficace in ambiti apparentemente opposti come i social e gli uffici che contano (quelli degli Ad, o le redazioni dei giornali) ha il 2 per cento dei consensi reali. Zingaretti, che ci creda o no, il 20. È quello, il predelino, cristallizzato, su cui innestare quattro idee di buon senso, anche apparentemente impopolari, che trasformino gli elettori asintomatici in veicolo di contagio.

Prima però vanno ascoltati. Cercati, e poi ascoltati. Coinvolti in uno stato generale permanente, scovati nelle loro comode case, strappati alle loro librerie ben fornite. Rigenerati.

Anche se l’alternativa c’è: cedere alla scalata ostile di Italia Viva, stringersi alla coorte di un centro reazionario che inglobi anche i “responsabili” di Forza Italia, gettare benzina sull’inevitabile incendio populista che scaturirà, in assenza di un colpo d’ala, dalle urne, e condannare un italiano su cinque a perdere definitivamente rappresentanza.

Dall’opposizione. E senza aver mai governato per davvero.

Fate il vostro gioco. Ma presto.