Che fare?
Che fare ora, dopo aver asciugato le lacrime per i camarades di Charlie Hebdo?
Che fare dopo aver pensato a quella volta con Wolinski, a Cuore, a cospetto del mito?
Che fare dopo aver realizzato che il dolore più insensato ti sembra che un senso quasi ce l’abbia, una giustificazione inconscia che passa per la rimozione, fin quando non tocca te, la tua vita, qualcosa che ti compete, che ami?
Oggi mi sono tenuto una frase che volevo scrivere: “Avete seppellito noi, noi seppelliremo voi. Con una risata”.
Era una risposta, alla domanda su cosa fare.
Ma era sbagliata.
Era la logica del noi e voi.
Esattamente ciò che sperano di introdurre quelli che qualcuno ha efficacemente definito “fascisti teocratici”.
Io, che fare, in fondo non lo so.
So cosa vorrei fare.
E so cosa mi piacerebbe facesse chiunque frequenti a qualunque titolo la satira, il pensiero diverso, il dubbio intinto nello sghignazzo.
Continuare.
Se possibile meglio di così.
Con più coraggio, e più equilibrio.
L’equilibrio che serve a evitare l’atteggiamento ritorsivo, la guerricciola battutara di religione, l’intolleranza di ritorno applicata al lavoro che ci è dato di fare.
Ma anche il coraggio di evitare l’autocensura che su certi temi si era scavata un posticino al caldo in ognuno di noi.
Perché un conto sono i monoteismi da operetta che un autore di qualunque cabotaggio affronta ogni giorno, quelli politici, sportivi, musicali, un conto è il quieto vivere nei confronti di un corpaccione insondabile di cui non si conoscevano le reazioni.
Ora le conosciamo, le reazioni.
E per onorare chi ha pagato la propria onestà intellettuale con la vita, abbiamo un piccolo imperativo categorico: tentare di essere all’altezza di chi è morto per la libertà.
Per l’uguaglianza.
Per la fraternità.
Potrebbe persino essere terapeutico per le nostre ferite.
Forse.
Perché quello siamo noi: l’esercito del forse.