Un bar chiamato contentezza

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Ho appreso che si chiamava Giuseppe quando ho letto che se n’era andato poco prima dell’anno nuovo.

Ma lo conoscevo benissimo.

E lui conosceva perfettamente me, magari senza sapere come mi chiamassi, come ognuno dei clienti di quel meraviglioso binario nove e tre quarti che era, è, e mi auguro sarà il suo bar vicino al portico del Meloncello.

La “s” sibilante, la postura variabile (ora curva, ora stentorea, sempre decorata da un sorriso aperto come una bella piazza), la battuta pronta, l’avanti e indré con la pasticceria a trasportare quell’apoteosi di luisone ipercaloriche che sarebbe riduttivo definire brioche. Sono madeleine. Proustiane.

L’incauto lettore che oggi si avvicinasse al Bar Sport di Stefano Benni, il breviario satirico della bolognesità da bancone, faticherebbe a orientarsi in una città che gli anni hanno sfigurato, fino a toglierle quasi tutte le stimmate che quel libro narrava così bene. Ma quel bar, per fortuna, esiste ancora. Col suo portato di bonomia e allegro cinismo, di gentilezza rotonda e urticante sfottò, che Giuseppe Billi incarnava nel suo mondo piccolo fatto di arredamento âgé, dolciumi tradizionali dalle meravigliose confezioni kitsch, biliardi abbandonati eppure mai smantellati.

Non ho mai visto, al Billi, allontanare un venditore extracomunitario. E non ho mai visto, nella calca variopinta ai piedi di San Luca, un solo acquirente che se ne lamentasse. C’era, c’è, una piccola idea di polis gioviale che quel ragazzo 76enne col berretto da pasticcere incarnava plasticamente. Con le stesse doti di sarcastica saggezza che ha trasmesso agli eredi, con quella levità (a volte greve come una crescentina) che i clienti si portavano da casa, intonsa, per rimetterla in circolo a beneficio di tutti. E di loro stessi.

C’era una certa idea di Bologna.

A Lorenzo e Antonio ho detto, scherzando ma mica tanto, che mi incatenerò alla serranda il giorno in cui dovessero ammainare la bandiera della loro sensibilità bottegaia. E sono (sensibilità, bottegaia) due complimenti. Due qualità profonde, se dispensate con allegria, per le quali c’è gente come me che attraversa, attraversava, attraverserà la città pur di andare a incassare una battuta, a scornarsi sulla politica, o sul Bologna, ad attentare con un sabadone a ciò che resta del fegato.

Chissà se quando aprì il bar, a quindici anni, col padre Mario, Giuseppe Billi sapeva che ne avrebbe fatto una specie di riserva culturale da proteggere. In ogni caso, sarebbe bello fargli un regalo alla memoria: restaurare quella parte di portico, ai lati dello stadio, che crollò un anno fa ed è ancora tristemente – solo lei – transennata.

Intanto, signor Giuseppe, grazie. E’ stato bello rifugiarsi a casa sua.

Uscito sul Corriere di Bologna